Il tramonto del liberismo e la crisi del sistema Italia
Domenica, 19 ottobre 2008
Da più parti si sente dire che la crisi mondiale in atto avrà ricadute di lungo termine e ciò anche se i governi fossero in grado di individuare rapidamente una ricetta miracolosa in grado di fermare il vortice negativo che sta coinvolgendo le basi della finanza dei vari Paesi. Anche questo è il frutto avvelenato della globalizzazione, che nella trasnazionalità capitalistica della produzione e dei mercati è in grado di generare un effetto domino anche nelle situazioni di crisi.
Nel giro di qualche settimana s’è assistito al crollo del sistema finanziario americano, con l’implosione di colossi bancari di livello planetario. Si è registrato il fallimento di una delle nazioni più floride d’Europa, l’Islanda e si avvertono i sintomi di boccheggiamento dei potenti imperi economici emergenti Cina ed India, seguiti sul fil di lana dal Giappone, gigante ammalato ormai da tempo e mai in grado di riprendersi in modo definitivo dalla precedente crisi in cui era caduto alla fine degli anni ’90.
La crisi, tuttavia, non è finanziaria, o almeno non riguarda esclusivamente la finanza. Ciò che sta mettendo in luce la situazione in atto è che è in crisi l’intero modello economico liberista inaugurato negli anni ’70 e di cui sono stati sostenitori accaniti la signora Tatcher in Gran Bretagna e le diverse presidenze americane succedutesi nel tempo, e che ha costituito nel tempo un riferimento da emulare per tutti i governi del vecchio continente.
Francia, Germania, Spagna ed Italia per ultima, per citare i Paesi più significativi dell’area euro che hanno abbracciato il nuovo credo, hanno praticato nell’ultimo quindicennio politiche di sostanziale smobilitazione del pubblico a favore del privato nei più importanti settori dell’economia interna, con accelerazioni rapidissime nei settori dei servizi pubblici a valore aggiunto – telecomunicazioni, sanità, credito, trasporti, - lasciando ai privati la gestione di importantissimi quanto delicatissimi settori dell’economia, nell’intento di scaricare il pubblico dall’onere dei costi prodotti da un’inefficienza ormai endemica e di creare le condizioni per una concorrenzialità virtuosa, in grado di migliorare la qualità ed abbassare il prezzo di utilizzo per il cittadino-utente. Tale politica, tra l’altro, è rapidamente divenuta una sorta di vincolo nel quadro di un’Unione Europea legata da una moneta unica e da sottostanti patti di stabilità.
Naturalmente non tutti i Paesi aderenti all’area euro erano pronti allo stesso modo ad affrontare il percorso obbligato imposto dalle nuove regole monetarie e, con il senno di poi, è risultato evidente come l’Italia fosse un anello tra i più deboli della catena, considerata la fragilità dei suoi fondamentali ed il profondo divario tra Nord e Sud, che non ha mai trovato una vera soluzione dalla ormai lontana unificazione del Paese.
Sebbene non occorra essere studiosi ed esperti di scienze economiche per sapere che la debolezza di un’economia si vince con ricette stataliste in grado di armonizzare i processi di crescita e di consolidamento, la via italiana alla modernizzazione è stata realizzata con una sorta di privatizzazione selvaggia, spesso assai onerosa per i cittadini-contribuenti, chiamati a risanare le voragini creati dalla presenza pubblica nella guida di importanti settori dell’economia – chi non ha memoria delle svendite o delle regalie realizzate con lo smantellamento dell’IRI? – ed al contrario estremamente vantaggiosa per la schiera di piccoli capitalista rampanti disseminati per la provincia italica, molto spesso privi di mezzi propri ma ammanicati con istituti di credito compiacenti, pronti a pompare denaro liquido per finanziare le lucrose operazioni d’acquisizione. Quel che suona ancora peggio è che queste privatizzazioni di massa siano avvenute in assoluta assenza di regole e di vincoli per il mercato, al punto da essersi rivelate vere e proprie svendite al migliore (o meglio, sponsorizzato) offerente, che le ha rapidamente trasformate in affaristiche opportunità speculative, accantonando ogni attesa di miglioramento qualitativo e di riduzione di costo per i beneficiari dei servizi. Lì dove la liberalizzazione era riuscita a creare un lumicino di concorrenza, ben presto si sono costituiti accordi di cartello, che non sono certo stati scalfiti dai maldestri interventi delle varie authority, - pomposamente messe in piedi per accasare qualche trombato più che per vigilare sul mercato di competenza, per la strutturale carenza di regole di riferimento.
Il colpo di grazia, infine, lo ha inferto il trionfo elettorale di formazioni politiche – che probabilmente di politico avevano ben poco, ma che rispondevano a veri e propri comitati d’affari riusciti a colmare il vuoto di potere determinatosi con la famosa tangentopoli – portatrici di un verbo liberista incondizionato, pervicacemente protese ad annullare ogni strumento di controllo e di verifica del mercato, imbevute di una dottrina secondo la quale il mercato è in grado di autoregolamentarsi e di individuare i correttivi d’equilibrio.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con un regime di prezzi fuori da ogni controllo anche per i beni di prima necessità; con un mercato del lavoro a pezzi, nel quale trovare occupazione è divenuto pressoché impossibile e con una precarietà - che gli ipocriti si ostinano a spacciare per flessibilità – che non ha pari nel mondo occidentale; con un livello di salari tra i più bassi d’Europa; con una pubblica amministrazione pletorica, scarsamente professionale ed anche oggetto delle persecuzioni dei ministri di turno, certi di potersi guadagnare a basso prezzo le simpatie delle masse, che in questo gioco al massacro individuano i dipendenti pubblici come parassiti di cui sarebbe opportuno liberarsi; con una spesa pubblica che nonostante tutto continua implacabile a lievitare, sia perché avvinta nel perverso meccanismo di incremento dei prezzi dei beni e servizi attinti dal mercato privato, sia per lo spreco di nicchia a cui la politica centrale e locale non intende rinunciare; un livello di povertà galoppante con un divario sempre più ampio rispetto alla ricchezza concentrata nelle mani di pochi; con il cosiddetto stato sociale ridotto a mera dizione concettuale, dato che non è in grado di garantire persino asili nido ed un livello decente d’istruzione ai ricambi generazionali. In altre parole siamo allo sfascio totale e non c’è parvenza di iniziative che invertano la rotta.
In presenza di una crisi come quella in atto sarebbe auspicabile un ritorno dello stato nella gestione del mercato, attraverso la nazionalizzazione dei settori chiave o l’acquisizione di sostanziosi pacchetti partecipativi in grado di garantire all’azionista pubblico una posizione determinante nella definizione delle politiche gestionali. Allo stesso tempo dovrebbero essere assunte con rapidità ed immediatezza misure a sostegno dell’occupazione e del reddito, necessarie per garantire quel rilancio dei consumi alla base della ripresa produttiva. Tali iniziative, accompagnate da opportuni provvedimenti di riduzione del costo del denaro e della pressione fiscale potrebbero assicurare quell’ossigeno supplementare per il sistema economico e produttivo.
A ben guardare si ha invece la sensazione che l’attuale governo Berlusconi annaspi nella ricerca di soluzioni contraddittorie, tendenti esclusivamente a sostenere le categorie imprenditoriali con provvedimenti di riduzione della fiscalità, ma incapaci di mettere in moto i consumi, vero motore di ogni ripresa economica. Mentre sul lato occupazione e sostegno dei redditi si registrano progetti contenitivi della base occupazionale, che non possono non produrre conseguenze negative sulle condizioni di vita delle famiglie. La capacità di un sistema politico di rispondere effettivamente alle esigenze dei cittadini si evidenziano proprio nelle fasi critiche, non certo nei periodi di particolare benessere. E su questo piano ci sembra di poter concludere che la compagine Berlusconi, messa alla prova, sta evidenziando tutti i limiti di un liberismo definitivamente avviato sul viale del tramonto.
Nel giro di qualche settimana s’è assistito al crollo del sistema finanziario americano, con l’implosione di colossi bancari di livello planetario. Si è registrato il fallimento di una delle nazioni più floride d’Europa, l’Islanda e si avvertono i sintomi di boccheggiamento dei potenti imperi economici emergenti Cina ed India, seguiti sul fil di lana dal Giappone, gigante ammalato ormai da tempo e mai in grado di riprendersi in modo definitivo dalla precedente crisi in cui era caduto alla fine degli anni ’90.
La crisi, tuttavia, non è finanziaria, o almeno non riguarda esclusivamente la finanza. Ciò che sta mettendo in luce la situazione in atto è che è in crisi l’intero modello economico liberista inaugurato negli anni ’70 e di cui sono stati sostenitori accaniti la signora Tatcher in Gran Bretagna e le diverse presidenze americane succedutesi nel tempo, e che ha costituito nel tempo un riferimento da emulare per tutti i governi del vecchio continente.
Francia, Germania, Spagna ed Italia per ultima, per citare i Paesi più significativi dell’area euro che hanno abbracciato il nuovo credo, hanno praticato nell’ultimo quindicennio politiche di sostanziale smobilitazione del pubblico a favore del privato nei più importanti settori dell’economia interna, con accelerazioni rapidissime nei settori dei servizi pubblici a valore aggiunto – telecomunicazioni, sanità, credito, trasporti, - lasciando ai privati la gestione di importantissimi quanto delicatissimi settori dell’economia, nell’intento di scaricare il pubblico dall’onere dei costi prodotti da un’inefficienza ormai endemica e di creare le condizioni per una concorrenzialità virtuosa, in grado di migliorare la qualità ed abbassare il prezzo di utilizzo per il cittadino-utente. Tale politica, tra l’altro, è rapidamente divenuta una sorta di vincolo nel quadro di un’Unione Europea legata da una moneta unica e da sottostanti patti di stabilità.
Naturalmente non tutti i Paesi aderenti all’area euro erano pronti allo stesso modo ad affrontare il percorso obbligato imposto dalle nuove regole monetarie e, con il senno di poi, è risultato evidente come l’Italia fosse un anello tra i più deboli della catena, considerata la fragilità dei suoi fondamentali ed il profondo divario tra Nord e Sud, che non ha mai trovato una vera soluzione dalla ormai lontana unificazione del Paese.
Sebbene non occorra essere studiosi ed esperti di scienze economiche per sapere che la debolezza di un’economia si vince con ricette stataliste in grado di armonizzare i processi di crescita e di consolidamento, la via italiana alla modernizzazione è stata realizzata con una sorta di privatizzazione selvaggia, spesso assai onerosa per i cittadini-contribuenti, chiamati a risanare le voragini creati dalla presenza pubblica nella guida di importanti settori dell’economia – chi non ha memoria delle svendite o delle regalie realizzate con lo smantellamento dell’IRI? – ed al contrario estremamente vantaggiosa per la schiera di piccoli capitalista rampanti disseminati per la provincia italica, molto spesso privi di mezzi propri ma ammanicati con istituti di credito compiacenti, pronti a pompare denaro liquido per finanziare le lucrose operazioni d’acquisizione. Quel che suona ancora peggio è che queste privatizzazioni di massa siano avvenute in assoluta assenza di regole e di vincoli per il mercato, al punto da essersi rivelate vere e proprie svendite al migliore (o meglio, sponsorizzato) offerente, che le ha rapidamente trasformate in affaristiche opportunità speculative, accantonando ogni attesa di miglioramento qualitativo e di riduzione di costo per i beneficiari dei servizi. Lì dove la liberalizzazione era riuscita a creare un lumicino di concorrenza, ben presto si sono costituiti accordi di cartello, che non sono certo stati scalfiti dai maldestri interventi delle varie authority, - pomposamente messe in piedi per accasare qualche trombato più che per vigilare sul mercato di competenza, per la strutturale carenza di regole di riferimento.
Il colpo di grazia, infine, lo ha inferto il trionfo elettorale di formazioni politiche – che probabilmente di politico avevano ben poco, ma che rispondevano a veri e propri comitati d’affari riusciti a colmare il vuoto di potere determinatosi con la famosa tangentopoli – portatrici di un verbo liberista incondizionato, pervicacemente protese ad annullare ogni strumento di controllo e di verifica del mercato, imbevute di una dottrina secondo la quale il mercato è in grado di autoregolamentarsi e di individuare i correttivi d’equilibrio.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con un regime di prezzi fuori da ogni controllo anche per i beni di prima necessità; con un mercato del lavoro a pezzi, nel quale trovare occupazione è divenuto pressoché impossibile e con una precarietà - che gli ipocriti si ostinano a spacciare per flessibilità – che non ha pari nel mondo occidentale; con un livello di salari tra i più bassi d’Europa; con una pubblica amministrazione pletorica, scarsamente professionale ed anche oggetto delle persecuzioni dei ministri di turno, certi di potersi guadagnare a basso prezzo le simpatie delle masse, che in questo gioco al massacro individuano i dipendenti pubblici come parassiti di cui sarebbe opportuno liberarsi; con una spesa pubblica che nonostante tutto continua implacabile a lievitare, sia perché avvinta nel perverso meccanismo di incremento dei prezzi dei beni e servizi attinti dal mercato privato, sia per lo spreco di nicchia a cui la politica centrale e locale non intende rinunciare; un livello di povertà galoppante con un divario sempre più ampio rispetto alla ricchezza concentrata nelle mani di pochi; con il cosiddetto stato sociale ridotto a mera dizione concettuale, dato che non è in grado di garantire persino asili nido ed un livello decente d’istruzione ai ricambi generazionali. In altre parole siamo allo sfascio totale e non c’è parvenza di iniziative che invertano la rotta.
In presenza di una crisi come quella in atto sarebbe auspicabile un ritorno dello stato nella gestione del mercato, attraverso la nazionalizzazione dei settori chiave o l’acquisizione di sostanziosi pacchetti partecipativi in grado di garantire all’azionista pubblico una posizione determinante nella definizione delle politiche gestionali. Allo stesso tempo dovrebbero essere assunte con rapidità ed immediatezza misure a sostegno dell’occupazione e del reddito, necessarie per garantire quel rilancio dei consumi alla base della ripresa produttiva. Tali iniziative, accompagnate da opportuni provvedimenti di riduzione del costo del denaro e della pressione fiscale potrebbero assicurare quell’ossigeno supplementare per il sistema economico e produttivo.
A ben guardare si ha invece la sensazione che l’attuale governo Berlusconi annaspi nella ricerca di soluzioni contraddittorie, tendenti esclusivamente a sostenere le categorie imprenditoriali con provvedimenti di riduzione della fiscalità, ma incapaci di mettere in moto i consumi, vero motore di ogni ripresa economica. Mentre sul lato occupazione e sostegno dei redditi si registrano progetti contenitivi della base occupazionale, che non possono non produrre conseguenze negative sulle condizioni di vita delle famiglie. La capacità di un sistema politico di rispondere effettivamente alle esigenze dei cittadini si evidenziano proprio nelle fasi critiche, non certo nei periodi di particolare benessere. E su questo piano ci sembra di poter concludere che la compagine Berlusconi, messa alla prova, sta evidenziando tutti i limiti di un liberismo definitivamente avviato sul viale del tramonto.
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