Gabbie salariali – Le proposte indecenti
Venerdì, 14 agosto 2009
Era già tutto previsto. Le gabbie salariali proposte dal segretario confederale UIL, Loy, hanno già sollevato polemiche appassionate sia da parte dei fautori che da quella dei detrattori del meccanismo. Tra questi ultimi figura anche Angeletti, che ha bollato come «una polemica estiva, una stupidaggine impraticabile tecnicamente» la cervellotica proposta del suo collaboratore, seguito a ruota da Raffaele Bonanni, leader della CISL, che ha parlato di «ritorno all’Unione Sovietica, qualora si dovessero fissare per legge i salari scavalcando le parti sociali», e da Renata Polverini dell’UGL, che ritiene le gabbie «un errore che penalizzerebbe ulteriormente il Sud». Naturalmente la sentenza di Angeletti nei confronti di Loy non è stata seguita da alcun commento circa i provvedimenti che in ogni organizzazione seria sarebbe doveroso assumere a carico di chi, con le stupidaggini, mesta nel torbido e solleva polemiche, a dir poco pericolosissime, in tempi di forte crisi economica e di contrazione del mercato del lavoro.
Analogo l’approccio di Confindustria, che per voce di Giampaolo Galli, direttore dell’associazione degli industriali, sostiene senza appello: «Siamo contrari. Tali questioni debbono essere affrontate dalle parti sociali nell’ambito della contrattazione: la storia è chiusa».
Se queste sono le reazioni degli “addetti ai lavori”, non meno animose sono state le reazioni della politica, già divisa tra favorevoli e contrari, tra i sostenitori di un paese a doppia velocità per quanto riguarda i salari e tra coloro che condannano senza appello una proposta che finirebbe per secolarizzare il divario sociale ed economico tra il ricco Nord ed un Sud costantemente ansimante, condannato a livelli di sviluppo sociale sempre in bilico tra Europa e terzomondismo nord-africano.
C’è poi una certa stampa cui non è sembrato vero potersi infilare nello scontro con argomentazioni che di economico hanno ben poco, ma che ritengono che la differenza di costo d’una tazzina di caffè o il prezzo d’un mazzo di lattuga tra Milano e Palermo siano gli elementi a supporto e conferma che una differenziazione dei salari sarebbe più che giustificata. Poco rileva per questi frequentatori occasionali di economia che la questione posta in quei termini non costituisca che la paradossale inversione dei termini del problema: in una situazione di libero mercato i prezzi si determinano in base all’incrocio di domanda e offerta e non sulla base di imposizioni da parte di produttori o utilizzatori. Nel Sud, dunque, vi è un’offerta di alcuni beni largamente più elevata di quanto la domanda posa assorbire e ciò determina un abbassamento del prezzo finale per quei beni. E’ una prova di questa regola di mercato il prezzo della maggior parte dei prodotti dell’agricoltura, decisamente più contenuto al Sud rispetto al Nord. Analogo processo riguarda il prezzo dei beni durevoli e d’investimento: se si guarda, per esempio, al prezzo delle abitazioni al Nord ben si comprende come politiche di speculazione delle aree edificabili, piani regolatori stretti, sistemi di controllo pubblici contro l’abusivismo, hanno determinato una forte lievitazione del prezzo degli immobili, spinti altresì da una domanda crescente. Al Sud l’abusivismo diffuso, il ritardo con il quale sono stati varati i piani regolatori (in qualche caso, se n’è ancora in attesa), la connivenza ed il lassismo della pubblica amministrazione, gli interessi malavitosi ed una domanda più rarefatta, hanno determinato una lievitazione dei prezzi decisamente più contenuta.
V’è piuttosto da dire che il paese si muove sì a due velocità, ma con specifico riferimento al tasso d’inflazione, decisamente più marcato nelle aree del Nord, dove le disponibilità reddituali, derivanti da un mercato del lavoro più florido e da opportunità non certo comparabili a quelle del Sud “straccione”, sono decisamente più elevate.
Il dibattito è comunque divenuto rapidamente cibo prelibato per i provetti pensatori della Lega, ai quali non è parso vero di trovare finalmente una sponda persino sindacale per sostenere la rilevanza dell’ennesima idiozia razzista. Certamente la Lega ha tutto l’interesse a spingere per una soluzione differenziata dei salari, un po’ per incentivare la riapertura dei flussi migratori dei disperati del Sud verso il Nord, nella segreta speranza così di sostituire la numerosa manodopera extracomunitaria, pagata pochissimo e in nero ma qualitativamente scadente, con la preferibile manodopera meridionale. Dall’altro lato, un livello di salari più bassi al Sud non potrebbe non determinare un effetto emulazione al Nord, favorito da un’offerta di manodopera proveniente da aree a remunerazione più bassa e disponibile, almeno nel medio termine, a prestare le proprie braccia per un compenso più contenuto per quanto più elevato di quello previsto nelle regioni di provenienza.
In verità, se solo si volesse affrontare l’irrisolta questione meridionale fuori dagli usuali schemi clientelari e malavitosi con cui si è gestita dall’unità d’Italia, occorrerebbe pensare ad un sistema di meccanismi di sviluppo delle attività produttive meridionali, tale da realizzare nel breve-medio termine un effetto alone sui processi di calmierazione e stabilizzazione dei prezzi di molti beni al Nord. Sarebbe dunque necessaria una politica del credito selettiva ma di sostegno, che funga d’attrazione per nuovi insediamenti produttivi; misure efficaci di alleggerimento fiscale dei redditi da lavoro, con particolare riferimento a quelli derivanti dalla contrattazione decentrata; facilitazioni all’esportazione della produzione; provvedimenti di defiscalizzazione degli utili reinvestiti; e così dicendo. Naturalmente, nessuna misura potrà ritenersi efficace qualora non mutino radicalmente i criteri inqualificabili con i quali sino ad oggi sono stati gestiti il credito, il sistema della spesa pubblica, l’organizzazione degli apparati della pubblica amministrazione preposti ai controlli ed alla certificazione dei progetti, gli interventi di natura infrastrutturale e quanto costituisce lo scenario nel quale si innestano le politiche di sviluppo industriale.
Ciò che appare evidentemente distante dalla percezione dei fautori di un sistema in grado di riequilibrare i ritardi dello sviluppo meridionale con salari differenziati e con provvedimenti ghettizzanti è l’incapacità di visualizzare le cause del ritardo in cui versa il Sud, ritardo del quale hanno beneficiato i potentati politici e le mafie di cui tali potentati sono diretta espressione. La presa d’atto di questi perversi fenomeni di cancrenosa devianza, nella quale sono fioriti sprechi di denaro pubblico, un mercato del lavoro clientelare, un accesso al sistema creditizio basato sul ricatto e la tangente, un’industria fragile ed esposta al taglieggiamento della malavita organizzata, - giusto per citare alcuni dei gravissimi problemi che affliggono il Mezzogiorno d’Italia, - dovrebbe imporre misure radicali di revisione della politica nazionale, misure coraggiose volte a recidere gli anelli della catena che lega interessi inconfessabili. Ed è con questa catena che si ancora saldamente anche la cultura sociale dominante, sfiduciata irrimediabilmente della capacità di ricevere risposte positive alle innumerevoli situazioni di disagio denunciate nel tempo, e sempre più disponibile a riconfermare il consenso ai propri aguzzini, visti comunque come il mal minore rispetto alla latitanza delle istituzioni.Non v’è paese in Europa che non abbia un Sud, ma non v’è Sud in Europa che possa paragonarsi al nostro Mezzogiorno, così come non risulta esserci tra i paesi di civiltà occidentale una così lunga storia di distrazioni, dimenticanze, sprechi, ladrocini e malefatte come quelle perpetrate dai governi nostrani alla questione meridionale, senza alcuna differenza di colorazione politica, in oltre un secolo di d’unità d’Italia. Intervenire sui livelli salariali, in questa prospettiva, equivale ancora una volta a sferrare un colpo micidiale alle speranze di milioni di persone fino ad oggi condannate a vivere in un aggregato socio-economico di categoria minore.
(nella foto, il ministro Roberto Calderoli, nell'atto di ostentare con soddisfazione il petto per l'ennesima "l'intelligente" trovata)
Era già tutto previsto. Le gabbie salariali proposte dal segretario confederale UIL, Loy, hanno già sollevato polemiche appassionate sia da parte dei fautori che da quella dei detrattori del meccanismo. Tra questi ultimi figura anche Angeletti, che ha bollato come «una polemica estiva, una stupidaggine impraticabile tecnicamente» la cervellotica proposta del suo collaboratore, seguito a ruota da Raffaele Bonanni, leader della CISL, che ha parlato di «ritorno all’Unione Sovietica, qualora si dovessero fissare per legge i salari scavalcando le parti sociali», e da Renata Polverini dell’UGL, che ritiene le gabbie «un errore che penalizzerebbe ulteriormente il Sud». Naturalmente la sentenza di Angeletti nei confronti di Loy non è stata seguita da alcun commento circa i provvedimenti che in ogni organizzazione seria sarebbe doveroso assumere a carico di chi, con le stupidaggini, mesta nel torbido e solleva polemiche, a dir poco pericolosissime, in tempi di forte crisi economica e di contrazione del mercato del lavoro.
Analogo l’approccio di Confindustria, che per voce di Giampaolo Galli, direttore dell’associazione degli industriali, sostiene senza appello: «Siamo contrari. Tali questioni debbono essere affrontate dalle parti sociali nell’ambito della contrattazione: la storia è chiusa».
Se queste sono le reazioni degli “addetti ai lavori”, non meno animose sono state le reazioni della politica, già divisa tra favorevoli e contrari, tra i sostenitori di un paese a doppia velocità per quanto riguarda i salari e tra coloro che condannano senza appello una proposta che finirebbe per secolarizzare il divario sociale ed economico tra il ricco Nord ed un Sud costantemente ansimante, condannato a livelli di sviluppo sociale sempre in bilico tra Europa e terzomondismo nord-africano.
C’è poi una certa stampa cui non è sembrato vero potersi infilare nello scontro con argomentazioni che di economico hanno ben poco, ma che ritengono che la differenza di costo d’una tazzina di caffè o il prezzo d’un mazzo di lattuga tra Milano e Palermo siano gli elementi a supporto e conferma che una differenziazione dei salari sarebbe più che giustificata. Poco rileva per questi frequentatori occasionali di economia che la questione posta in quei termini non costituisca che la paradossale inversione dei termini del problema: in una situazione di libero mercato i prezzi si determinano in base all’incrocio di domanda e offerta e non sulla base di imposizioni da parte di produttori o utilizzatori. Nel Sud, dunque, vi è un’offerta di alcuni beni largamente più elevata di quanto la domanda posa assorbire e ciò determina un abbassamento del prezzo finale per quei beni. E’ una prova di questa regola di mercato il prezzo della maggior parte dei prodotti dell’agricoltura, decisamente più contenuto al Sud rispetto al Nord. Analogo processo riguarda il prezzo dei beni durevoli e d’investimento: se si guarda, per esempio, al prezzo delle abitazioni al Nord ben si comprende come politiche di speculazione delle aree edificabili, piani regolatori stretti, sistemi di controllo pubblici contro l’abusivismo, hanno determinato una forte lievitazione del prezzo degli immobili, spinti altresì da una domanda crescente. Al Sud l’abusivismo diffuso, il ritardo con il quale sono stati varati i piani regolatori (in qualche caso, se n’è ancora in attesa), la connivenza ed il lassismo della pubblica amministrazione, gli interessi malavitosi ed una domanda più rarefatta, hanno determinato una lievitazione dei prezzi decisamente più contenuta.
V’è piuttosto da dire che il paese si muove sì a due velocità, ma con specifico riferimento al tasso d’inflazione, decisamente più marcato nelle aree del Nord, dove le disponibilità reddituali, derivanti da un mercato del lavoro più florido e da opportunità non certo comparabili a quelle del Sud “straccione”, sono decisamente più elevate.
Il dibattito è comunque divenuto rapidamente cibo prelibato per i provetti pensatori della Lega, ai quali non è parso vero di trovare finalmente una sponda persino sindacale per sostenere la rilevanza dell’ennesima idiozia razzista. Certamente la Lega ha tutto l’interesse a spingere per una soluzione differenziata dei salari, un po’ per incentivare la riapertura dei flussi migratori dei disperati del Sud verso il Nord, nella segreta speranza così di sostituire la numerosa manodopera extracomunitaria, pagata pochissimo e in nero ma qualitativamente scadente, con la preferibile manodopera meridionale. Dall’altro lato, un livello di salari più bassi al Sud non potrebbe non determinare un effetto emulazione al Nord, favorito da un’offerta di manodopera proveniente da aree a remunerazione più bassa e disponibile, almeno nel medio termine, a prestare le proprie braccia per un compenso più contenuto per quanto più elevato di quello previsto nelle regioni di provenienza.
In verità, se solo si volesse affrontare l’irrisolta questione meridionale fuori dagli usuali schemi clientelari e malavitosi con cui si è gestita dall’unità d’Italia, occorrerebbe pensare ad un sistema di meccanismi di sviluppo delle attività produttive meridionali, tale da realizzare nel breve-medio termine un effetto alone sui processi di calmierazione e stabilizzazione dei prezzi di molti beni al Nord. Sarebbe dunque necessaria una politica del credito selettiva ma di sostegno, che funga d’attrazione per nuovi insediamenti produttivi; misure efficaci di alleggerimento fiscale dei redditi da lavoro, con particolare riferimento a quelli derivanti dalla contrattazione decentrata; facilitazioni all’esportazione della produzione; provvedimenti di defiscalizzazione degli utili reinvestiti; e così dicendo. Naturalmente, nessuna misura potrà ritenersi efficace qualora non mutino radicalmente i criteri inqualificabili con i quali sino ad oggi sono stati gestiti il credito, il sistema della spesa pubblica, l’organizzazione degli apparati della pubblica amministrazione preposti ai controlli ed alla certificazione dei progetti, gli interventi di natura infrastrutturale e quanto costituisce lo scenario nel quale si innestano le politiche di sviluppo industriale.
Ciò che appare evidentemente distante dalla percezione dei fautori di un sistema in grado di riequilibrare i ritardi dello sviluppo meridionale con salari differenziati e con provvedimenti ghettizzanti è l’incapacità di visualizzare le cause del ritardo in cui versa il Sud, ritardo del quale hanno beneficiato i potentati politici e le mafie di cui tali potentati sono diretta espressione. La presa d’atto di questi perversi fenomeni di cancrenosa devianza, nella quale sono fioriti sprechi di denaro pubblico, un mercato del lavoro clientelare, un accesso al sistema creditizio basato sul ricatto e la tangente, un’industria fragile ed esposta al taglieggiamento della malavita organizzata, - giusto per citare alcuni dei gravissimi problemi che affliggono il Mezzogiorno d’Italia, - dovrebbe imporre misure radicali di revisione della politica nazionale, misure coraggiose volte a recidere gli anelli della catena che lega interessi inconfessabili. Ed è con questa catena che si ancora saldamente anche la cultura sociale dominante, sfiduciata irrimediabilmente della capacità di ricevere risposte positive alle innumerevoli situazioni di disagio denunciate nel tempo, e sempre più disponibile a riconfermare il consenso ai propri aguzzini, visti comunque come il mal minore rispetto alla latitanza delle istituzioni.Non v’è paese in Europa che non abbia un Sud, ma non v’è Sud in Europa che possa paragonarsi al nostro Mezzogiorno, così come non risulta esserci tra i paesi di civiltà occidentale una così lunga storia di distrazioni, dimenticanze, sprechi, ladrocini e malefatte come quelle perpetrate dai governi nostrani alla questione meridionale, senza alcuna differenza di colorazione politica, in oltre un secolo di d’unità d’Italia. Intervenire sui livelli salariali, in questa prospettiva, equivale ancora una volta a sferrare un colpo micidiale alle speranze di milioni di persone fino ad oggi condannate a vivere in un aggregato socio-economico di categoria minore.
(nella foto, il ministro Roberto Calderoli, nell'atto di ostentare con soddisfazione il petto per l'ennesima "l'intelligente" trovata)
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