Il bavaglio all’informazione
Mercoled', 21 luglio 2010
Pubblichiamo un articolo di Massimo Giannini, vice direttore de la Repubblica, che sintetizza la situazione relativa alla cosiddetta legge bavaglio sull’informazione in discussione alla Camera.
Vince la libertà non la legalità
di Massimo Giannini
"QUESTA legge non può passare, e non passerà", aveva scritto "Repubblica" all'inizio della battaglia sulle intercettazioni telefoniche. Non era un ideologico "grido di battaglia" contro la legge-bavaglio voluta a tutti i costi da Silvio Berlusconi, che minaccia i diritti di libertà e i principi di legalità. Era invece una rischiosa ma convinta "scommessa" sulla forza della democrazia. La scommessa racchiudeva, da una parte, un atto di fiducia verso le istituzioni repubblicane, nonostante le continue aggressioni del presidente del Consiglio. Dall'altra, un investimento sull'opinione pubblica, nonostante le continue manipolazioni dell'agenzia Stefani berlusconiana.
È ancora presto per trarre conclusioni definitive: l'iconografia del Caimano ci ricorda che proprio nei momenti più drammatici il colpo di coda è sempre possibile. Ma allo stato degli atti, la giornata di ieri dice che almeno una parte di quella scommessa è stata vinta. Per ora Berlusconi incassa una sconfitta durissima, dentro la sua maggioranza e di fronte al Paese. Il governo, suo malgrado, è costretto a far suoi gli emendamenti sul diritto di cronaca. Se la Camera li voterà e li approverà, i diritti di libertà saranno salvi.
I giornali potranno continuare a fare il proprio dovere, cioè informare i cittadini su tutte le inchieste che svelano le trame del potere politico, economico e criminale. I cittadini potranno continuare ad esercitare un loro diritto, cioè essere informati di tutto ciò che le intercettazioni svelano sul malaffare della "casta". È una buona notizia. Sul piano della politica, conferma la tenuta dell'asse istituzionale tra il presidente della Repubblica e il presidente della Camera. Napolitano e Fini, in modi diversi e con ruoli diversi, sono riusciti a fermare il tentativo tecnicamente eversivo del premier di stravolgere un principio garantito dalla Costituzione all'articolo 21. Sul piano della democrazia, conferma che a volte anche il "berlusconismo da combattimento", quello più pericoloso perché tendenzialmente dispotico e irresponsabile, può essere fermato.
La modifica alla legge proposta dalla presidente della commissione Giustizia, la finiana Giulia Bongiorno, è convincente dal punto di vista culturale e procedurale. Cade la norma liberticida che vietava ai giornali di pubblicare qualunque intercettazione fino alla richiesta di rinvio a giudizio o all'inizio dell'udienza preliminare. Al suo posto, l'emendamento prevede la cosiddetta "udienza-stralcio", con la quale le parti (difesa ed accusa) decidono insieme davanti al giudice (durante le indagini preliminari e prima del dibattimento) quali siano le intercettazioni "rilevanti" (dunque pubbliche e pubblicabili) e quelle irrilevanti (dunque da secretare o da distruggere). Una norma di assoluto buon senso.
La stessa che aveva proposto su questo giornale Giuseppe D'Avanzo due anni fa, e che "Repubblica" da allora ha sempre rilanciato con forza, in editoriali, convegni e trasmissioni televisive. Scriveva D'Avanzo, nel suo commento intitolato "La via maestra per una riforma": "Occorre separare le conversazioni utili a formare la prova da quelle, non utili, relative alla vita privata degli indagati e delle persone estranee alle indagini, le cui conversazioni siano state raccolte per caso. Bisogna separare le prime dalle seconde dinanzi a un giudice alla presenza delle difese e, per impedire la divulgazione e la pubblicazione delle conversazioni non utili alle indagini, è necessario estendere a questa procedura il vincolo della segretezza, prevedendo sanzioni severe per i trasgressori...".
L'articolo uscì l'11 giugno del 2008. Un'epoca "non sospetta", per così dire. Che dimostra quanto sia strumentale l'ideologia propagandistica usata da Berlusconi per spiegare la necessità e l'urgenza di questa legge-bavaglio: la presunta "tutela della privacy". E che dimostra quanto sia debole il pensiero di quegli intellettuali gregari che in queste settimane si sono affrettati a salire sul carro del premier, proprio in nome di un intangibile (e perciò insostenibile) "primato" della privacy. Di cui al premier (con tutta evidenza) non interessa nulla. E di cui "Repubblica", invece, si è fatta responsabilmente e concretamente carico da almeno due anni.
Ma se con questo emendamento cade almeno il "bavaglio", questa legge non rinuncia affatto a colpire il "bersaglio" che riguarda l'agibilità delle intercettazioni da parte della magistratura. Questa parte della "scommessa" appare tuttora irrimediabilmente persa. Se questa legge sarà approvata, pur con tutte le modifiche apportate anche su questo versante dai volonterosi finiani, i principi di legalità ne usciranno gravemente lesionati. Non basta aver prolungato le "proroghe" alle intercettazioni di 15 giorni in 15 giorni, dopo i 75 categoricamente fissati come limite da questo dissennato provvedimento: per i pm questo sarà un ulteriore intralcio alle indagini, e non solo di natura burocratica. Non basta aver parzialmente corretto l'abominio della "prova diabolica" richiesta per poter procedere alle intercettazioni ambientali, o aver ripristinato la procedibilità innescata dalle intercettazioni sui cosiddetti "reati spia".
Rimane l'impianto fortemente limitativo all'uso di questo prezioso strumento di investigazione e di raccolta delle prove, come confermano tutti i magistrati impegnati in prima linea persino nei reati contro le mafie, da Pietro Grasso ad Antonio Ingroia. Questa "danno", enorme per la sicurezza del Paese e incalcolabile per la difesa della legalità, è stato ridotto. Ma in misura tuttora intollerabile per uno Stato di diritto. E allora, cosa resta di questa pessima legge, se non l'insensata ma gravissima deformità che arreca al nostro sistema giuridico? Cosa resta se non l'innaturale ma profondissima torsione delle regole che sovrintendono alla prevenzione e alla persecuzione di tutte le forme di criminalità, organizzata e comune, politica ed economica? Questo sembra, tuttora, il prezzo da pagare alla "lucida follia" berlusconiana. Il premier, ieri, ha sostanzialmente dichiarato la "resa". Ha ammesso che questa legge, così emendata, non serve a niente: voleva impedire che "milioni di cittadini" venissero spiati, e "per colpa" delle modifiche imposte da Fini e ispirate da Napolitano non sarà così. "Gli italiani continueranno a non poter parlare al telefono", ha commentato il presidente del Consiglio, spacciando all'opinione pubblica l'ennesima menzogna.
Ma aggiungendo una chiosa che non può non preoccupare chiunque abbia a cuore il destino di questo Paese: se l'operazione legge-bavaglio non gli è riuscita e non gli riuscirà come lui avrebbe voluto, la colpa è di "quell'architettura costituzionale italiana basata sull'equilibrio tra i diversi poteri, che impedisce l'ammodernamento dell'Italia". Non è solo la grottesca auto-assoluzione di un leader ormai sprofondato nel regno dell'irrealtà, che maschera la sua difficoltà e la sua incapacità con il logoro e inservibile mantra del "non mi lasciano governare". Sembra anche la guerresca minaccia di un uomo disperato, perciò pronto a rovesciare tutti i tavoli. E pronto ad attaccare un principio essenziale, forgiato in quattro secoli di storia occidentale, dai padri pellegrini del Mayflower nel 1620 ai padri fondatori della Repubblica nel 1948: la divisione e il bilanciamento dei poteri. Il cuore di tutte le costituzioni, l'essenza di tutte le democrazie. Questa, qui e nei prossimi mesi, rischia di essere la vera posta in gioco. È bene che gli italiani lo sappiano.
(nella foto, Massimo Giannini, vice direttore di la Repubblica)
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