L’agonia del caimano
Venerdì, 6 agosto 2010
Comunque si giri la frittata, una cosa è certa in modo inoppugnabile: il cavaliere Silvio Berlusconi, e con lui il berlusconismo, è ormai sulla strada del tramonto definitivo, battuto, o meglio abbattuto, da quell’alleato dal quale mai forse si sarebbe atteso uno smarcamento così plateale e tumultuoso. Ma contrariamente a quanto potrebbe concludersi sull’onda plagiante di una stampa di regime, interpretata dai due scendiletto di carta del tronfio personaggio, Il Giornale e Libero, e dai megafoni prezzolati dei suoi cortigiani, il suo declino non è certo da attribuire alle pugnalate alle spalle di Fini e dei suoi dissidenti, - una colorita riedizione delle fatidiche idi di marzo, - quanto al totale fallimento della sua maniera di interpretare la politica e l’amministrazione della cosa pubblica, troppo spesso confuse con la rigida disciplina aziendale nella quale il padrone decide a proprio piacimento, perché rischia i suoi dané e s’avvale del protervo e spocchioso ghe pensi mi.
Governare una nazione non equivale a dirigere un’impresa, e il Consiglio dei Ministri non è un consiglio d’amministrazione all’interno del quale si può decidere con autoritaria disinvoltura di liberarsi di collaboratori scomodi o sgraditi. L’errore di Berlusconi, - se mai sia possibile ridurre ad unico fattore le centinai di corbellerie perpetrate dal personaggio, - è l’aver interpretato lo stato come una caserma, con tanto di generali e sergenti a cui distribuire ordini perentori, senza dialogo e senza lasciare alcuno spazio a quel virtuoso contraddittorio dal quale si genera il consenso. Una caserma vecchio stampo, nella quale un capo tirannico ha imposto linee d’azione scriteriate e opportunistiche, nella convinzione che la fama e l’ammirazione guadagnatasi nella vita civile fossero un valido passaporto per consentirgli di mutuare analogo successo indossando una consunta divisa da gerarca.
Il Cavaliere è caduto da solo, sotto i maldestri colpi sparati alla cieca contro chiunque abbia inteso mettere in discussione la sua concezione dello stato fatta di soperchierie, spadroneggiamenti, connivenze non sempre cristalline, abusi di ogni genere alla legalità per eludere la giustizia, insulti volgari al dissenso e altre ribaldaggini simili, nei panni del tirannello narciso non più in voga
Invano continua a far suonare il disco rotto dell’autoincensamento, rammentando agli Italiani, - che evidentemente considera meno che idioti, - che il suo è stato il «governo del fare», quello che «non ha messo le mani nelle tasche dei cittadini», come se inchiodare un intero parlamento per discutere di legittimo impedimento, processo breve e altre amenità simili possa costituire prova di un agire per il bene della collettività e non sia, piuttosto, la chiara evidenza di una sordida lotta per mettersi al riparo dai numerosi processi cui implacabilmente sarebbe sottoposto qualunque signor Rossi per uno qualsiasi dei reati di cui lui è accusato.
E se la squallida operazione Alitalia o le decine di ruberie perpetrate dai suoi fedelissimi con tangenti e mazzette non rappresentano un modo per mettere le mani nel portafoglio dei cittadini, dato che l'onere viene forzosamente addossato al contribuente, allora è proprio vero che gli asini volano o che le leggi di gravità sono pure teorie.
La verità è che il nostro personaggio non è uno sprovveduto, uno che alla fine di una tentata esperienza s’è visto perdente per fatalità o tradimento di coloro sui quali faceva maggior conto, ma è un furbone di tre cotte, che, conscio della gravità delle cose di cui è accusato e dei pericoli derivanti da un’eventuale condanna per quelle accuse, s’è messo in politica solo per avvalersi della vergognosa immunità di cui godono coloro che arraffano uno scranno e, per fugare ogni rischio, ha messo in croce l’intero Paese, nel tentativo di farsi riconoscere leggi ad personam che lo mettessero definitivamente al riparo da ogni pericolo.
Si faccia caso all’ultima sortita sulla questione dell’eventuale ricorso alle urne: prima del 14 dicembre prossimo, cioè prima che la Consulta si pronunci contro la vergognosa legge sul legittimo impedimento dichiarandone l’illegittimità. L’eventuale ritorno alle urne vanificherebbe quella sentenza e rimetterebbe in moto nel nuovo parlamento la giostra dell’immunità e quella dello studio di qualche nuovo provvedimento, teso a garantirgli quell’impunità che spasmodicamente cerca da sempre.
Nel frattempo e com’è consuetudine, le armate dei lacchè del Cavaliere si sono scatenate contro Fini e i suoi, preoccupate del calo di consensi che inevitabilmente produrrà la fuoruscita dell’ex leader di AN e cofondatore del PdL al partito e, con esemplare correttezza, accusatori dell’altrui giustizialismo ad orologeria, hanno iniziato una vergognosa campagna di denigrazione a puntate, tesa a screditare l’immagine del presidente della Camera.
E’ questo un ulteriore indicatore di quanto la cricca che s’annida al vertice del PdL abbia accusato il colpo e tenti di parare gli effetti della disaffezione montante dell'elettorato, che non sopporta più che le cronache politiche siano costantemente invase dalle squallide storie di sesso del suo leader o delle meschine vicende di giudiziarie di Scajola, Verdini, Dell’Utri, Caliendo, Cosentino, Brancher, Bertolaso e tante altre mezze tacche che gravitano alla greppia di Arcore, e che nessuno faccia invece qualcosa di concreto per il lavoro e l’occupazione.
Quando due anni or sono le urne sfornarono il nefasto risultato della vittoria berlusconiana fummo amaramente convinti che, tutto sommato, quel risultato alla lunga sarebbe stato motivo di grande disappunto per quanti scioccamente avevano votato l’Illusionista di Arcore, pur se i disastri che con quella scelta si sarebbero prodotti avrebbero finito per coinvolgere anche quanti s’erano espressi diversamente. I fatti ci hanno dato ragione, ma nel prendere atto della giustezza della previsione non c’è da rallegrarsi, non fosse che per il costo che la collettività tutta sta sopportando da quella sciagurata vittoria e per la consapevolezza che, cessato il vento della follia, occorreranno moltissimi anni perché il Paese possa riacquistare una fisionomia di normalità e si faccia definitiva pulizia del malessere sociale ormai profondamente radicato.
Governare una nazione non equivale a dirigere un’impresa, e il Consiglio dei Ministri non è un consiglio d’amministrazione all’interno del quale si può decidere con autoritaria disinvoltura di liberarsi di collaboratori scomodi o sgraditi. L’errore di Berlusconi, - se mai sia possibile ridurre ad unico fattore le centinai di corbellerie perpetrate dal personaggio, - è l’aver interpretato lo stato come una caserma, con tanto di generali e sergenti a cui distribuire ordini perentori, senza dialogo e senza lasciare alcuno spazio a quel virtuoso contraddittorio dal quale si genera il consenso. Una caserma vecchio stampo, nella quale un capo tirannico ha imposto linee d’azione scriteriate e opportunistiche, nella convinzione che la fama e l’ammirazione guadagnatasi nella vita civile fossero un valido passaporto per consentirgli di mutuare analogo successo indossando una consunta divisa da gerarca.
Il Cavaliere è caduto da solo, sotto i maldestri colpi sparati alla cieca contro chiunque abbia inteso mettere in discussione la sua concezione dello stato fatta di soperchierie, spadroneggiamenti, connivenze non sempre cristalline, abusi di ogni genere alla legalità per eludere la giustizia, insulti volgari al dissenso e altre ribaldaggini simili, nei panni del tirannello narciso non più in voga
Invano continua a far suonare il disco rotto dell’autoincensamento, rammentando agli Italiani, - che evidentemente considera meno che idioti, - che il suo è stato il «governo del fare», quello che «non ha messo le mani nelle tasche dei cittadini», come se inchiodare un intero parlamento per discutere di legittimo impedimento, processo breve e altre amenità simili possa costituire prova di un agire per il bene della collettività e non sia, piuttosto, la chiara evidenza di una sordida lotta per mettersi al riparo dai numerosi processi cui implacabilmente sarebbe sottoposto qualunque signor Rossi per uno qualsiasi dei reati di cui lui è accusato.
E se la squallida operazione Alitalia o le decine di ruberie perpetrate dai suoi fedelissimi con tangenti e mazzette non rappresentano un modo per mettere le mani nel portafoglio dei cittadini, dato che l'onere viene forzosamente addossato al contribuente, allora è proprio vero che gli asini volano o che le leggi di gravità sono pure teorie.
La verità è che il nostro personaggio non è uno sprovveduto, uno che alla fine di una tentata esperienza s’è visto perdente per fatalità o tradimento di coloro sui quali faceva maggior conto, ma è un furbone di tre cotte, che, conscio della gravità delle cose di cui è accusato e dei pericoli derivanti da un’eventuale condanna per quelle accuse, s’è messo in politica solo per avvalersi della vergognosa immunità di cui godono coloro che arraffano uno scranno e, per fugare ogni rischio, ha messo in croce l’intero Paese, nel tentativo di farsi riconoscere leggi ad personam che lo mettessero definitivamente al riparo da ogni pericolo.
Si faccia caso all’ultima sortita sulla questione dell’eventuale ricorso alle urne: prima del 14 dicembre prossimo, cioè prima che la Consulta si pronunci contro la vergognosa legge sul legittimo impedimento dichiarandone l’illegittimità. L’eventuale ritorno alle urne vanificherebbe quella sentenza e rimetterebbe in moto nel nuovo parlamento la giostra dell’immunità e quella dello studio di qualche nuovo provvedimento, teso a garantirgli quell’impunità che spasmodicamente cerca da sempre.
Nel frattempo e com’è consuetudine, le armate dei lacchè del Cavaliere si sono scatenate contro Fini e i suoi, preoccupate del calo di consensi che inevitabilmente produrrà la fuoruscita dell’ex leader di AN e cofondatore del PdL al partito e, con esemplare correttezza, accusatori dell’altrui giustizialismo ad orologeria, hanno iniziato una vergognosa campagna di denigrazione a puntate, tesa a screditare l’immagine del presidente della Camera.
E’ questo un ulteriore indicatore di quanto la cricca che s’annida al vertice del PdL abbia accusato il colpo e tenti di parare gli effetti della disaffezione montante dell'elettorato, che non sopporta più che le cronache politiche siano costantemente invase dalle squallide storie di sesso del suo leader o delle meschine vicende di giudiziarie di Scajola, Verdini, Dell’Utri, Caliendo, Cosentino, Brancher, Bertolaso e tante altre mezze tacche che gravitano alla greppia di Arcore, e che nessuno faccia invece qualcosa di concreto per il lavoro e l’occupazione.
Quando due anni or sono le urne sfornarono il nefasto risultato della vittoria berlusconiana fummo amaramente convinti che, tutto sommato, quel risultato alla lunga sarebbe stato motivo di grande disappunto per quanti scioccamente avevano votato l’Illusionista di Arcore, pur se i disastri che con quella scelta si sarebbero prodotti avrebbero finito per coinvolgere anche quanti s’erano espressi diversamente. I fatti ci hanno dato ragione, ma nel prendere atto della giustezza della previsione non c’è da rallegrarsi, non fosse che per il costo che la collettività tutta sta sopportando da quella sciagurata vittoria e per la consapevolezza che, cessato il vento della follia, occorreranno moltissimi anni perché il Paese possa riacquistare una fisionomia di normalità e si faccia definitiva pulizia del malessere sociale ormai profondamente radicato.
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