martedì, settembre 28, 2010

Lo scemo del villaggio

Martedì, 28 settembre 2010
C’è da credere che il signor Umberto Bossi, nonché ministro della Repubblica con tano di appartamento in Roma per ragioni di servizio, debba avere la fissa per le battute infelici, sebbene convinto d’esser spiritoso e persino divertente.
Sono anni, infatti, che spara corbellerie a raffica sui Padani e l’invenzione etnico geografica che abitano, sulla supremazia economica, morale e di altre fregnacce del Nord rispetto al Sud, sulle propensioni ladresche di Roma rispetto ai casti e puri borghi dell’Oltre Po.
Certamente scherza, quantunque irriti quel calcare la mano contro i docenti meridionali, i pubblici dipendenti del Sud, i posti nei concorsi e persino nei mezzi pubblici da riservare ai nativi del Nord, ma quando questo vezzo da furbesca affabulazione degli sprovveduti che si bevono le stupidaggini che dice diviene oltraggio bell’e buono, parlare ancora di celia o di goliardia appare sinceramente uno sproposito.
Se poi le corbellerie che declama provengono dalla bocca di un ministro, pur di uno disgraziatissimo stato, allora v’è il sospetto che non si tratti più di spiritosaggine che magari ha preso la mano, ma di genuina idiozia e scriteriata volontà di accendere la rissa per finalità poco chiare.
E questo pur volendo sorvolare sul fatto che il simpatico Bossi da oltre un ventennio gozzoviglia a Roma, s’ingrassa con il lauto stipendio da parlamentare e poi sputa con ironico disprezzo nel piatto che ha leccato dopo aver trangugiato con fede delle sue ostentate origini tutto ciò che conteneva, a guisa del mitico bidone aspiratutto.
Ma queste considerazioni sono valide qualora s’assuma che il ministro Bossi abbia effettivamente un cervello e, dunque, una capacità vera di controllare le pulsioni sinaptiche ed usare lo spirito, anche se da caserma, per bacchettare i cattivi costumi. L’evidenza dimostra, invece, che tra minacce di scissione e truppe di pellegrini padani in armi, vilipendi alla bandiera e rifiuti di suonare l’inno nazionale, non ci si trova al cospetto d’uno che ci fa. Tutt’altro, è uno che c’è, non fosse per aver prestato solenne giuramento nelle mani del Capo dello Stato al momento dell’accettazione della carica di ministro e, prim’ancora, di essersi presentato ad una libera competizione democratica per entrare a far parte del parlamento di uno stato che dice, poi, di disconoscere. E se non ci fosse stato veramente, davanti alle proteste sollevatesi con la sua ultima battuta sui “Romani porci”, almeno scusa l’avrebbe chiesto.
Eppure il signor Bossi, - per quanto questo titolo davanti al suo nome suoni una palese forzatura, - non è diverso nell’indole dai tanti Italiani cispadani che disprezza, di cui porta pregi (pochi) e difetti (tanti).
E’ un conclamato nepotista ed il figlio, la famosa Trota, è l’esempio vivente di questa deprecabile debolezza: senz’arte né parte siede nel consiglio regionale della Lombardia perché imposto in disprezzo delle capacità politiche di chi certamene ne aveva di maggiori. Ma qui un vecchio adagio partenopeo, - Bossi ci perdonerà l’affronto, - aiuta a capire: ogni scarrafone è bello a mamma soja, e il bravo Trota nel cuore di papà non poteva certo fare eccezione. Alla stessa maniera non fanno eccezione i Leghisti in posti di comando, che abusano del pubblico denaro per garantirsi qualche privilegio sotto forma di auto blu o di diarie principesche. Né va dimenticato che lo stesso paladino dell’indipendenza padana fu raggiunto da un avviso di garanzia per certi finanziamenti poco trasparenti e poi condannato, o che le guerre per accaparrarsi posti da consigliere in enti pubblici e fondazioni non vedono certo la Lega estranea dalle camarille, con l’avallo di Bossi. E in tutto questo, Bossi, non ha titolo per fare la morale ad alcuno, né dopo aver votato in aula per salvare l’inquisito Cosentino e il ministro più-veloce-della-storia-della-repubblica, Aldo Brancher, può ritenersi indenne dalle critiche perché non mangia i cannoli come Cuffaro.
Ma in fondo Bossi è il suo movimento di arrogantelli parvenu non è che il prodotto tipico dell’Italia di questo scorcio di secolo, un’Italia persa nell’etica e nei valori, nella quale persino un ministro può ormai impunemente permettersi di sputtanare quelle istituzioni e quei metodi democratici, grazie ai quali, dalla miseria delle sue condizioni, è potuto diventare qualcuno.

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