Un altro colpo all’economia del lavoro: i “pizza bond”
Lunedì, 11 ottobre 2010
Sono oltre quarant’anni che esistono e hanno innegabilmente consentito un notevole risparmio per le azienda che gradatamente li hanno introdotti. Ma adesso, in tempi di crisi, i ticket restaurant, quei foglietti di valore variabile che mensilmente vengono dati a oltre 2 milioni di lavoratori in sostituzione del servizio mensa, sembrano essere arrivati al capolinea, in quanto nel tempo si sono trasformati nei confronti delle stesse aziende dei boomerang micidiali al punto da incidere negativamente sui loro risultati economici.
Ma per capire occorre procedere con ordine.
Alla fine degli anni ’70 si aprì una guerra senza esclusione di colpi tra le aziende da una parte e il fisco e l’Inps dall’altra. Oggetto del contendere, l’assoggettamento a contribuzione e ritenuta sul reddito dell’equivalente del valore mensa che le aziende erogano al personale dipendente. In pratica, l’Inps sostiene che il pasto consumato in mensa costituisse a tutti gli effetti retribuzione e, in quanto tale, il suo controvalore dove essere gravato di contributi. Sulla scia di quest’approccio rivoluzionario, anche il ministero delle finanze fa sentire la sua voce e chiede che il valore mensa venga assoggettato a ritenuta Irpef, in quanto retribuzione e, dunque, reddito a tutti gli effetti.
Le aziende sono in quegli anni già alla ricerca dell’ennesimo meccanismo che consenta di abbattere il costo del lavoro e la novità cade sulle loro teste come un aggravio insostenibile. Ovviamente, non mancano anche le proteste dei lavoratori. Fino a quando, dopo una lunga trattativa con tutte le parti in causa si perviene ad un’intesa che fissa un valore convenzionale del contributo mensa, al di sopra del quale scatta sia il contributo Inps che la conglobazione nel reddito del lavoratore dell’importo eccedente.
Rimane immutata la questione mense, con i relativi costi infrastrutturali che si trascina per le imprese, che non si risolve con il ricorso alla terziarizzazione dei servizi, ed è proprio per abbattere questa voce di costo che tante aziende decidono di sopprimere il servizio e, al suo posto, di erogare un ticket pasto giornaliero, che il percettore potrà utilizzare dove meglio crede per l’acquisto di generi alimentari.
Il meccanismo è semplice. Le imprese acquistano i ticket, che recano un valore stampigliato. Le società emittenti incassano immediatamente il controvalore dei ticket e rimborsano successivamente agli esercenti il valore facciale dei ticket presentati all’incasso.
Ma nel tempo non tutto fila liscio come s’era immaginato. «Se non troviamo una soluzione in tempi brevi il sistema dei buoni pasto rischia di saltare» dichiara Aldo Cursano, il vicepresidente della Fipe, la potente associazione dei pubblici esercizi che aderisce a Confcommercio. Già oggi, infatti, importanti catene della ristorazione, come McDonald's, non accettano i buoni pasto. Stessa musica per i supermercati a insegna Esselunga, e per alcune grandi cooperative aderenti a Coop. Quanto al colosso francese Carrefour starebbe meditando se continuare ad riceverli o meno. Per la grande distribuzione, infatti, il ticket si rivela sempre più spesso come una fonte di perdite.
«In realtà», accusa Cursano, «ormai i buoni pasto sono diventati una sorta di strumento finanziario. E chi ci rimette sono da una parte i lavoratori e dall'altra noi esercenti». Il sistema entra in funzione in seguito ad una gara indetta da un'azienda e vinta da una società emettitrice di ticket. Quest'ultima per vincere la gara deve offrire un sconto. Ad esempio se il buono ha un valore di 5 euro potrebbe aggiudicarsi la commessa a quota 4 euro. Per recuperare lo sconto la società applicherà una commissione all'esercizio convenzionato dove lo stesso ticket può essere speso. E' a questo punto che un sistema valutato 2,5 miliardi di euro all'anno entra in crisi.
Secondo la Fipe, infatti, la commissione è alta e il rimborso del ticket stesso da parte della società emettenti avviene con un ritardo tale da trasformarsi in un aggravio del 30% per ristoratori e baristi. Insomma, è come se da una parte si dovesse offrire un pasto del valore di 5 euro mentre dall'altra se ne ottengono 3,50.
«A questo punto», spiega Cursano, «il buono pasto si trasforma in una sorta di bond». L'analogia è azzeccata: i ristoratori, infatti, cercano di disfarsi al più presto dei loro ticket, magari usandoli al supermercato per rifornirsi di prodotti alimentari. Oppure girandoli ad altri intermediari, magari non sempre limpidissimi. Si innesca, quindi, una corsa affannosa per non restare con il cerino in mano. Perché tutti sanno che entro la fine dell'anno il ticket dovrà essere messo all'incasso e che il prezzo risulterà sensibilmente inferiore rispetto al valore facciale.
In questo quadro il progressivo irrigidimento dei supermercati che non vogliono continuare a perdere quattrini potrebbe mettere in crisi l'intero sistema. L'aspetto paradossale è che il padrone più occhiuto, quello che con la sua forza contrattuale sta portando il mercato dei ticket al ribasso strappando sconti sempre più consistenti è la Consip, cioè lo Stato, che da solo tratta ogni anno circa 600 milioni di euro di ticket.
Quanto alla soluzione, Carlo Pileri, presidente di Adoc, (Associazione difesa e orientamento dei consumatori) chiede da una parte di difendere il valore del ticket frutto di una trattativa sindacale. E dall'altra di garantire qualità e quantità delle prestazioni offerte a fronte del buono pasto. «Basta con i negoziati al ribasso», conclude Cursano, «se vogliamo difendere il sistema le gare devono vertere sulla qualità del servizio salvaguardando il valore facciale del buono pasto».
Come dire, smetta lo stato di drogare la contrattazione con le società emittenti i ticket, con operazioni al ribasso che finiscono per penalizzare gli esercenti ed innescano, per conseguenza, un circolo vizioso che danneggia gravemente le imprese e i lavoratori: qualcuno prendendo atto che sempre più il ticket restaurant sta progressivamente divenendo carta straccia in mano al portatore non ha esitato a parlare di “pizza bond”, memore della micidiale svalutazione e della successiva insolvenza che anni or sono colpì i titoli di credito argentini.
Ma per capire occorre procedere con ordine.
Alla fine degli anni ’70 si aprì una guerra senza esclusione di colpi tra le aziende da una parte e il fisco e l’Inps dall’altra. Oggetto del contendere, l’assoggettamento a contribuzione e ritenuta sul reddito dell’equivalente del valore mensa che le aziende erogano al personale dipendente. In pratica, l’Inps sostiene che il pasto consumato in mensa costituisse a tutti gli effetti retribuzione e, in quanto tale, il suo controvalore dove essere gravato di contributi. Sulla scia di quest’approccio rivoluzionario, anche il ministero delle finanze fa sentire la sua voce e chiede che il valore mensa venga assoggettato a ritenuta Irpef, in quanto retribuzione e, dunque, reddito a tutti gli effetti.
Le aziende sono in quegli anni già alla ricerca dell’ennesimo meccanismo che consenta di abbattere il costo del lavoro e la novità cade sulle loro teste come un aggravio insostenibile. Ovviamente, non mancano anche le proteste dei lavoratori. Fino a quando, dopo una lunga trattativa con tutte le parti in causa si perviene ad un’intesa che fissa un valore convenzionale del contributo mensa, al di sopra del quale scatta sia il contributo Inps che la conglobazione nel reddito del lavoratore dell’importo eccedente.
Rimane immutata la questione mense, con i relativi costi infrastrutturali che si trascina per le imprese, che non si risolve con il ricorso alla terziarizzazione dei servizi, ed è proprio per abbattere questa voce di costo che tante aziende decidono di sopprimere il servizio e, al suo posto, di erogare un ticket pasto giornaliero, che il percettore potrà utilizzare dove meglio crede per l’acquisto di generi alimentari.
Il meccanismo è semplice. Le imprese acquistano i ticket, che recano un valore stampigliato. Le società emittenti incassano immediatamente il controvalore dei ticket e rimborsano successivamente agli esercenti il valore facciale dei ticket presentati all’incasso.
Ma nel tempo non tutto fila liscio come s’era immaginato. «Se non troviamo una soluzione in tempi brevi il sistema dei buoni pasto rischia di saltare» dichiara Aldo Cursano, il vicepresidente della Fipe, la potente associazione dei pubblici esercizi che aderisce a Confcommercio. Già oggi, infatti, importanti catene della ristorazione, come McDonald's, non accettano i buoni pasto. Stessa musica per i supermercati a insegna Esselunga, e per alcune grandi cooperative aderenti a Coop. Quanto al colosso francese Carrefour starebbe meditando se continuare ad riceverli o meno. Per la grande distribuzione, infatti, il ticket si rivela sempre più spesso come una fonte di perdite.
«In realtà», accusa Cursano, «ormai i buoni pasto sono diventati una sorta di strumento finanziario. E chi ci rimette sono da una parte i lavoratori e dall'altra noi esercenti». Il sistema entra in funzione in seguito ad una gara indetta da un'azienda e vinta da una società emettitrice di ticket. Quest'ultima per vincere la gara deve offrire un sconto. Ad esempio se il buono ha un valore di 5 euro potrebbe aggiudicarsi la commessa a quota 4 euro. Per recuperare lo sconto la società applicherà una commissione all'esercizio convenzionato dove lo stesso ticket può essere speso. E' a questo punto che un sistema valutato 2,5 miliardi di euro all'anno entra in crisi.
Secondo la Fipe, infatti, la commissione è alta e il rimborso del ticket stesso da parte della società emettenti avviene con un ritardo tale da trasformarsi in un aggravio del 30% per ristoratori e baristi. Insomma, è come se da una parte si dovesse offrire un pasto del valore di 5 euro mentre dall'altra se ne ottengono 3,50.
«A questo punto», spiega Cursano, «il buono pasto si trasforma in una sorta di bond». L'analogia è azzeccata: i ristoratori, infatti, cercano di disfarsi al più presto dei loro ticket, magari usandoli al supermercato per rifornirsi di prodotti alimentari. Oppure girandoli ad altri intermediari, magari non sempre limpidissimi. Si innesca, quindi, una corsa affannosa per non restare con il cerino in mano. Perché tutti sanno che entro la fine dell'anno il ticket dovrà essere messo all'incasso e che il prezzo risulterà sensibilmente inferiore rispetto al valore facciale.
In questo quadro il progressivo irrigidimento dei supermercati che non vogliono continuare a perdere quattrini potrebbe mettere in crisi l'intero sistema. L'aspetto paradossale è che il padrone più occhiuto, quello che con la sua forza contrattuale sta portando il mercato dei ticket al ribasso strappando sconti sempre più consistenti è la Consip, cioè lo Stato, che da solo tratta ogni anno circa 600 milioni di euro di ticket.
Quanto alla soluzione, Carlo Pileri, presidente di Adoc, (Associazione difesa e orientamento dei consumatori) chiede da una parte di difendere il valore del ticket frutto di una trattativa sindacale. E dall'altra di garantire qualità e quantità delle prestazioni offerte a fronte del buono pasto. «Basta con i negoziati al ribasso», conclude Cursano, «se vogliamo difendere il sistema le gare devono vertere sulla qualità del servizio salvaguardando il valore facciale del buono pasto».
Come dire, smetta lo stato di drogare la contrattazione con le società emittenti i ticket, con operazioni al ribasso che finiscono per penalizzare gli esercenti ed innescano, per conseguenza, un circolo vizioso che danneggia gravemente le imprese e i lavoratori: qualcuno prendendo atto che sempre più il ticket restaurant sta progressivamente divenendo carta straccia in mano al portatore non ha esitato a parlare di “pizza bond”, memore della micidiale svalutazione e della successiva insolvenza che anni or sono colpì i titoli di credito argentini.
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