Veltroni: il pensiero debole della sinistra
Domenica, 24 ottobre 2010
E’ un fiume in piena, “Uolter” Walter Veltroni, l’ex segretario del PD. Un fiume in piena che deborda nella politica, nella sociologia, nell’economia per farsi portavoce di quella che definisce «una maggioranza silenziosa che si è stufata di questo paese immobile e rissoso e vorrebbe occuparsi di cose serie, che vorrebbe avere un'Italia unita e dinamica, che vorrebbe respirare un'aria di diritti e di doveri».
E secondo Veltroni la tragicità della situazione italiana va ricercata nella crisi dei valori che ha colpito il paese ormai da tempo e che viene costantemente alimentata da una politica incapace di trasformare i bisogni della gente in progetti veri. «Tutti hanno responsabilità in questo. Tutti hanno pensato che i valori fossero roba buona per i poeti e i visionari, e non ossigeno per la convivenza comune. C'è una crisi dei partiti, che parlano solo di se stessi. C'è una spaventosa crisi della scuola, che non riesce a interpretare i bisogni di una generazione figlia di una società frantumata. C'è una crisi terribile della Chiesa: quando ho sentito dire per giustificare Berlusconi da parte di un uomo di Chiesa che anche le bestemmie vanno contestualizzate, ho pensato che forse il processo di secolarizzazione è andato oltre i confini immaginabili. Un paese è anche figlio della sua storia. La rimozione del valore della Resistenza, ormai messa sullo stesso piano di chi aveva continuato l'avventura del fascismo, così come le difficoltà a riconoscere il valore fondativo del Risorgimento e dell'unità d’Italia, raccontano un altro degli elementi di questa cancellazione dei valori».
In questo processo di degenerazione dei valori la politica ha i suoi alleati, i suoi supporter e, allo stesso tempo, i suoi megafoni. L’allusione è diretta al ruolo della televisione pubblica, piegata su se stessa e preoccupata dell’auditel più che della supremazia del messaggio culturale che dovrebbe principalmente privilegiare.
«Quando il servizio pubblico televisivo fa "L'Isola dei famosi" smette di essere se stesso. C’è qualcosa che viene prima della miseria in cui il direttore generale della Rai ha cacciato l'azienda in questi mesi, dando l'impressione di una volontà di normalizzazione unidirezionale. Il servizio pubblico dovrebbe cercare proprio quello che sembra voler cancellare, cioè la diversità dei linguaggi, degli approcci. Non dovrebbe preoccuparsi dell'omogeneità di quello che offre al pensiero di chi momentaneamente governa. Dovrebbe aiutare l’intelligenza collettiva del paese».
Quantunque vada riconosciuto all’ex segretario del PD e sindaco di Roma una notevole capacità di analisi, allargata peraltro alle diverse variabili che si incrociano nei processi complessi di gestione politica, è necessario comunque non sottacere che nella prassi la sua azione se sovente contraddistinta per le vistose lacunosità e incapacità di correre dietro alla realizzazione delle visioni progettuali, facendone di fatto più un intellettuale illuminato che un politico pragmatico e capace di dar corso alle priorità implicite in un qualunque disegno di trasformazione socio-economica di un paese.
In buona sostanza, Veltroni s’è rivelato in più occasione un politico di progetto più che d’azione. E quest’attitudine, certamente non secondaria alle esigenze della politica, si è messa in evidenza quando all’indomani del suo abbandono della carica di primo cittadino di Roma ha dimostrato come il suo governo, contraddistinto da ben due mandati, non avesse lasciato alcuna eredità, alcuna continuità in grado d’essere raccolta dalla sinistra che rappresentava.
Ancora oggi, all’interno del suo partito, Veltroni vive un’esperienza di militanza isolata, incapace di aggregare quel consenso in grado di porsi alternativa ad una segreteria, quella di Bersani, sempre più in crisi di nitidezza, di chiarezza d’idee e capace di porsi quale alternativa d’un paese obiettivamente allo sbando.
Allora, giusto per banalizzare gli approcci teorici che comunque non conducono a nessuna strada maestra, il problema dell’Italia non è confinabile nel «genocidio dei valori» perpetrato impunemente dalla cultura del narcisismo prima e dell’egoismo poi di portata planetaria e interpretato in maniera magistrale da una destra revisionista e, allo stesso tempo, restauratrice di modelli autoritari e disugualitari. La crisi d’identità del paese sta più prosaicamente nell’azione lenta e continua condotta anche dalle parentesi dei governi di sinistra degli ultimi anni, angosciati dalla necessità di accreditarsi nei confronti del potere economico – difficilmente di aspirazione progressista e rivoluzionaria, - che hanno ispirato l’assunzione di modelli economici e sociali disgreganti, in evidente rottura traumatica con il sistema fondante dei valori e della cultura nazionale.
Un esempio su tutti sono stati i provvedimenti rivolti alla cosiddetta liberalizzazione del mercato del lavoro, per paradosso introdotti dal governo D’Alema, cioè proprio dal primo governo che sdoganava la sinistra autentica dal ghetto d’una opposizione sterile e talvolta accomodante. Un paese che storicamente ha fondato i principi cardini della propria identità e della propria sicurezza su un sistema di rapporto di lavoro stabile e continuato, in cui le tutele, magari eccessive, erano state garanzia d’un futuro certo, improvvisamente s’è visto crollare ogni riferimento, ogni speranza, in nome di un modernismo e di una globalizzazione che non richiedevano sicuramente quella tipologia di sacrifici.
Oggi tentare di ricostruire l’identità del paese non è cosa facile e rischia di costituire un patibolo sul quale rotoleranno molte teste prima che possa parlarsi di nuovo modello sociale ed economico. E in un quadro di assoluta confusione, oltre che di caduta verticale della motivazione generale, in presenza di una politica affarista, corrotta e squallidamente opportunistica, con un tasso di fiducia e, quel che più conta, di speranza tendente allo zero, di tutto si avverte la necessità, tranne che di predicatori idealisti incapaci di offrire il loro tangibile contributo alla costruzione fisica del nuovo palazzo. Senza queste premesse, la maggioranza silenziosa non solo non respirerà mai il clima di diritti e doveri cui agogna, ma dovrà continuare a patire nell'ombra in attesa di un nuovo messia.
E secondo Veltroni la tragicità della situazione italiana va ricercata nella crisi dei valori che ha colpito il paese ormai da tempo e che viene costantemente alimentata da una politica incapace di trasformare i bisogni della gente in progetti veri. «Tutti hanno responsabilità in questo. Tutti hanno pensato che i valori fossero roba buona per i poeti e i visionari, e non ossigeno per la convivenza comune. C'è una crisi dei partiti, che parlano solo di se stessi. C'è una spaventosa crisi della scuola, che non riesce a interpretare i bisogni di una generazione figlia di una società frantumata. C'è una crisi terribile della Chiesa: quando ho sentito dire per giustificare Berlusconi da parte di un uomo di Chiesa che anche le bestemmie vanno contestualizzate, ho pensato che forse il processo di secolarizzazione è andato oltre i confini immaginabili. Un paese è anche figlio della sua storia. La rimozione del valore della Resistenza, ormai messa sullo stesso piano di chi aveva continuato l'avventura del fascismo, così come le difficoltà a riconoscere il valore fondativo del Risorgimento e dell'unità d’Italia, raccontano un altro degli elementi di questa cancellazione dei valori».
In questo processo di degenerazione dei valori la politica ha i suoi alleati, i suoi supporter e, allo stesso tempo, i suoi megafoni. L’allusione è diretta al ruolo della televisione pubblica, piegata su se stessa e preoccupata dell’auditel più che della supremazia del messaggio culturale che dovrebbe principalmente privilegiare.
«Quando il servizio pubblico televisivo fa "L'Isola dei famosi" smette di essere se stesso. C’è qualcosa che viene prima della miseria in cui il direttore generale della Rai ha cacciato l'azienda in questi mesi, dando l'impressione di una volontà di normalizzazione unidirezionale. Il servizio pubblico dovrebbe cercare proprio quello che sembra voler cancellare, cioè la diversità dei linguaggi, degli approcci. Non dovrebbe preoccuparsi dell'omogeneità di quello che offre al pensiero di chi momentaneamente governa. Dovrebbe aiutare l’intelligenza collettiva del paese».
Quantunque vada riconosciuto all’ex segretario del PD e sindaco di Roma una notevole capacità di analisi, allargata peraltro alle diverse variabili che si incrociano nei processi complessi di gestione politica, è necessario comunque non sottacere che nella prassi la sua azione se sovente contraddistinta per le vistose lacunosità e incapacità di correre dietro alla realizzazione delle visioni progettuali, facendone di fatto più un intellettuale illuminato che un politico pragmatico e capace di dar corso alle priorità implicite in un qualunque disegno di trasformazione socio-economica di un paese.
In buona sostanza, Veltroni s’è rivelato in più occasione un politico di progetto più che d’azione. E quest’attitudine, certamente non secondaria alle esigenze della politica, si è messa in evidenza quando all’indomani del suo abbandono della carica di primo cittadino di Roma ha dimostrato come il suo governo, contraddistinto da ben due mandati, non avesse lasciato alcuna eredità, alcuna continuità in grado d’essere raccolta dalla sinistra che rappresentava.
Ancora oggi, all’interno del suo partito, Veltroni vive un’esperienza di militanza isolata, incapace di aggregare quel consenso in grado di porsi alternativa ad una segreteria, quella di Bersani, sempre più in crisi di nitidezza, di chiarezza d’idee e capace di porsi quale alternativa d’un paese obiettivamente allo sbando.
Allora, giusto per banalizzare gli approcci teorici che comunque non conducono a nessuna strada maestra, il problema dell’Italia non è confinabile nel «genocidio dei valori» perpetrato impunemente dalla cultura del narcisismo prima e dell’egoismo poi di portata planetaria e interpretato in maniera magistrale da una destra revisionista e, allo stesso tempo, restauratrice di modelli autoritari e disugualitari. La crisi d’identità del paese sta più prosaicamente nell’azione lenta e continua condotta anche dalle parentesi dei governi di sinistra degli ultimi anni, angosciati dalla necessità di accreditarsi nei confronti del potere economico – difficilmente di aspirazione progressista e rivoluzionaria, - che hanno ispirato l’assunzione di modelli economici e sociali disgreganti, in evidente rottura traumatica con il sistema fondante dei valori e della cultura nazionale.
Un esempio su tutti sono stati i provvedimenti rivolti alla cosiddetta liberalizzazione del mercato del lavoro, per paradosso introdotti dal governo D’Alema, cioè proprio dal primo governo che sdoganava la sinistra autentica dal ghetto d’una opposizione sterile e talvolta accomodante. Un paese che storicamente ha fondato i principi cardini della propria identità e della propria sicurezza su un sistema di rapporto di lavoro stabile e continuato, in cui le tutele, magari eccessive, erano state garanzia d’un futuro certo, improvvisamente s’è visto crollare ogni riferimento, ogni speranza, in nome di un modernismo e di una globalizzazione che non richiedevano sicuramente quella tipologia di sacrifici.
Oggi tentare di ricostruire l’identità del paese non è cosa facile e rischia di costituire un patibolo sul quale rotoleranno molte teste prima che possa parlarsi di nuovo modello sociale ed economico. E in un quadro di assoluta confusione, oltre che di caduta verticale della motivazione generale, in presenza di una politica affarista, corrotta e squallidamente opportunistica, con un tasso di fiducia e, quel che più conta, di speranza tendente allo zero, di tutto si avverte la necessità, tranne che di predicatori idealisti incapaci di offrire il loro tangibile contributo alla costruzione fisica del nuovo palazzo. Senza queste premesse, la maggioranza silenziosa non solo non respirerà mai il clima di diritti e doveri cui agogna, ma dovrà continuare a patire nell'ombra in attesa di un nuovo messia.
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