Mafia come metodo culturale
Giovedì, 6 gennaio 2011
Roberto Maroni e soci continuano a gridare orgogliosamente che la mafia e le sue consorelle, ‘ndrangheta e camorra, sono state sconfitte, grazie ai numerosi arresti messi a segno nell’ultimo biennio di pericolosissimi boss ai vertici delle rispettive organizzazioni.
La questione, tuttavia, non è quella di stabilire se la malavita organizzata abbia subito un ridimensionamento significativo delle sue strutture, visto che ad ogni boss arrestato succede un generale pronto a prenderne il posto, ma di capire se l’essenza della mafia, cioè l’atteggiamento culturale che ne qualifica i comportamenti e le azioni, sia in fase d’estinzione o, piuttosto, rimanga indifferente all’eliminazione della manovalanza dedita a loschi traffici e business da codice penale.
Alcuni giorni orsono una notizia è apparsa su alcuni giornali siciliani, che rendeva pubblica la decisione del presidente dell’Assemblea Siciliana, Francesco Cascio, di sciogliere la commissione regionale per la revisione dello Statuto. La commissione Statuto è un organismo istituito nel giugno del 2008, che avrebbe dovuto rinnovare l'antica carta dell'autonomia isolana: due anni e mezzo dopo il lavoro non si è ancora concluso. Anzi. Da luglio a oggi, la commissione si è riunita dieci volte e in sei occasioni nessuno dei 13 novelli padri costituenti che la compongono si è presentato all'appuntamento.
Morale: 205 minuti di lavoro nell’ultimo semestre, 34 faticosissimi minuti ogni mese, la maggior parte dei quali spesi nell'ascoltare l'assessore all'Economia che ha relazionato sul federalismo e i sette consulenti nominati per un parere tecnico, evidentemente indispensabile. Oddio, non è che nel semestre precedente la commissione avesse operato con maggior vigore: poco più di un paio di sedute ogni trenta giorni, sei delle quali disdettate o annullate e cinque (cinque!) consumate prima di mettersi d'accordo sull'elezione della centralissima figura del segretario, senza il quale l’attività della commissione non avrebbe mai potuto cominciare.
A dire il vero, Cascio aveva già proposto nel luglio del 2009 l’abolizione della commissione in questione ai colleghi parlamentari regionali, per la manifesta improduttività della commissione medesima. Com’era prevedibile, la proposta fu bocciata senza appello, visti gli interessi clientelari di cui quei signori deputati erano e rimangono portatori, avendo ciascuno qualche sodale di partito e qualche amico consulente da sistemare in una posizione a reddito garantito. Risultato, si fece persino ricorso a deliberare la proroga della commissione, nonostante il regolamento esplicitamente non lo consentisse.
Ma al di là di questi atti di incommensurabile arroganza e disprezzo della legge da parte dei sedicenti onorevoli di palazzo dei Normanni, la cosa che adesso si apprende è che il presidente di questa commissione fantasma, il finiano Alessandro Aricò, i due vice presidenti ed il segretario hanno portato a casa senza colpo ferire e con un calcio in faccia ad ogni predica sui sacrifici e i risparmi necessari in quest’Italia disastrata, ben 165 mila euro di compensi, aggiuntivi ai 19 mila euro lordi mensili di appannaggio parlamentare.
Questa vicenda, peraltro di assoluta ordinaria mangiuglia alla faccia dei cittadini e a dispetto di ogni buon proposito raccomandato gridato ai quattro venti, conferma come la politica sia non solo distante anni luce dalla gente, ma un cancro putrescente di cui per liberarsi non c’è cobaltoterapia che tenga. E questo, a dispetto di quanto spudoratamente dichiarano gerarchie politiche di rango nazionale, che consentono lo sperpero del pubblico denaro agli amici della politica locale, ma varano provvedimenti per affamare i comuni cittadini. Il tutto con la connivenza o la distrazione più totale di quella magistratura contabile e penale che dovrebbe intervenire per reprimere questi marchiani abusi e non muove invece un dito. Ovviamente questi “distratti” non rientrano nella schiera delle toghe rosse nemiche del Cavaliere. Al più faranno parte della squadra di reggimoccolo cui non si interesseranno mai gli ispettori del vigilissimo ministro Alfano.
Orbene, questi episodi non sono il frutto di improvvise e casuali sbandate del sistema, ma sono piuttosto la spia vera di una concezione del potere basato sull’arroganza, la sopraffazione del prossimo, il disprezzo di ogni regola, il disconoscimento della legge, il nepotismo e il clientelismo come regola d’affermazione e ostentazione del proprio potere, meccanismi che nulla hanno di diverso da quelle regole non scritte con le quali da sempre si autogoverna l’onorata società.
Questo modo di concepire l’esercizio di potere conferma come i meccanismo mafioso abbia permeato i gangli del vivere civile e sia definitivamente assurto a regola del sistema della politica e del governo quotidiano della cosa pubblica, sistema che dimostra come non basta eliminare quattro boss, per quanto pericolosi, e inibire traffici border line per dichiarare una vittoria sulla malavita organizzata, ma quanto sia necessario piuttosto estirpare una cultura malata che ha importato regole e metodi di malaffare, prima di poter gridare alla sconfitta della mafia. Essere mafiosi non significa solo esercitare traffici illegali, ma innanzitutto avere una mentalità delinquenziale protesa a ad utilizzare il proprio potere per proprio arricchimento con atti sistematici di raggiro della legge e profittazione delle prerogative di ruolo.
Aricò ufficialmente non parla. Il suo movimento – quel Fli che non perde occasione per unirsi al coro dei predicatori ipocriti - grida all'attacco politico: Cascio è un esponente di quel Pdl che in Sicilia è stato messo all'opposizione dal governatore Lombardo e adesso ricorre a questi mezzucci per colpire gli avversari. Così, fra le polemiche, cala il sipario sull'ultimo scandalo siciliano costato, a conti fatti, 166.640 euro: la spesa sostenuta dalle casse pubbliche per garantire il gettone ai padri della riforma mai nata. E nel frattempo la mafia perde pezzi, ma la mafiosità rinforza la sua cultura.
(nella foto, Francsco Cascio, presidente dell'Ars, in quota PdL)
La questione, tuttavia, non è quella di stabilire se la malavita organizzata abbia subito un ridimensionamento significativo delle sue strutture, visto che ad ogni boss arrestato succede un generale pronto a prenderne il posto, ma di capire se l’essenza della mafia, cioè l’atteggiamento culturale che ne qualifica i comportamenti e le azioni, sia in fase d’estinzione o, piuttosto, rimanga indifferente all’eliminazione della manovalanza dedita a loschi traffici e business da codice penale.
Alcuni giorni orsono una notizia è apparsa su alcuni giornali siciliani, che rendeva pubblica la decisione del presidente dell’Assemblea Siciliana, Francesco Cascio, di sciogliere la commissione regionale per la revisione dello Statuto. La commissione Statuto è un organismo istituito nel giugno del 2008, che avrebbe dovuto rinnovare l'antica carta dell'autonomia isolana: due anni e mezzo dopo il lavoro non si è ancora concluso. Anzi. Da luglio a oggi, la commissione si è riunita dieci volte e in sei occasioni nessuno dei 13 novelli padri costituenti che la compongono si è presentato all'appuntamento.
Morale: 205 minuti di lavoro nell’ultimo semestre, 34 faticosissimi minuti ogni mese, la maggior parte dei quali spesi nell'ascoltare l'assessore all'Economia che ha relazionato sul federalismo e i sette consulenti nominati per un parere tecnico, evidentemente indispensabile. Oddio, non è che nel semestre precedente la commissione avesse operato con maggior vigore: poco più di un paio di sedute ogni trenta giorni, sei delle quali disdettate o annullate e cinque (cinque!) consumate prima di mettersi d'accordo sull'elezione della centralissima figura del segretario, senza il quale l’attività della commissione non avrebbe mai potuto cominciare.
A dire il vero, Cascio aveva già proposto nel luglio del 2009 l’abolizione della commissione in questione ai colleghi parlamentari regionali, per la manifesta improduttività della commissione medesima. Com’era prevedibile, la proposta fu bocciata senza appello, visti gli interessi clientelari di cui quei signori deputati erano e rimangono portatori, avendo ciascuno qualche sodale di partito e qualche amico consulente da sistemare in una posizione a reddito garantito. Risultato, si fece persino ricorso a deliberare la proroga della commissione, nonostante il regolamento esplicitamente non lo consentisse.
Ma al di là di questi atti di incommensurabile arroganza e disprezzo della legge da parte dei sedicenti onorevoli di palazzo dei Normanni, la cosa che adesso si apprende è che il presidente di questa commissione fantasma, il finiano Alessandro Aricò, i due vice presidenti ed il segretario hanno portato a casa senza colpo ferire e con un calcio in faccia ad ogni predica sui sacrifici e i risparmi necessari in quest’Italia disastrata, ben 165 mila euro di compensi, aggiuntivi ai 19 mila euro lordi mensili di appannaggio parlamentare.
Questa vicenda, peraltro di assoluta ordinaria mangiuglia alla faccia dei cittadini e a dispetto di ogni buon proposito raccomandato gridato ai quattro venti, conferma come la politica sia non solo distante anni luce dalla gente, ma un cancro putrescente di cui per liberarsi non c’è cobaltoterapia che tenga. E questo, a dispetto di quanto spudoratamente dichiarano gerarchie politiche di rango nazionale, che consentono lo sperpero del pubblico denaro agli amici della politica locale, ma varano provvedimenti per affamare i comuni cittadini. Il tutto con la connivenza o la distrazione più totale di quella magistratura contabile e penale che dovrebbe intervenire per reprimere questi marchiani abusi e non muove invece un dito. Ovviamente questi “distratti” non rientrano nella schiera delle toghe rosse nemiche del Cavaliere. Al più faranno parte della squadra di reggimoccolo cui non si interesseranno mai gli ispettori del vigilissimo ministro Alfano.
Orbene, questi episodi non sono il frutto di improvvise e casuali sbandate del sistema, ma sono piuttosto la spia vera di una concezione del potere basato sull’arroganza, la sopraffazione del prossimo, il disprezzo di ogni regola, il disconoscimento della legge, il nepotismo e il clientelismo come regola d’affermazione e ostentazione del proprio potere, meccanismi che nulla hanno di diverso da quelle regole non scritte con le quali da sempre si autogoverna l’onorata società.
Questo modo di concepire l’esercizio di potere conferma come i meccanismo mafioso abbia permeato i gangli del vivere civile e sia definitivamente assurto a regola del sistema della politica e del governo quotidiano della cosa pubblica, sistema che dimostra come non basta eliminare quattro boss, per quanto pericolosi, e inibire traffici border line per dichiarare una vittoria sulla malavita organizzata, ma quanto sia necessario piuttosto estirpare una cultura malata che ha importato regole e metodi di malaffare, prima di poter gridare alla sconfitta della mafia. Essere mafiosi non significa solo esercitare traffici illegali, ma innanzitutto avere una mentalità delinquenziale protesa a ad utilizzare il proprio potere per proprio arricchimento con atti sistematici di raggiro della legge e profittazione delle prerogative di ruolo.
Aricò ufficialmente non parla. Il suo movimento – quel Fli che non perde occasione per unirsi al coro dei predicatori ipocriti - grida all'attacco politico: Cascio è un esponente di quel Pdl che in Sicilia è stato messo all'opposizione dal governatore Lombardo e adesso ricorre a questi mezzucci per colpire gli avversari. Così, fra le polemiche, cala il sipario sull'ultimo scandalo siciliano costato, a conti fatti, 166.640 euro: la spesa sostenuta dalle casse pubbliche per garantire il gettone ai padri della riforma mai nata. E nel frattempo la mafia perde pezzi, ma la mafiosità rinforza la sua cultura.
(nella foto, Francsco Cascio, presidente dell'Ars, in quota PdL)
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