giovedì, settembre 29, 2011

Ma Provenzano si chiamava Bernarda?

Giovedì, 29 settembre 2011
Finalmente s’è concluso l’ennesimo tormentone nazionale, l’ennesimo spaghetti-giallo che ha visto per parecchi mesi un bravuomo senza macchia perseguitato dall’odio mediatico e dal livore di avversari incarogniti, forti dell’appoggio di un pugno di magistrati sediziosi e di falsi pentiti di mafia – ma che sarà poi ‘sta cosa? – con velleità di protagonismo televisivo.
Era successo già a Mannino, quel Calogero accusato ingiustamente e poi tardivamente assolto, a Dell’Utri, i cui peccati sono stati la frequentazione di stallieri in cerca d’occupazione e il trasporto di uno smoking nel bagaglio a mano durante una gita di fine settimana a Londra, oltre ad un’amicizia storica con Silvio Berlusconi. Era successo a Totò Cuffaro, uno dei pochi a pagare il clima neo-maccartista radicatosi in Italia, e purtroppo non sarà certo l’ultimo episodio di caccia alle streghe che coinvolge e coinvolgerà la casta politica nostrana. C'è un certo Vizzini in stand-by di cui si sentirà parlare ancora.
Fortunatamente Saverio Romano, ministro dell’Agricoltura del governo in carica e specchiato cittadino, ce l’ha fatta. Giustizia ha trionfato e, pertanto, per volontà del parlamento, in cui siede il fior fiore dell’onestà patria, non dovrà dimettersi per gli infamanti quanto fatui sospetti di contiguità con la malavita organizzata.
Il senso di questa tragedia mancata è oggi su tutti i giornali, testimoniato da quel tenero abbraccio liberatorio tra l’innocente ministro e il suo boss – e che non si travisi il termine! – Silvio Berlusconi, seguito al voto contrario dell’assemblea parlamentare, che ha bocciato senza appello il vile tentativo d’insinuare nella coscienza degli Italiani che sono governati da poco di buono espressione di poteri occulti, persino sanguinari.
A dare una mano – ma sarebbe il caso di parlare di manforte – al ministro-vittima l’uomo più buono del mondo, quell’Umberto Bossi che da sempre ha nel cuore la giustizia e il bene del Paese, dall’Alpi a Capo Passero, da Lisert a Ventimiglia, senza distinzione alcuna di razza, religione e condizioni sociali delle genti che abitano quei luoghi ameni. E’ lui che con determinazione ha dato imperativo ordine ai suoi picciotti, a quelli della Lega, di votare contro la mozione di sfiducia presentata dai ribaldi dell’opposizione, per inibire un epilogo tragico a tutto l’esecutivo, al quale la caduta di Romano – e già il nome sul boss del carroccio deve aver esercitato un certo magnetismo – non avrebbe avuto alternativa alle dimissioni.
Umberto Bossi, il cui nome come s’è sospettato per qualche tempo non è derivato da quella bella pianta seminana usa ad adornar giardini e parchi, ma dal termine inglese boss, capo, condottiero, l’equivalente di mammasantissima in certe realtà, che tutto sa, tutto pensa e dispone per l’indiscusso bene dei suoi adepti, siano essi parenti che discepoli, di qualunque colore ed estrazione. E’ lui che ha deciso dall’alto della sua infinita saggezza di salvare Romano, uomo a cui peraltro doveva riconoscenza per aver chiuso un occhio – non per prendere la mira, come potrebbe insinuare qualche irriducibile velenoso – sulla questione del latte e delle multe comunitarie a carico dei vaccari cispadani: come si suole dire nelle tante bettole della provincia lombarda e veneta, tra un ombreta de vin bun e una correzion in parte, “una man lava l’altra e insieme lavano il culo”.
Poi, per chi non lo sapesse, il braveheart di Cassano Magnago non ce l’ha mai avuta su con i terroni, che ama smisuratamente e delle cui tradizioni è profondo ammiratore. Lui stesso adora esprimersi in vernacolo siculo quando gli è possibile e lo stesso gesto del dito medio ostentato in segno di disprezzo è un modernismo importato d’oltre oceano – l’esotico è così di moda! – con il quale ha inteso rendere universale il suca!, ben più grezzo e provinciale in uso da millenni alla Kalsa o alla Vucciria di Palermo.
Meno male che c’è Bossi e sua Lega, in buona sostanza, a far da termostato ai bollori del Paese. Immaginarsi un Italia senza di lui, con le gag sulla secessione, sulla Padania e i rituali sul Po dei suoi pescatori d’anguille sarebbe una tristezza immane in quest’epoca di crisi attanagliante, in cui sorridere è diventato un lusso per pochi eletti, tant’è che è già allo studio una patrimoniale ad hoc. In ogni caso, proprio per confermare l’universalità dell’ideologia leghista, già dal prossimo anno la pantomima periodica dedicata al Po si svolgerà a turno sul Sele, sul Simeto o sul Tirso, cancellando così ogni polemica sul regionalismo bieco cui s’accusano i sanculotti guidati da Calderoli e da Castelli.
Tornando a Romano, dice bene il premier Silvio Berlusconi – uomo bersagliato dalla sorte avversa e braccato dalle procure golpiste di tutt’Italia – che è ora che s’indaghi sulla magistratura tramite un’apposita commissione d’inchiesta. Non è pensabile continuare a svolgere una sana azione di governo con la spada di Damocle di attentati nell’ombra orditi da procuratori senza scrupoli in vena di sabotare l’ordine costituzionale. Lui farà anche il presidente del consiglio “a tempo perso”, ma il voto dei cittadini ha sancito che va bene così e che il suo profumo preferito sia l’eau de patonce o la broegna aftershave o passera dream sono affari che non possono riguardare la stampa malevola, né giudici invidiosi, né moralisti in abito talare disattenti ai peccati gravi che si consumano in casa loro. Che la Brambilla porti il reggicalze o indossi un tanga non è cosa che infici la credibilità del governo, così come non lo sono il cedimento al Bocchino della Carfagna o, men che meno, qualche goliardica conversazione scambiata con l’illustrissimo signor Tarantini, noto animatore professionale d’eventi ed amicone di un certo Lavitola, amico al punto da concedergli di giacere con sua moglie: forse per una cosa del genere si dovrebbero mettere in galera tutti gli Eskimesi, che com’è noto, seguono la stessa pratica per puro senso d’ospitalità? Forse i peccati, tutti da dimostrare, di Tarantini e Lavitola debbono ricadere sul capoccione di un eroe, che ha messo in secondo piano i propri interessi pur di fare il bene dello stato? Che colpa mai ha lui se Bertolaso o Verdini o Scajola o Lunardi o Dell’Utri o Previti o non-so-chi-altro, profittando della sua amicizia e dello smisurato senso dell’ospitalità, hanno commesso qualche marachella? Sono questioni personali sulle quali non è ammissibile alcuna speculazione.
Non ci si lagni se a questa escalation diffamatoria si metterà un freno, quello che i soliti maligni chiamano bavaglio. Questo è un governo serio, che gode di grande prestigio internazionale e di un accredito notevole nel consesso dell’economia mondiale che conta. E se un Matteoli viene preso a pernacchie da una congrega di muratori incazzati non sarà che ci si debba intimidire: il dissenso, quando è mosso dall’irriconoscenza, merita solo disprezzo.
E adesso si torni al lavoro, nell’attesa del prossimo tentativo di sovversivo di scardinare l’ordine costituito.

(nella foto, la vignetta di Vauro pubblicata ieri su Il fatto quotidiano, che riproduce in versione aggiornata il noto quadro di Pellizza da Volpedo, ribattezzato per l'occasione con il nome di Patonza da Volpedo)

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