mercoledì, ottobre 19, 2011

Democrazia con ticket

Mercoledì, 19 ottobre 2011
Ufficio di una qualsiasi Questura d’Italia.
Manifestante: «Buongiorno. Desidererei consultare il tariffario per le manifestazioni. Dovrei organizzare uno sciopero di cassintegrati e vorrei sapere a quanto ammonta la garanzia da rilasciare in base alla nuova legge Maroni».
Poliziotto di servizio: «In quanti siete? Qual è il percorso che contate di fare?».
Manifestante: «Guardi non ho un’idea precisa….. Spereremmo d’essere in tanti….. Mille, duemila. In quanto al percorso, il corteo partirà da piazza Roma e si concluderà in piazza della Libertà, passando per Corso Garibaldi, Via Manzoni e Via Nazionale».
Poliziotto di servizio: «E beh!, c’è qualche problema. Intanto sui numeri dovrebbe essere più preciso: sa, si paga a testa e qualora dichiarasse un numero di partecipanti inferiore a quelli che saranno contati, lei rischia una multa salata. Per quanto riguarda il percorso, le consiglierei di deviare per via Gioberti, visto che in via Manzoni ci sono banche e uffici oltre che i resti di un teatro romano, e la tariffa, visto il rischio di potenziali danneggiamenti, è più alta…… Ma è sicuro di non poter raggiungere il numero di cinquemila partecipanti? In quel caso è previsto uno sconto comitiva del 15% sulla tariffa, che permette di risparmiare qualcosina. Ovviamente la tariffa va maggiorata da imposta di transito e IVA del 21%».
Questo il fantomatico colloquio tra l’organizzatore di una manifestazione e un addetto della questura alla luce dei provvedimenti allo studio al Viminale dopo le vicende del 15 ottobre scorso a Roma.
Che l’Italia sembri sempre più un paese alla deriva non era necessario fosse confermato dalle cervellotiche iniziative di Roberto Maroni, peraltro immediatamente salutate con favore da parecchi suoi colleghi di maggioranza, che della democrazia hanno un concetto assai confuso, mentre hanno chiare le idee su tutto ciò che può costituire occasione per far soldi. Ma, francamente, appare alquanto bizzarro che a partire dai prossimi giorni, con la scusa di scoraggiare il verificarsi d’incidenti come quelli di piazza S. Giovanni, si debba pagare, o nel migliore dei modi, prestare cauzione per esercitare un diritto previsto dalla Costituzione e cioè quello di “manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art.21), di cui l’organizzazione di un corteo fa sicuramente parte. Tra l’altro, anche l’articolo 17 della Carta riconosce il diritto inviolabile dei cittadini di riunirsi pacificamente e senz’armi, riunioni per le quali non è richiesta alcuna autorizzazione, ma solo un preavviso, riconoscendo alle autorità preposte la facoltà di divieto solo per comprovati motivi di sicurezza o di pubblica incolumità.
In questa prospettiva, le iniziative allo studio non solo appaiono prive di senso, ma anche in palese violazione dei principi di democrazia che governano la Repubblica, il cui funzionamento non può essere messo in discussione sull’onda emotiva di una generale indignazione per i disordini e i fatti esecrabili che si sono verificati alcuni giorni or sono.
E che le previste restrizioni trovino persino il plauso di personaggi come La Russa o Ferrara, che in una fase della loro vita sono stati molto vicini a chi nelle manifestazioni si abbandonava a pestaggi ed atti di violenza, è sinceramente sconcertante, poiché costoro dovrebbero sapere molto bene che i facinorosi, fortunatamente minoranza, sono sempre in agguato e non possono essere additati a pretesto per limitare l’esercizio delle libertà. Allo stesso tempo non è immaginabile né che l’espressione del pensiero divenga un diritto di censo – chi ha soldi può farlo, mentre è negato a chi non può pagare – né che s’inventino cervellotiche e ridicole diavolerie per permetterne l’esercizio, una sorta di DASPO (divieto d’accesso alle manifestazioni sportive) per gli scioperi: come se non bastasse quanto sino ad oggi è stato fatto per rendersi universalmente ridicoli, ci mancherebbe la "tessera dello scioperante” per far ridere persino i Marziani.
Spiace in ultima analisi che idee così balzane frullino nella testa di un personaggio come Roberto Maroni, che, nonostante leghista, ha evidenziato in parecchie occasioni di avere un certo buon senso. A meno che e com’è inevitabile, la frequentazione prolungata di certi ambienti malati non abbia irrimediabilmente infettato il ministro, facendogli perdere il senso della misura e della realtà.

lunedì, ottobre 17, 2011

Incidenti di Roma: un salto nel passato

Lunedì, 17 ottobre 2011
Il dubbio s’insinua per bocca di Carmelo Briguglio, vicecapogruppo di Fli a Montecitorio ed ex membro del Copasir, il comitato di controllo sui Servizi segreti: «Dinanzi a un disegno eversivo che è stato organizzato e preparato da estremisti e black bloc che hanno messo a ferro e fuoco Roma, unico caso in Europa, la domanda è d'obbligo: ma che hanno fatto i nostri Servizi segreti, quelli alle dipendenze di Gianni Letta? Dov’era la nostra elefantiaca intelligence, quella che cucina per il Copasir rapporti periodici di dubbia utilità? Il dottor Letta informi il Parlamento e il Paese». E anche per Francesco Rutelli dell'Api «la prevenzione degli apparati investigativi verso i teppisti e i delinquenti è stata insoddisfacente».
Queste le considerazioni dell’ultim’ora sulla manifestazione degli "indignati" svoltasi a Roma il 15 scorso e conclusasi con atti di violenza inaudita, perpetrati da un nutrito gruppo di delinquenti organizzati di cui s’ignora la provenienza ma non la finalità: sabotare una massiccia manifestazione di popolo contro l’indecente politica economica e sociale attuata dal nostro governo, scandita da equivoche scelte di sostegno ad una finanza speculativa senza freno e senza regole. Una finanza che oramai detta legge ed impone ai governi dei paesi occidentali, senza eccezione alcuna, ricatti insostenibili, sotto forma di minacce di destabilizzazione economica pur di poter continuare indisturbata le proprie criminali operazioni di arricchimento. E così il denaro pubblico, quello estorto ai cittadini con tasse e gabelle in nome di un risanamento sempre più difficile da realizzare, deve essere convogliato a sostegno delle banche, per evitare che il tracollo di qualcuno di questi santuari inneschi un effetto domino con conseguenze terrificanti sul risparmio e la stabilità economica e politica.
E’ una sorta di cane che si morde la coda. Da una parte gli ingenti indebitamenti di bilancio degli stati, costretti a finanziare la spesa con l’emissione di titoli pubblici a rendimenti sempre più appetibili, ma che erodono gli introiti aggiuntivi frutto delle manovre; dall’altro le banche che sottoscrivono quei titoli, che con il passare dei giorni si rivelano sempre più carta di valore decrescente o, come nel caso dei titoli del debito greco, vere e proprie cambiali senza valore per il rischio default dell’emittente.
In altri termini, la crisi mondiale in atto, segnata anche da una stagnazione della crescita economica, sta rivelandosi sempre più una crisi di modello di sviluppo; una crisi in cui l’eccesso di mercato ha generato un far west finanziario senza precedenti.
E allora gli “indignati”, quel popolo eterogeneo fatto di precari, operai in pericolo di perdere il lavoro, cassintegrati, ex ceto medio, poveri sempre più numerosi, che reclamano una svolta decisa delle politiche dei governi, maggiormente orientate al sostegno dei deboli ed allo sviluppo, ha deciso di protestare, di sfilare per le vie di Roma per testimoniare con la partecipazione la sofferenza e l’insostenibilità della situazione.
In Italia, contrariamente a quanto è accaduto negli altri paesi, la mobilitazione aveva certamente anche una connotazione particolare, una protesta ancora più sentita verso un apparato politico di maggioranza ostaggio di un presidente del consiglio screditato all’inverosimile, che s’ostina a restare al suo posto forte di alchimie da mercato delle vacche, che gli garantiscono il sostegno del parlamento, sebbene travolto da scandali inqualificabili.
Ma sabato è successa qualcosa che era già nell’aria, qualcosa che ci ha improvvisamente trascinati indietro nel tempo, negli anni in cui una certa politica malata di golpismo strisciante si avvaleva del terrore e di forze oscure destabilizzanti per rendere credibile la propria permanenza al potere e allontanare le ipotesi di ricambio.
Bande di delinquenti organizzati ha stravolto il senso di quella protesta, infiltrandosi nello sterminato corteo, per seminare il panico, dando vita ad azioni di guerriglia urbana e di scontri con le forze dell’ordine al solo scopo di screditare la protesta pacifica e far passare per essenziale la permanenza di quei politici contestati, autori colpevoli della vessazione del popolo. Questo, d’altra parte, è un paese in cui storicamente servizi deviati e frange estremiste della reazione sono andati a braccetto con azioni criminali organizzate per intimidire i cittadini: Piazza Fontana, Piazza della Loggia, l’Italicus, tanto per citare alcune delle stragi attribuite troppo in fretta a presunti movimenti eversivi di sinistra, sono stati episodi di terrorismo in cui lo stato non era esente da gravissime responsabilità e di cui l’unica certezza sono stati i morti innocenti sacrificati in nome di un mistificato senso dell’ordine e della democrazia.
La prova di quanto questi sospetti siano vicini alla verità è riscontrabile nelle elucubrazioni di parte rilevabili in alcuni quotidiani di oggi, nei quali i persuasori occulti, incuranti delle prese di distanza di tutte le forze politiche, non hanno esitato a gettare l’ombra di una regia dei maitre à penser della sinistra dietro gli incidenti accaduti. Naturalmente s’è trattato dei soliti propagandisti dell’informazione, dei domestici della reale casa, maestri del fango e, essi stessi, personaggi di fango incapaci di obiettività e di deontologia.
Certo è che non saranno né le spregiudicate illazioni di quattro strilloni né la canagliesca azione di altrettanti delinquenti a modificare l’evidenza: il popolo è stanco e ogni giorno che passa è sempre più esasperato da una situazione nella quale, qualunque sia l’origine delle patologie del sistema, ha la certezza di esser chiamato a pagarne il conto.

(nella foto, un momento dei gravissimi disordini registrati alla marcia degli "indignati" del 15 scorso)

sabato, ottobre 15, 2011

Pubblici dipendenti: a morte, bastardi!

Sabato, 15 ottobre 2011
L’ennesimo shopping di parlamentari ordinato da Silvio Berlusconi ai suoi fidi servitori ha permesso di portare a casa la cinquantatreesima fiducia al suo governo, sebbene gli osservatori siano tutti concordi nel ritenere quella del premier una vittoria di Pirro, stante le profonde divisioni consolidate all’interno della maggioranza, che riducono al lumicino le previsioni di tenuta a medio termine dell’esecutivo.
Così, mentre c’è stato qualcuno che con il suo voto di fiducia ha ricevuto in cambio i previsti trenta denari, qualcun altro ha dato un contributo alla maggioranza senza intascare nulla, se non qualche meritato impropero da parte dell’opposizione di cui si dichiarava far parte. Sì, perché mentre l’opposizione tentava di far mancare il numero legale all’assemblea di Montecitorio, disertando l’aula durante il discorso del premier, i Radicali si presentavano nell’emiciclo e affondavano il tentativo di invalidare il dibattito sulla fiducia per mancanza del numero legale. Un regalo inaspettato e incomprensibile a un governo oramai persino più odiato del famigerato Tambroni degli anni sessanta.
Ringalluzzito dal successo dei 316 voti favorevoli Berlusconi non ha perso tempo a riunire il Consiglio dei ministri e varare un ulteriore giro di vite a danno dei cittadini, particolarmente nei confronti di quei dipendenti pubblici considerati universalmente le sanguisughe del bilancio statale e l’origine di ogni disgrazia del Paese. I folli colpi di scure si sono abbattuti così sulle forze dell’ordine, carabinieri e polizia di stato, a cui sono stati tagliati ben 60 milioni di dotazioni tra il 2012 e il 2013, alla faccia della tanto predicata necessità di garantire la sicurezza dei cittadini.
100 mila euro è invece il taglio previsto per il Corpo dei vigili del fuoco, che d’ora in poi si dovranno arrangiare per l’esecuzione dei loro compiti sul solo personale in organico – già ridotto all’osso con il blocco del turn over – senza poter contare sul supporto del volontariato.
Ma la chicca grottesca, per non definirla infame, è il taglio del buono pasto ai dipendenti che non erogheranno una prestazione lavorativa di almeno otto ore nell’arco della giornata, che, presa alla lettera, rappresenta una decurtazione di ben 154 euro dalla retribuzione mensile. Per capire il provvedimento è importante sapere che i pubblici dipendenti hanno per legge un orario di lavoro di 37,23 ore settimanali, distribuito su cinque giorni lavorativi. Ciò significa che il dipendente è tenuto a prestare la propria attività per 7,45 ore giornaliere - con impossibilità di raggiungere le fatidiche 8 ore di prestazione - e che, pertanto, dal primo gennaio del prossimo anno non solo dovrà rinunciare al contributo pasto, – la cosiddetta mensa del settore privato, - ma dovrà caricarsi l’onere aggiuntivo sul già magro stipendio dell’acquisto del tramezzino e della bottiglietta d’acqua per il pasto meridiano.
Come si evince, siamo oltre il ridicolo e l’infamia: mentre la casta bisboccia ad aragosta e ostriche pagando prezzi da mensa scolastica e addossando la differenza del pasto principesco alla collettività, ai pubblici dipendenti si toglie il contributo pasto, forse nella speranza che i ranghi si riducano anche per effetto di un’augurabile morte per inedia. Perché non pensare ad un accordo con la Charitas per l’apertura di succursali negli uffici pubblici? A quando un provvedimento per staccare la spina ai malati terminali o tagliare l’ossigeno ai moribondi? Anche questi sarebbero risparmi! A cosa serve mantenere in vita una persona già destinata tirare le cuoia di lì a breve? Crede chi ci governa che ostentare ipocrisia ammorbidisca l’immagine di spietato cinismo e di disprezzo verso le categorie deboli della società che ?
Questo non è un governo di gente responsabile, ma una confraternita di infami senza pudore e senza idee, che pensa esclusivamente a mantenere intatto il proprio privilegio di superpagato drappello di estortori della fede collettiva e dell’illusa fiducia dei disgraziati che l’hanno sconsideratamente votato. Un governo che nulla ha fatto per i cittadini, salvo dedicarsi con accanimento eversivo all’esecuzione dei diktat imposti dal plurinquisito che lo presiede, il cui obiettivo è esclusivamente rivolto a garantirsi l’impunità totale dai crimini che ha commesso sia in corso di incarico parlamentare e di governo, sia prima ancora di affacciarsi alla politica e cercare d’utilizzarla come paravento assolutorio alle sue innumerevoli malefatte. Ed è gravissimo che la maggioranza che lo circonda non abbia preso atto che il suo ruolo è ridotto a quello di complice meschino di cui certamente, presto o tardi, sarà chiamato a render conto e pagare il fio.
Oggi sfileranno per le strade di Roma, come in tantissime città del mondo, gli indignati, il popolo di coloro che sono stanchi di continuare a pagare gli errori della politica e gli abusi dei santuari finanziari, che, in intimo e indissolubile rapporto di connivenza, vessano i cittadini e s’arricchiscono ai loro danni. Nel caso italiano si dovrebbe parlare di disgustati più che di indignati, poiché lo spettacolo che ha dato di sé la politica e, primus inter pares, il capo del governo è, anche per le sue vicende personali e per la natura di queste, indecente oltre ogni limite e sopportazione.
Rammentando un vecchio insegnamento si può ammettere che sia esente dalla commissione d’errori solo l’indolente e pertanto chi opera è costantemente in pericolo di commetterne qualcuno o comunque esposto alla critica e al dissenso. Ma a tutto c’è un limite. L’errore va valutato in base alla sua gravità. E considerare un errore lieve e perdonabile persino portarsi le puttane in casa, in qualche modo a spese del pubblico bilancio, reclamando il diritto al rispetto ed all’incensurabilità del proprio privato, è cosa che non può essere consentita neanche a chi fosse in grado di dimostrare inconfutabili origini divine.

(nella foto, un pasto di pubblici dipendenti in una mensa della Charitas)

sabato, ottobre 08, 2011

Lo stallone stanco

Sabato, 8 ottobre 2011
Commovente. Quale altro termine potrebbe meglio descrivere il senso del discorso di Silvio Berlusconi in TV a poche ore dalla sua partenza per Mosca dove presenzierà al compleanno del suo fraterno amico Putin.
Un discorso nel quale ha comunicato alla nazione l’immenso sacrificio, ai confini dell’eroismo, che è chiamato a fare lui e i suoi ministri per l’Italia, nonostante l’ammessa stanchezza e le enormi delusioni provate dalla sua mitica discesa in campo.
Anche la gente, a suo indiscutibile giudizio, è con lui, continua a sostenerlo mentre incerto sale il calvario quotidiano, incitandolo o aggiustandogli la croce sul groppone, certa che una sua rinuncia ci getterebbe nel caos. «Ma ve l’immaginate un governo con Bersani, Di Pietro e Vendola?.... Con Di Pietro alla Giustizia?» ha ammonito il sant’uomo, senza acrimonia ma con la voce quasi incerta per la commozione. Dunque, lui non si farà da parte perché vuole bene al Paese, per spirito encomiabile di sacrificio – si potrebbe persino parlare di martirio! – perché nell’attuale situazione di crisi una rinuncia sarebbe esiziale per le sorti della nazione.
Da giovani abbiamo avuto qualche amico che aveva preso una strada pericolosa, una di quelle strade fatta di facili illusioni artificiali, che tanti ha condotto ad un’esperienza sfortunata e senza ritorno. Certo per un giovane debole e afflitto da molteplici problemi esistenziali e di crescita, sull’onda di una subcultura fondata sulla convinzione che il chiudersi in una torre eburnea virtuale in contrapposizione alla lotta per degli ideali e dei valori, il percorso fu tragicamente facile. E a chi gli chiedeva con l’intento d’aiutarlo di confidargli quali benefici ritenesse di trarre da un trip da LSD o da altre sostanze, la risposta era sconvolgente: vado in un mondo migliore, un mondo fatto di colori e di speranze, in cui gli altri mi amano, mi accettano con entusiasmo e mi sento veramente forte, unico, insostituibile.
Il mondo che descriveva, ovviamente, era falso, era probabilmente la proiezione inconscia del malessere che si portava dentro, delle ragioni per le quali nella sua debolezza aveva la necessità di surrogare la realtà tangibile con un’esistenza virtuale appagante, pur se breve.
Ecco, i discorsi di Berlusconi – lungi da noi l’idea di voler insinuare qualunque sospetto sull’uomo a pratiche d’una certa natura – somigliano anche troppo a quelli del nostro sfortunato amico di gioventù. Anche lui s’ostina a credere che il suo mondo, quello dei bunga-bunga, della patonza che gira e della gnocca a gogò, sia quello reale e non quello virtuale in cui si cala alla fine delle sue giornate di lavoro. Un mondo nel quale s’immagina il plauso della gente, il sostegno plebiscitario del popolo, persino pronto ad incitarlo a farsi la prossima donzella e a scommettere sulla sua erculea resistenza di maschio stallone.
Tutto ciò è grave. Ma è ancor più grave che proprio in assenza di anabolizzanti ed altri supporti chimici sia in grado di stravolgere la realtà che lo circonda sino al punto da negare la più solare delle evidenze: il popolo è stanco delle sue bizzarrie, è stanco dei suoi lagnosi onanismi verbali alla volta di comunisti, giudici, procure e di quant’altro si dichiari apertamente stufo dell’indegno spettacolo che ha dato e continua a dare di sé e del suo sgangherato esecutivo.
Persino la Chiesa non ha potuto più fare a meno di insorgere allo sconcio e chiedere a gran voce di aprire finalmente porte e finestre per ricambiare l’aria, un’aria fetida e irrespirabile che sta intossicando istituzioni e cittadini.
Il tapino, l’ex stallone da nave da crociera, il casanova a cui la patonza gira grazie al denaro smisurato e non certo in virtù del fascino spento da vegliardo siliconato, non vuol capire che gli Italiani non ce l’hanno su con lui perché invidiosi delle abbuffate di gnocca, che per svariate ragioni non possono o non vogliono permettersi, ma per la manifesta incapacità dimostrata di gestire il potere che gli hanno delegato nell’esercizio del governo; della vacuità con cui ha gestito la cosa pubblica, del disprezzo che non ha nascosto nel farsi carico dei problemi della gente comune. Mai s’è visto in quasi settant’anni di storia repubblicana un governo capace di scatenare l’odio di un così sterminato numero di categorie sociali: pubblici dipendenti, magistrati, insegnanti, imprenditori piccoli e grandi, pensionati, studenti, operai, ceto medio e chi più ne ha più ne metta, al punto che quando, con ebete sorriso ammaliante insiste nel proclamare le sue visioni di un popolo felice, pronto a riconfermarlo alla scadenza del mandato, i suoi appelli disperati suonano ancor più vaneggianti di quelli del suo ex amico di bisbocce Muammar Gheddafi in uno dei suoi demenziali interventi a pagamento da qualche radio araba amica.
Di Pietro, qualche settima fa, ebbe ad ammonire sul pericolo di disordini che il perdurare di questo stallo può determinare, disordini accompagnati magari da eventi luttuosi, che tutti vorrebbero ed avrebbero il dovere di evitare. Non siamo in grado né di scongiurare quell’ipotesi, né men che meno di confermarla. Certo è che il moltiplicarsi della protesta, aizzata anche dall’ulteriore benzina di pazzesche leggi bavaglio in procinto d’essere varate, non lasciano presagire alcunché di buono.
In genere gli stalloni, quelli di razza che hanno contribuito alla perpetuazione della specie, quando giungono alla fine della carriera subiscono una triste fine. Altri vengono confinati in un recinto più o meno ampio dove si possono godere gli ultimi anni d’esistenza in libertà. C’è d’augurarsi che il nostro, senza voler tirare inutilmente la corda all’estremo, decida per un pascolo senza steccati, dotato di un comodo ricovero con tutti confort, con tanto di videoregistratore nel quale far scorrere a piacimento qualche fotogramma piccante, che gli ricordi i bei tempi andati e gli dia l’illusione di essere per sempre l'ncontrastato re del bunga-bunga.

(nella foto, Gheddafi e Berlusconi che si scambiano affettuosi convenevoli ad un incontro tra grandi esperti di gnocca)


mercoledì, ottobre 05, 2011

Le lacrime del coccodrillo

Mercoledì, 5 ottobre 2011
Africa nera, non Europa. Questa è la condizione ricorrente di chi lavora al Sud, quel sud che non è limitato alla Calabria, alla Puglia e alla Sicilia, ma che abbraccia una realtà territoriale che va da Roma in giù, con sconfinamenti ampi in Umbria e Toscana e Marche.
Ci volevano quattro morti per riportare all’attenzione del mondo un fenomeno tragico assai noto, ma ufficialmente ignorato scientemente da tutti, per ignavia in qualche caso, per indifferenza e opportunismo in qualche altro, ma con il comune denominatore di stendere un velo di colpevole omertà su una prassi lavorativa che non ha uguali nel mondo civile.
«Lavoravano in nero, senza contratto», è l’accusa dei parenti delle operaie morte nel crollo della palazzina di via Roma, a Barletta. «Mia nipote, 33 anni, prendeva 3,95 euro all'ora, mia nuora quattro: lavoravano dalle 8 alle 14 ore, a seconda del lavoro che c'era da fare. Avevano ferie e tredicesima pagate, ma senza contratto. Quelle donne lavoravano per pagare affitti, mutui, benzina, per poter vivere, anzi sopravvivere» ha raccontato la zia di una delle vittime. La Cgil intanto conferma che le operaie morte «lavoravano in nero per pochi euro all'ora» e anche che «dopo rapide verifiche che l'azienda fosse completamente sconosciuta all'Inps».
«Nel dramma di Barletta - ha dichiarato l’ex ministro Ferrero - non abbiamo solo un segno di arretratezza, ma la tragica modernità di un capitalismo disumano», quel capitalismo – aggiungiamo noi – molto spesso straccione che non esita a rendere schiavi quanti per necessità e per mancanza di opportunità svendono persino la propria dignità d’esseri umani e si rendono “carne da macello” pur di portare un tozzo di pane a casa. Un capitalismo fatto molto spesso non da imprenditori veri, ma di ex sfruttati a loro volta, che, coprendosi di debiti con lo strozzino di turno, sono riusciti a mettere su in un garage o in uno scantinato una più che modesta attività produttiva, con la quale ritengono d'essersi affrancati e si perpetua il rito dello sfruttamento, in un tripudio d’illegalità, di precariato, di assenza di ogni norma antinfortunistica, di regole contrattuali e, quel che peggio, di garanzia di continuità.
E’ il sottobosco della disperazione, di cui il sud dell’Italia è endemicamente infetto, con buona pace della classe politica al potere, sia locale che nazionale. Nell’incuria delle istituzioni, sempre pronte a fingere stupore e sdegno altisonante quando la tragedia di turno fa emergere un sommerso putrido e molto più esteso di quanto si possa immaginare dal caso sotto i riflettori.
Accanto a questo mondo di migliaia di donne e uomini senza volto, la cui esistenza vale appena qualche euro all’ora, c’è poi la finta legalità, per certi versi ancora più criminale e diffusa: imprese nazionali, anche di chiara fama, che costringono la gente con il ricatto di un impiego a lavorare con contratti fasulli, di mera apparenza: contratti da 4 ore, ma con prestazioni lavorative da 10 ore giornaliere, in cui non ci sono straordinari riconosciuti, pause per la consumazione di un modesto panino, rispetto delle regole minime previste dai contratti nazionali di riferimento. Le retribuzioni sono erogate in contanti, per non lasciare alcuna traccia delle abissali differenze di paga tra il percepito e il dovuto, con tanto di firma liberatoria. Ciò consente a iene immonde, maestri dell'imbroglio, di evadere in apparente legalità e di costituirsi provviste in nero per corrompere, all'occorrenza, addetti ai controlli o impiegati infedeli preposti al rilascio delle più disparate autorizzazioni.
«L'inaccettabile ripetersi di terribili sciagure, laddove si vive e si lavora, impone l'accertamento rigoroso delle cause e delle responsabilità, e soprattutto l'impegno di tutti, poteri pubblici e soggetti privati, a tenere sempre alta la guardia sulle condizioni di sicurezza delle abitazioni e dei luoghi di lavoro con una costante azione di prevenzione e vigilanza», è stata la dichiarazione di Giorgio Napolitano, a cui se da un lato va il rispetto per l’accorata denuncia, non può nascondersi la rabbia per una presa di posizione tardiva, priva di prevedibili ricadute come di consueto, e per la palese omissione di un richiamo al governo ad un pressante e integerrimo controllo a tappeto del territorio e delle imprese su di esso presenti, proprio a cominciare da quelle visibili e apparentemente in regola. Chieda il Presidente della Repubblica di cominciare dalle numerose attività commerciali, in cui il lavoro nero, sottopagato, i contratti truffa, l’evasione fiscale e contributiva sono regola conclamata, piuttosto che limitarsi a comunicare il suo sconcerto e il cordoglio della nazione ad ogni episodio in cui dalla tragedia emerge l’ennesimo caso di sfruttamento e di miseria umana. Di questi santuari dell'evasione e dello sfruttamento ne conosce qualcuno anche chi scrive e non ha certo remore a denunciarne nome e coordinate a chi avrebbe il dovere di reprimere gli abusi e si spaccia per paladino della legalità.
Basta con questi infingimenti e questi rituali blasfemi di commozione e stupore dissimulati. Il Paese ed il Sud in particolare, che non sono mai usciti da una cultura medievale di sfruttamento dell’uomo sull’uomo – Napolitano, da uomo del Sud, sa bene queste cose – ha l’improrogabile necessità di virare rotta se vuol continuare a sedere tra i grandi del mondo a pieno titolo. La crisi, i suoi effetti, il risanamento dell’economia non possono essere curati solo con strette fiscali e con finte manovre di riduzione degli sprechi, ma passano attraverso un processo di riasanamento e di sviluppo che deve principalmente puntare all’asportazione di un cancro storico assai radicato nel contesto sociale meridionale. Anche il fenomeno malavitoso è frutto di questo sottosviluppo endemico, poiché spinge parecchi giovani a scelte sbagliate come lo spaccio, il furto, la prostituzione, che consentono un'esistenza economicamente più sostenibile di quella pagata 4 euro l'ora. Tra il morire di fame e dormire sotto ad un ponte, nell’impossibilità di reperire un mezzo di sostentamento dignitoso, per chi comunque rimane fondamentalmente onesto, piegarsi allo sfruttamento sarà pure un espediente che allevia la disperazione e l'emarginazione sociale, ma è allo stesso tempo la sconfittà della civiltà.

(nella foto, le macerie del palazzo crollato a Barletta in cui hanno perso la vita 4 lavoratrici pagate pochi spiccioli l'ora da una ditta fantasma)

martedì, ottobre 04, 2011

Neanche gli Squallor farebbero di meglio

Martedì, 4 ottobre 2011
Chissà quali rappresaglie si preparino ai danni di Moncalvo, quel Gigi giornalista che per qualche anno ha fatto il direttore di quel dépliant di stupida demagogia con pretese da quotidiano che risponde al nome di la Padania. Il giovanotto ha parlato ed ha svelato sotto l’incalzare di Lucia Annunziata In Mezz’ora la tresca tra B&B, che non è il noto produttore di divani, ma il duo Berlusconi-Bossi, padano per nascita e padano per convenienza.
Secondo il giornalista, che cita tra le altre fonti la ex giornalista di Radio Padania Rosanna Sapori e il giornalista di Famiglia Cristiana Guglielmo Sasimini, ci sarebbe un “vero e proprio contratto stipulato davanti ad un notaio”. L’accordo, datato gennaio 2000, sarebbe stato firmato un anno prima delle politiche del 2001 in cui Bossi e Berlusconi erano alleati. Nel giugno del 2000 infatti, come aveva documentato Mario Calabresi su la Repubblica, Giovanni Dell’Elce, allora amministratore nazionale di Forza Italia e oggi deputato del Pdl, scrisse alla Banca di Roma per comunicare una fideiussione di “due miliardi di vecchie lire a favore della Lega”.
Moncalvo ha aggiunto che “Berlusconi (con l'assistenza del famosissimo Aldo Brancher, ndr) aveva fatto un intervento economico pesante a favore della casse della Lega”, che allora versava in uno stato finanziario critico: la sede del partito era stata pignorata e i giornalisti non ricevevano più lo stipendio. A quel punto Berlusconi avrebbe rinunciato “a un serie di cause civili per gli slogan e le paginate” de la Padania, in cui il premier “veniva accusato di essere mafioso”, in cambio della cessione della titolarità del simbolo del Carroccio e d’un patto che prevedeva anche la formazione di un think tank per la formulazione di una riforma costituzionale per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. E se fosse passata col referendum, Napolitano, ha aggiunto Moncalvo, sarebbe stato “costretto a dimettersi”. Dall’altra parte Berlusconi, “convinto di essere eletto dal plebiscito popolare”, sarebbe andato al Quirinale. A fare parte del think tank, “Tremonti, Calderoli e La Russa”.
Fin qui la storia edificante delle gesta del condottiero di Cassano Magnago, che da un po’ di tempo appare in forte calo di leadership e di credibilità, al punto da dover subire quasi la derisioni di qualche ex fedele, come Roberto Maroni, ministro degli Interni, e Flavio Tosi, sindaco di Verona e in forte ascesa di consensi nel partito, causa le esternazioni sempre più ridicole sulla secessione e l’indipendenza della Padania. Ovviamente, in perfetto stile da guappo, il democratico Bossi a liquidato le critiche definendole "parole a vanvera", mentre i suoi più fedeli picciotti hanno minacciato d’espellere i critici dal partito.
A queste farneticanti esternazioni anche il Presidente Napolitano ha sentito il dovere di dare una rintuzzata, rammentando al bolso capo del Carroccio che un certo Finocchiaro Aprile, affetto dalla stessa patologia persecutoria, fallì miseramente i suoi ben più fondati tentativi di secessionismo della Sicilia dallo stato italiano e che, comunque, la Carta non ammette l’indizione di alcun referendum sull’integrità della Repubblica.
Nonostante non appartenga alla categoria dei sovversivi, Diego Della Valle, meglio noto come Mr. Tod’s, davanti al clima da saloon che s’è orami instaurato in parlamento e nei palazzi della politica, di cui le minchiate bossiane sono un esempio illuminante, ha sentito il dovere di comprarsi una pagina di giornale per poter dire basta ad una classe politica che costantemente dà mostra della propria bassezza ed invitarla, senza mezzi termini, a tornarsene a casa, con le proprie gambe. E' inconcepibile che il Paese si dibatta in un’agonia senza fine e la sua classe dirigente sprechi il proprio tempo a recuperare gli slip persi dalle escort del capo del governo o a costruire progetti fantagiuridici di inibizione della pubblicazione di intercettazioni, riforme limitative della libertà di indagine dei magistrati e riforme del processo penale tese a garantire a quel galantuomo del premier di fare la fine che tutto il mondo s’aspetta, è stato il senso del messaggio di Della Valle.
Divertente il commento di Ignazio La Russa, - Come Maurizio Crozza deve avere il cabaret nel DNA, - il quale, buon conoscitore della claque organizzata, ha affermato che Della Valle “può farsi sentire solo a pagamento”. Né di minore ilarità quello della Bindi, che, sentendosi accumunata al nugolo di barboni che affollano la politica (excusatio non petita…), ha chiesto d’essere rispettata almeno per essere una consumatrice di scarpe Tod’s.
Ma le risse tra gli alticci frequentatori del saloon non finiscono qui. Un certo Marchionne, d’origini italo-canadesi, ma famoso per le scorrerie nei ranch e nei corral dove si mettono a punto cavalli di ferro targati FIAT, sta seminando il terrore, sparando a vista con una Colt 45 su chiunque osi attraversargli la strada e contrastare il suo progetto di addomesticare le migliaia di persone che in quei siti si guadagnano da vivere. Gli stessi complici di un tempo, dalla Calamity Marcegaglia a Bonanni e Angeletti, sembrano aver mollato lo spaccone, stanchi della sua arroganza e della propensione alla provocazione. Un certo Landini, alla testa di un pugno di peones irriducibili, pare essere rimasto l’ultimo degli ostacoli sulla sua strada.
Parlare di sconforto in questo quadro è quanto mai inopportuno, considerato che a questo sentimento corrisponde un’idea di giustizia e libertà perduta, ma sempre possibile da ripristinare. Mentre, nella situazione che stiamo vivendo, alla speranza sono stati da tempo celebrati i funerali, persino in tono minore, per evitare rappresaglie da parte dei suoi killer. Il buon Di Pietro, non esente da peccati, sebbene costretto alla macchia, è riuscito ad infliggere un durissimo colpo alla credibilità e alla baldanza dell’élite dominante, portando a casa oltre un milione e duecentomila firme per un referendum abrogativo di una legge elettorale di chiaro stampo mafioso. Ma a parte la presenza di chi sopra quel successo ha messo il cappello, pur avendone prese le distanze, come Bersani e i Kautskyani del PD, c’è già fermento e fibrillazione nel tentativo di vanificare l’opera di pulizia sollecitata dal capo dell’IdV.
Chi ci salverà da questo precipitare sempre più in basso in una spirale di vergogna e sopraffazione? C’è da confidare in Giorgio Napolitano, quel Presidente a cui qualche imbecille ha rimproverato d’esser stato comunista, onestamente comunista, affinché opponga un rifiuto netto e categorico al varo dei provvedimenti-misfatto in lavorazione nel night club di palazzo Chigi.

(nella foto, Diego Della Valle, patron della Tod's)