sabato, ottobre 15, 2011

Pubblici dipendenti: a morte, bastardi!

Sabato, 15 ottobre 2011
L’ennesimo shopping di parlamentari ordinato da Silvio Berlusconi ai suoi fidi servitori ha permesso di portare a casa la cinquantatreesima fiducia al suo governo, sebbene gli osservatori siano tutti concordi nel ritenere quella del premier una vittoria di Pirro, stante le profonde divisioni consolidate all’interno della maggioranza, che riducono al lumicino le previsioni di tenuta a medio termine dell’esecutivo.
Così, mentre c’è stato qualcuno che con il suo voto di fiducia ha ricevuto in cambio i previsti trenta denari, qualcun altro ha dato un contributo alla maggioranza senza intascare nulla, se non qualche meritato impropero da parte dell’opposizione di cui si dichiarava far parte. Sì, perché mentre l’opposizione tentava di far mancare il numero legale all’assemblea di Montecitorio, disertando l’aula durante il discorso del premier, i Radicali si presentavano nell’emiciclo e affondavano il tentativo di invalidare il dibattito sulla fiducia per mancanza del numero legale. Un regalo inaspettato e incomprensibile a un governo oramai persino più odiato del famigerato Tambroni degli anni sessanta.
Ringalluzzito dal successo dei 316 voti favorevoli Berlusconi non ha perso tempo a riunire il Consiglio dei ministri e varare un ulteriore giro di vite a danno dei cittadini, particolarmente nei confronti di quei dipendenti pubblici considerati universalmente le sanguisughe del bilancio statale e l’origine di ogni disgrazia del Paese. I folli colpi di scure si sono abbattuti così sulle forze dell’ordine, carabinieri e polizia di stato, a cui sono stati tagliati ben 60 milioni di dotazioni tra il 2012 e il 2013, alla faccia della tanto predicata necessità di garantire la sicurezza dei cittadini.
100 mila euro è invece il taglio previsto per il Corpo dei vigili del fuoco, che d’ora in poi si dovranno arrangiare per l’esecuzione dei loro compiti sul solo personale in organico – già ridotto all’osso con il blocco del turn over – senza poter contare sul supporto del volontariato.
Ma la chicca grottesca, per non definirla infame, è il taglio del buono pasto ai dipendenti che non erogheranno una prestazione lavorativa di almeno otto ore nell’arco della giornata, che, presa alla lettera, rappresenta una decurtazione di ben 154 euro dalla retribuzione mensile. Per capire il provvedimento è importante sapere che i pubblici dipendenti hanno per legge un orario di lavoro di 37,23 ore settimanali, distribuito su cinque giorni lavorativi. Ciò significa che il dipendente è tenuto a prestare la propria attività per 7,45 ore giornaliere - con impossibilità di raggiungere le fatidiche 8 ore di prestazione - e che, pertanto, dal primo gennaio del prossimo anno non solo dovrà rinunciare al contributo pasto, – la cosiddetta mensa del settore privato, - ma dovrà caricarsi l’onere aggiuntivo sul già magro stipendio dell’acquisto del tramezzino e della bottiglietta d’acqua per il pasto meridiano.
Come si evince, siamo oltre il ridicolo e l’infamia: mentre la casta bisboccia ad aragosta e ostriche pagando prezzi da mensa scolastica e addossando la differenza del pasto principesco alla collettività, ai pubblici dipendenti si toglie il contributo pasto, forse nella speranza che i ranghi si riducano anche per effetto di un’augurabile morte per inedia. Perché non pensare ad un accordo con la Charitas per l’apertura di succursali negli uffici pubblici? A quando un provvedimento per staccare la spina ai malati terminali o tagliare l’ossigeno ai moribondi? Anche questi sarebbero risparmi! A cosa serve mantenere in vita una persona già destinata tirare le cuoia di lì a breve? Crede chi ci governa che ostentare ipocrisia ammorbidisca l’immagine di spietato cinismo e di disprezzo verso le categorie deboli della società che ?
Questo non è un governo di gente responsabile, ma una confraternita di infami senza pudore e senza idee, che pensa esclusivamente a mantenere intatto il proprio privilegio di superpagato drappello di estortori della fede collettiva e dell’illusa fiducia dei disgraziati che l’hanno sconsideratamente votato. Un governo che nulla ha fatto per i cittadini, salvo dedicarsi con accanimento eversivo all’esecuzione dei diktat imposti dal plurinquisito che lo presiede, il cui obiettivo è esclusivamente rivolto a garantirsi l’impunità totale dai crimini che ha commesso sia in corso di incarico parlamentare e di governo, sia prima ancora di affacciarsi alla politica e cercare d’utilizzarla come paravento assolutorio alle sue innumerevoli malefatte. Ed è gravissimo che la maggioranza che lo circonda non abbia preso atto che il suo ruolo è ridotto a quello di complice meschino di cui certamente, presto o tardi, sarà chiamato a render conto e pagare il fio.
Oggi sfileranno per le strade di Roma, come in tantissime città del mondo, gli indignati, il popolo di coloro che sono stanchi di continuare a pagare gli errori della politica e gli abusi dei santuari finanziari, che, in intimo e indissolubile rapporto di connivenza, vessano i cittadini e s’arricchiscono ai loro danni. Nel caso italiano si dovrebbe parlare di disgustati più che di indignati, poiché lo spettacolo che ha dato di sé la politica e, primus inter pares, il capo del governo è, anche per le sue vicende personali e per la natura di queste, indecente oltre ogni limite e sopportazione.
Rammentando un vecchio insegnamento si può ammettere che sia esente dalla commissione d’errori solo l’indolente e pertanto chi opera è costantemente in pericolo di commetterne qualcuno o comunque esposto alla critica e al dissenso. Ma a tutto c’è un limite. L’errore va valutato in base alla sua gravità. E considerare un errore lieve e perdonabile persino portarsi le puttane in casa, in qualche modo a spese del pubblico bilancio, reclamando il diritto al rispetto ed all’incensurabilità del proprio privato, è cosa che non può essere consentita neanche a chi fosse in grado di dimostrare inconfutabili origini divine.

(nella foto, un pasto di pubblici dipendenti in una mensa della Charitas)

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