Le lacrime del coccodrillo
Mercoledì, 5 ottobre 2011
Africa nera, non Europa. Questa è la condizione ricorrente di chi lavora al Sud, quel sud che non è limitato alla Calabria, alla Puglia e alla Sicilia, ma che abbraccia una realtà territoriale che va da Roma in giù, con sconfinamenti ampi in Umbria e Toscana e Marche.
Ci volevano quattro morti per riportare all’attenzione del mondo un fenomeno tragico assai noto, ma ufficialmente ignorato scientemente da tutti, per ignavia in qualche caso, per indifferenza e opportunismo in qualche altro, ma con il comune denominatore di stendere un velo di colpevole omertà su una prassi lavorativa che non ha uguali nel mondo civile.
«Lavoravano in nero, senza contratto», è l’accusa dei parenti delle operaie morte nel crollo della palazzina di via Roma, a Barletta. «Mia nipote, 33 anni, prendeva 3,95 euro all'ora, mia nuora quattro: lavoravano dalle 8 alle 14 ore, a seconda del lavoro che c'era da fare. Avevano ferie e tredicesima pagate, ma senza contratto. Quelle donne lavoravano per pagare affitti, mutui, benzina, per poter vivere, anzi sopravvivere» ha raccontato la zia di una delle vittime. La Cgil intanto conferma che le operaie morte «lavoravano in nero per pochi euro all'ora» e anche che «dopo rapide verifiche che l'azienda fosse completamente sconosciuta all'Inps».
«Nel dramma di Barletta - ha dichiarato l’ex ministro Ferrero - non abbiamo solo un segno di arretratezza, ma la tragica modernità di un capitalismo disumano», quel capitalismo – aggiungiamo noi – molto spesso straccione che non esita a rendere schiavi quanti per necessità e per mancanza di opportunità svendono persino la propria dignità d’esseri umani e si rendono “carne da macello” pur di portare un tozzo di pane a casa. Un capitalismo fatto molto spesso non da imprenditori veri, ma di ex sfruttati a loro volta, che, coprendosi di debiti con lo strozzino di turno, sono riusciti a mettere su in un garage o in uno scantinato una più che modesta attività produttiva, con la quale ritengono d'essersi affrancati e si perpetua il rito dello sfruttamento, in un tripudio d’illegalità, di precariato, di assenza di ogni norma antinfortunistica, di regole contrattuali e, quel che peggio, di garanzia di continuità.
E’ il sottobosco della disperazione, di cui il sud dell’Italia è endemicamente infetto, con buona pace della classe politica al potere, sia locale che nazionale. Nell’incuria delle istituzioni, sempre pronte a fingere stupore e sdegno altisonante quando la tragedia di turno fa emergere un sommerso putrido e molto più esteso di quanto si possa immaginare dal caso sotto i riflettori.
Accanto a questo mondo di migliaia di donne e uomini senza volto, la cui esistenza vale appena qualche euro all’ora, c’è poi la finta legalità, per certi versi ancora più criminale e diffusa: imprese nazionali, anche di chiara fama, che costringono la gente con il ricatto di un impiego a lavorare con contratti fasulli, di mera apparenza: contratti da 4 ore, ma con prestazioni lavorative da 10 ore giornaliere, in cui non ci sono straordinari riconosciuti, pause per la consumazione di un modesto panino, rispetto delle regole minime previste dai contratti nazionali di riferimento. Le retribuzioni sono erogate in contanti, per non lasciare alcuna traccia delle abissali differenze di paga tra il percepito e il dovuto, con tanto di firma liberatoria. Ciò consente a iene immonde, maestri dell'imbroglio, di evadere in apparente legalità e di costituirsi provviste in nero per corrompere, all'occorrenza, addetti ai controlli o impiegati infedeli preposti al rilascio delle più disparate autorizzazioni.
«L'inaccettabile ripetersi di terribili sciagure, laddove si vive e si lavora, impone l'accertamento rigoroso delle cause e delle responsabilità, e soprattutto l'impegno di tutti, poteri pubblici e soggetti privati, a tenere sempre alta la guardia sulle condizioni di sicurezza delle abitazioni e dei luoghi di lavoro con una costante azione di prevenzione e vigilanza», è stata la dichiarazione di Giorgio Napolitano, a cui se da un lato va il rispetto per l’accorata denuncia, non può nascondersi la rabbia per una presa di posizione tardiva, priva di prevedibili ricadute come di consueto, e per la palese omissione di un richiamo al governo ad un pressante e integerrimo controllo a tappeto del territorio e delle imprese su di esso presenti, proprio a cominciare da quelle visibili e apparentemente in regola. Chieda il Presidente della Repubblica di cominciare dalle numerose attività commerciali, in cui il lavoro nero, sottopagato, i contratti truffa, l’evasione fiscale e contributiva sono regola conclamata, piuttosto che limitarsi a comunicare il suo sconcerto e il cordoglio della nazione ad ogni episodio in cui dalla tragedia emerge l’ennesimo caso di sfruttamento e di miseria umana. Di questi santuari dell'evasione e dello sfruttamento ne conosce qualcuno anche chi scrive e non ha certo remore a denunciarne nome e coordinate a chi avrebbe il dovere di reprimere gli abusi e si spaccia per paladino della legalità.
Basta con questi infingimenti e questi rituali blasfemi di commozione e stupore dissimulati. Il Paese ed il Sud in particolare, che non sono mai usciti da una cultura medievale di sfruttamento dell’uomo sull’uomo – Napolitano, da uomo del Sud, sa bene queste cose – ha l’improrogabile necessità di virare rotta se vuol continuare a sedere tra i grandi del mondo a pieno titolo. La crisi, i suoi effetti, il risanamento dell’economia non possono essere curati solo con strette fiscali e con finte manovre di riduzione degli sprechi, ma passano attraverso un processo di riasanamento e di sviluppo che deve principalmente puntare all’asportazione di un cancro storico assai radicato nel contesto sociale meridionale. Anche il fenomeno malavitoso è frutto di questo sottosviluppo endemico, poiché spinge parecchi giovani a scelte sbagliate come lo spaccio, il furto, la prostituzione, che consentono un'esistenza economicamente più sostenibile di quella pagata 4 euro l'ora. Tra il morire di fame e dormire sotto ad un ponte, nell’impossibilità di reperire un mezzo di sostentamento dignitoso, per chi comunque rimane fondamentalmente onesto, piegarsi allo sfruttamento sarà pure un espediente che allevia la disperazione e l'emarginazione sociale, ma è allo stesso tempo la sconfittà della civiltà.
(nella foto, le macerie del palazzo crollato a Barletta in cui hanno perso la vita 4 lavoratrici pagate pochi spiccioli l'ora da una ditta fantasma)
Ci volevano quattro morti per riportare all’attenzione del mondo un fenomeno tragico assai noto, ma ufficialmente ignorato scientemente da tutti, per ignavia in qualche caso, per indifferenza e opportunismo in qualche altro, ma con il comune denominatore di stendere un velo di colpevole omertà su una prassi lavorativa che non ha uguali nel mondo civile.
«Lavoravano in nero, senza contratto», è l’accusa dei parenti delle operaie morte nel crollo della palazzina di via Roma, a Barletta. «Mia nipote, 33 anni, prendeva 3,95 euro all'ora, mia nuora quattro: lavoravano dalle 8 alle 14 ore, a seconda del lavoro che c'era da fare. Avevano ferie e tredicesima pagate, ma senza contratto. Quelle donne lavoravano per pagare affitti, mutui, benzina, per poter vivere, anzi sopravvivere» ha raccontato la zia di una delle vittime. La Cgil intanto conferma che le operaie morte «lavoravano in nero per pochi euro all'ora» e anche che «dopo rapide verifiche che l'azienda fosse completamente sconosciuta all'Inps».
«Nel dramma di Barletta - ha dichiarato l’ex ministro Ferrero - non abbiamo solo un segno di arretratezza, ma la tragica modernità di un capitalismo disumano», quel capitalismo – aggiungiamo noi – molto spesso straccione che non esita a rendere schiavi quanti per necessità e per mancanza di opportunità svendono persino la propria dignità d’esseri umani e si rendono “carne da macello” pur di portare un tozzo di pane a casa. Un capitalismo fatto molto spesso non da imprenditori veri, ma di ex sfruttati a loro volta, che, coprendosi di debiti con lo strozzino di turno, sono riusciti a mettere su in un garage o in uno scantinato una più che modesta attività produttiva, con la quale ritengono d'essersi affrancati e si perpetua il rito dello sfruttamento, in un tripudio d’illegalità, di precariato, di assenza di ogni norma antinfortunistica, di regole contrattuali e, quel che peggio, di garanzia di continuità.
E’ il sottobosco della disperazione, di cui il sud dell’Italia è endemicamente infetto, con buona pace della classe politica al potere, sia locale che nazionale. Nell’incuria delle istituzioni, sempre pronte a fingere stupore e sdegno altisonante quando la tragedia di turno fa emergere un sommerso putrido e molto più esteso di quanto si possa immaginare dal caso sotto i riflettori.
Accanto a questo mondo di migliaia di donne e uomini senza volto, la cui esistenza vale appena qualche euro all’ora, c’è poi la finta legalità, per certi versi ancora più criminale e diffusa: imprese nazionali, anche di chiara fama, che costringono la gente con il ricatto di un impiego a lavorare con contratti fasulli, di mera apparenza: contratti da 4 ore, ma con prestazioni lavorative da 10 ore giornaliere, in cui non ci sono straordinari riconosciuti, pause per la consumazione di un modesto panino, rispetto delle regole minime previste dai contratti nazionali di riferimento. Le retribuzioni sono erogate in contanti, per non lasciare alcuna traccia delle abissali differenze di paga tra il percepito e il dovuto, con tanto di firma liberatoria. Ciò consente a iene immonde, maestri dell'imbroglio, di evadere in apparente legalità e di costituirsi provviste in nero per corrompere, all'occorrenza, addetti ai controlli o impiegati infedeli preposti al rilascio delle più disparate autorizzazioni.
«L'inaccettabile ripetersi di terribili sciagure, laddove si vive e si lavora, impone l'accertamento rigoroso delle cause e delle responsabilità, e soprattutto l'impegno di tutti, poteri pubblici e soggetti privati, a tenere sempre alta la guardia sulle condizioni di sicurezza delle abitazioni e dei luoghi di lavoro con una costante azione di prevenzione e vigilanza», è stata la dichiarazione di Giorgio Napolitano, a cui se da un lato va il rispetto per l’accorata denuncia, non può nascondersi la rabbia per una presa di posizione tardiva, priva di prevedibili ricadute come di consueto, e per la palese omissione di un richiamo al governo ad un pressante e integerrimo controllo a tappeto del territorio e delle imprese su di esso presenti, proprio a cominciare da quelle visibili e apparentemente in regola. Chieda il Presidente della Repubblica di cominciare dalle numerose attività commerciali, in cui il lavoro nero, sottopagato, i contratti truffa, l’evasione fiscale e contributiva sono regola conclamata, piuttosto che limitarsi a comunicare il suo sconcerto e il cordoglio della nazione ad ogni episodio in cui dalla tragedia emerge l’ennesimo caso di sfruttamento e di miseria umana. Di questi santuari dell'evasione e dello sfruttamento ne conosce qualcuno anche chi scrive e non ha certo remore a denunciarne nome e coordinate a chi avrebbe il dovere di reprimere gli abusi e si spaccia per paladino della legalità.
Basta con questi infingimenti e questi rituali blasfemi di commozione e stupore dissimulati. Il Paese ed il Sud in particolare, che non sono mai usciti da una cultura medievale di sfruttamento dell’uomo sull’uomo – Napolitano, da uomo del Sud, sa bene queste cose – ha l’improrogabile necessità di virare rotta se vuol continuare a sedere tra i grandi del mondo a pieno titolo. La crisi, i suoi effetti, il risanamento dell’economia non possono essere curati solo con strette fiscali e con finte manovre di riduzione degli sprechi, ma passano attraverso un processo di riasanamento e di sviluppo che deve principalmente puntare all’asportazione di un cancro storico assai radicato nel contesto sociale meridionale. Anche il fenomeno malavitoso è frutto di questo sottosviluppo endemico, poiché spinge parecchi giovani a scelte sbagliate come lo spaccio, il furto, la prostituzione, che consentono un'esistenza economicamente più sostenibile di quella pagata 4 euro l'ora. Tra il morire di fame e dormire sotto ad un ponte, nell’impossibilità di reperire un mezzo di sostentamento dignitoso, per chi comunque rimane fondamentalmente onesto, piegarsi allo sfruttamento sarà pure un espediente che allevia la disperazione e l'emarginazione sociale, ma è allo stesso tempo la sconfittà della civiltà.
(nella foto, le macerie del palazzo crollato a Barletta in cui hanno perso la vita 4 lavoratrici pagate pochi spiccioli l'ora da una ditta fantasma)
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