domenica, febbraio 26, 2012

Quando la sconfitta è di tutti

Domenica, 26 febbraio 2012
Alla fine ha vinto lui, sebbene e a ben guardare in questa miserabile vicenda d’ordinaria arroganza del potere non ci siano vincitori, ma solo sconfitti.
Sconfitto il piccolo duce Silvio Berlusconi e sconfitta la magistratura, quella magistratura che ha declinato in extremis al proprio ruolo e alle proprie responsabilità e lo ha incredibilmente dichiarato non perseguibile per prescrizione del reato. Ma allora, si chiederà la gente comune, che senso ha avuto dibattere persino una ricusazione o riunire una camera di consiglio per sentenziare quando la prescrizione del reato era già intervenuta? Credono forse questi magistrati che sfugga a quella gente comune che ancora una volta una parte dei suoi ranghi abbia preferito recitare in questa farsa immonda, piuttosto che assumersi la responsabilità di dichiarare per tempo la propria incapacità di condannare o assolvere un potente?
Dall’altro lato le cose non vanno meglio. Può considerarsi senza macchia un uomo che ha usato ogni mezzo lecito e illecito, come la violenza più spregiudicata ad ogni regola istituzionale e democratica, per impedire alla giustizia di accertare la sua colpevolezza o la sua innocenza? Può arrogarsi il diritto di dichiararsi innocente, o spacciarsi per perseguitato, un individuo che per quasi vent’anni non ha fatto altro che intimidire e minacciare i magistrati per impedire loro di processarlo? Che rispetto meritano i legulei mercenari che hanno utilizzato ogni grottesco meccanismo, come la pretesa di sentire migliaia di testimoni inutili, fortunatamente respinta, per rallentare il corso di un processo nel quale le conclusioni dell’accusa erano state di «una colpevolezza che va oltre ogni logico sospetto»? E’ immaginabile che dietro ad un corrotto, riconosciuto tale con sentenza passata in giudicato, non ci sia un corruttore? E in fine, perché l’avvocato inglese David Mills è stato condannato per i reati imputati a Silvio Berlusconi, quantunque con pena cancellata per effetto della prescrizione, e per il corruttore non sia stato possibile arrivare neanche alla sentenza?
Sono domande alle quali non ci sarà mai una risposta, anche se, ammesso che ci fosse, francamente non sarebbe più rilevante. Ieri, in verità, nel nostro Paese s’è concluso un processo con modalità da far invidia a Cile o Argentina, a realtà nelle quali la corruzione, il disprezzo per la legalità, il vilipendio dei principi democratici, l’arroganza del potere e del denaro sono componenti del DNA di quelle compagini nazionali. Da oggi anche da noi deve essere chiaro che il pensionato che ruba un pezzo di formaggio in un supermercato, per sfamarsi, per sopravvivere, rischia qualche anno di galera, mentre chi condiziona la vita pubblica, chi compie misfatti innominabili, per il proprio arricchimento e dall’alto della propria pozione di potere, gode di una giustizia tutta sua, addomesticata, fatta di corsie preferenziali, che nella migliore delle ipotesi finge di perseguirlo, ma mai si permetterà di affibbiargli la punizione prevista per la cosiddetta gente comune.
D’altra parte, se così non fosse, il cittadino Silvio Berlusconi, anziché parlare di «giustizia a metà» o simulare sdegno per un proscioglimento che lascia intatte tutte le ombre sul suo operato e la sua colpevolezza, rinuncerebbe alla prescrizione e chiederebbe a gran voce di veder riaffermata la propria innocenza sino al grado definitivo di giudizio. Ma chiedere ad un uomo senza dignità di mostrare gli attributi e come pretendere amore da una prostituta.
In definitiva da questa vicenda esce mortificato lo stato, i suoi cittadini, che da oggi sono coscienti che sono governati da una banda criminale che li rende schiavi, miseri servi della gleba, che impone tasse, balzelli, gabelle, ad esclusiva garanzia del mantenimento della loro sfacciata vita da lenoni e senza che i sacrifici imposti possano mai condurre ad un miglioramento delle condizioni della loro esistenza, neanche sul piano dei diritti o dell’eguaglianza difronte alla legge.
In questo stato di cose non resta che fare i complimenti a Silvio, a quei magistrati che con esemplare equità gestiscono la giustizia, alla politica che condiziona la vita e poi si lagna della disaffezione della gente, ai cittadini di un Paese condannato senza speranza a sguazzare nel concime e che non vedono un futuro senza la schiavitù cui sono avvezzi.

(Nella foto, il pm Fabio De Pasquale, che ha sostenuto l'accusa nel processo per corruzione in atti giudiziari contro Silvio Berlusconi)

martedì, febbraio 21, 2012

Il compagno sinistro

Martedì, 21 febbraio 2012
In quel discorso al Lingotto di Torino del 27 giugno 2007 aveva acceso gli animi, infarcendo il suo programma di tanti “si può fare”, mutuati dagli ormai mitici “yes, we can” di Barack Obama. Con lui, benedetto da Piero Fassino e Massimo D’Alema, i DS, divenuti PD qualche mese dopo con la sua elezione alla segreteria del partito, sembrava dovessero ritrovare il rilancio di consensi offuscato dalle traversie che avevano coinvolto la vecchia Quercia e l’ex PCI.
Ma al di là delle tante dichiarazioni programmatiche e di buona volontà, il PD di Veltroni ha continuato ad avere vita travagliata, contrassegnata dallo scontro tra un’ala sinistra, tradizionalista e lealista dei principi operaisti fondativi, e un’ala borghese, rappresentata dagli ex Ulivo di Dario Franceschini e dalla Margherita di Francesco Rutelli, che in termini di esperienza e provenienza politica nulla avevano in comune con la forte radicazione ideologica della Quercia e dei DS.
Questo travaglio ebbe ripercussioni letali anche a livello di quel governo capeggiato da Romano Prodi, finito nel tritacarne degli scontri tra il PRC di Fausto Bertinotti, il PdCI di Oliviero Diliberto, i Verdi di Alfonso Pecoraro Scanio, da una parte, e le frange borghesi di Francesco Rutelli e gli ex DC di sinistra come Clemente Mastella (UDEUR), e dello stesso Veltroni.
Era naturalmente prevedibile che, una coalizione in cui si sarebbe dovuta riconoscere una sorta di pari dignità a tantissimi ex Democristiani insieme con i compagni di Bertinotti, difficilmente avrebbe tenuto; e così infatti accadde, con un conseguente ricorso alle urne, il cui responso punì, forse oltremisura, quell’armata Brancaleone e decretò non solo un clamoroso ridimensionamento del PD, ostinatosi a correre da solo, ma anche la scomparsa dalla scena politica nazionale della sinistra radicale.
Da allora per Walter Veltroni, divenuto per tutti “Ualter” e che nel frattempo ha abbandonato la poltrona di segretario del PD, è stato un crescendo di trasformismi continui, di assunzione di posizioni revisioniste che poco hanno a che vedere con la linea progressista del suo partito, quantunque nei movimenti verso posizioni centriste dell’intera compagine ex comunista difficilmente oggi potrebbe riconoscersi un’ortodossia e la spiccata matrice operaista degli anni ’80-‘90.
Oggi Veltroni, che non può certo definirsi “un compagno che sbaglia”, ma “un compagno che ha dismesso l’elmetto e ha indossato un gessato alla moda”, è uno dei più accaniti sostenitori della necessità di rivedere l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori per il rilancio dell’occupazione, con ciò sposando le tesi suggestive di Pietro Ichino, reclutato a tempo pieno nel PD, nonostante sia ben lungi qualunque nesso tra libertà di licenziamento e incremento occupazionale.
D’altra parte che Veltroni non sia mai stato un comunista è cosa risaputa. Pur avendo militato per anni nel PCI, ed essere anche stato eletto a consigliere comunale di Roma nelle sue liste, in più di un'occasione ha ammesso pubblicamente di non essere mai stato veramente comunista: una delle sue dichiarazioni più famose infatti dice: «Si poteva stare nel Pci senza essere comunisti. Era possibile, è stato così» e in un intervista a Gianni Riotta per il quotidiano La Stampa dichiarò: «Comunismo e libertà sono stati incompatibili. Questa è la grande tragedia dopo Auschwitz».
Secondo il libro di Michele De Lucia, Il Baratto, Walter Veltroni, come responsabile Comunicazioni del PCI e seguendo la linea del partito all'epoca, avrebbe aiutato a ratificare nel 1985 il decreto di Craxi che permetteva a Silvio Berlusconi di aggirare la decisione di tre pretori di procedere al sequestro nelle loro regioni di competenza del sistema che permetteva la trasmissione simultanea nel Paese di tre canali televisivi. Questo in cambio, sempre secondo l’autore del libro, del controllo di Rai 3 da parte del PCI.
La linea politica, voluta e sostenuta da Veltroni, di dialogo con le forze di maggioranza anche su temi come la giustizia, è stata spesso percepita all'interno della sinistra, e del partito stesso, come troppo debole: in particolare il movimento dei girotondini ha criticato la linea politica perseguita da Veltroni, accusata di essere eccessivamente accondiscendente e permissiva con Berlusconi. A tali critiche si sono associate voci autorevoli della sinistra, come Furio Colombo, Paolo Flores d'Arcais, Pancho Pardi e Umberto Eco
Anche Giulietto Chiesa, che dalle colonne de il Manifesto aveva esortato la sinistra massimalista ed antagonista a coalizzarsi contro il Partito Democratico ed aveva poi fondato all'uopo il partito politico denominato Per il Bene Comune, commentò l'esito delle elezioni evocando la fine della democrazia in Italia ed attribuendone la principale responsabilità a Veltroni ed ai banchieri italiani, che ne avrebbero sostenuto la campagna elettorale. Infine, in un'intervista al programma televisivo Che tempo che fa, condotto da Fabio Fazio, nel marzo 2009, a un anno dal voto, Prodi ha attribuito parte della responsabilità della caduta del suo governo anche alla decisione di Veltroni di sganciarsi dalle ali estreme della coalizione dell'Unione. Secondo Prodi quella decisione causò infatti un'accelerazione della crisi in corso.
In buona sostanza, c’è da chiedersi alla luce di questi trascorsi e dei disastrosi risultati determinatosi con la regia del “compagno Ualter” cosa ci faccia un personaggio con questo taglio all’interno del partito più significativo della sinistra e d'opposizione. L’assunzione delle sue posizioni ondivaghe e spesso di reazionario revisionismo ha condotto ad una pesante caduta della credibilità dell’ex PCI di porsi come forza moderna e alternativa alla politica delle destre tradizionali. Provvedimenti auspicati di riforma sociale e del welfare, di progresso democratico e di sviluppo sostenibile sono stati nei fatti costantemente osteggiati più che dalle forze politiche in carica dall’assoluta mancanza di determinazione delle forze vessillo di una democrazia di base e maggiormente diffusa. La stessa legge elettorale, il famigerato Porcellum voluto da Forza Italia e Lega, che rappresenta il vulnus più odioso al principio di democrazia rappresentativa, s’è potuto realizzare grazie all’avallo del PD e delle componenti più reazionarie presenti al suo interno. Analogo comportamento ebbero quelle forze, questa volta sostenute persino dal “dopiopettista” D’Alema, quando fu il momento di mettere mano con una controriforma all’iniquo sistema pensionistico inventato da Maroni con la regia di Tremonti.
Oggi, la lotta in corso per la difesa dell’articolo 18 e per la salvaguardia degli ammortizzatori sociali rischia di subire una sconfitta proprio per l’avallo delle stesse componenti al disegno reazionario del governo tecnico in carica.
Alla luce di queste vicende, che certo non fanno onore né al decantato senso di responsabilità del PD né alla sua coerenza con i principi di partito operaio, il rischio di un imborghesimento definitivo della sinistra italiana è assai forte, con la conseguenza che, mentre all’indomani del fallimento del governo Prodi si assistette ad una migrazione di voti di protesta dalla sinistra verso la Lega, oggi incombe massiccio l’astensionismo o la frammentazione dei consensi verso la miriade di liste civiche in fase di formazione, il cui peso specifico è pressoché nullo.
E allora è urgente che il PD e la sinistra tutta, in attesa della nuova tornata elettorale prevista per la primavera del 2013, inizi sin da ora ad attrezzarsi per fare chiarezza al suo interno e ristabilire le fila di un’unitarietà perduta, cominciando, per esempio, a far pulizia di quanti con spudorataggine si dichiarano militanti di sinistra, ma in realtà sono solo sinistri militanti.

giovedì, febbraio 16, 2012

Il predicatore bolso

Giovedì, 16 febbraio 2012
Non ci è mai piaciuto Aldo Grasso de il Corriere della Sera, quel saccentello che si arroga il diritto di rilasciare giudizi e critiche, spesso con la pretesa dell’assolutezza, su tutto ciò che fa spettacolo. Ma questa volta bisogna riconoscere che la sua definizione di “predicatore stanco” alla volta di Adriano Celentano, quell’Adriano nazional-popolare capace di tenere incollati al piccolo schermo 16 milioni d’Italiani - un record senza precedenti - con le sue filippiche a metà strada tra il semiserio e il profetico, francamente ci sembra più che azzeccata.
Non che dall’Adriano ci si dovesse attendere chissà quale rivelazione, abituati come siamo a sentirlo a cadenze regolari, - fortunatamente diluite nel tempo, - sparare a zero sui cattivi della nostra epoca e sui guasti autolesionisti che l’umanità si produce. Ma stavolta, approfittando di un appuntamento come quello del mitico Sanremo, - sul quale sarà necessario soffermarsi un attimo, - che ci venga a dare lezioni di fede in un momento in cui il Paese deve fare i conti con il prosaico e laico problema di come sbarcare il lunario, ci è sembrato decisamente sopra le righe o, se si preferisce in linea con il titolo, al di sotto di ogni sperabile previsione.
Che la Chiesa con qualche rara eccezione pensi da sempre a gestire i propri fattacci e a far politica è cosa risaputa e non è certo il sermone del Molleggiato che ci ha aperto improvvisamente gli occhi. Cambiano i tempi e cambiano anche i papati, e se ieri Sua Santità si faceva distrarre dalla materialità del regno Pontificio e dal profumo e dalla leggiadria di qualche giovane di corte, con cui non esitava fornicare nelle sante stanze vaticane, oggi l’attenzione alla politica, dietro la quale si celano interessi di vil denaro, non ha mutato i termini del problema. Oggi, come secoli fa, la Chiesa è ancora una potente macchina organizzativa dietro la quale si celano interessi innominabili, un’azienda che da lavoro a migliaia di persone, uomini e donne, in divisa da prete, monaco, suora e laici addetti a servizi disparati. Non crediamo che il buon Dio, suo figlio Gesù e Pietro, fondatore della grande Chiesa, avessero immaginato un papa Borgia, provetto traffichino e tombeur de femme, o un Pio XII, passato alla storia anche per un Concordato con il Terzo Reich di Adolf Hitler. Che poi la Chiesa e i suoi giornali oggi parlino molto più di politica che del verbo di Dio e di ciò che il suo volere rappresenti per la salvezza dell’umanità, è probabilmente un ulteriore passo avanti nel processo di “laicizzazione” della cultura anche vaticana. Dunque, non basta questa scoperta d’acqua calda per chiedere a gran voce che chiudano giornali come l’Avvenire o Famiglia Cristiana, il cui stile rispecchia anzi in modo più evidente quanto i problemi della gente cattolica siano più ancorati alla realtà quotidiana che al post mortem ed a quello che verrà.
Parlare di queste cose vuol dire far politica? Sicuramente. Ma dimentica il guru Adriano che non esiste una dimensione apolitica dell’esistenza, ove questa con comportamenti, espressione del pensiero e rappresentazioni di se stessi non finisca per costituire un modello di confronto che regola i rapporti tra gli esseri umani. Se così non fosse avrebbero ragione gli integralismi più beceri che autorizzano ogni scelleratezza in nome di una fede assolutistica e sanguinaria.
Sbaglia dunque Celentano nell’infilarsi in un dibattito vuoto e che puzza solo di provocazione allo scopo di far cassetta: si parli male di me, ma l’importante è che se ne parli. E sbaglia pure Grasso quando con logica infantile rimprovera al Predicatore bolso di aver dimenticato di citare i Giudei nella sua visione di un paradiso fatto di fratellanza e concordia: in quel paradiso mancano buddisti, sciiti, copti e persino animisti, cioè tutti coloro che in assoluta buona fede credono in un loro Dio ed hanno una loro onesta visione della vita dello spirito e di ciò che sarà dopo la morte.
Sbaglia infine la Chiesa quando s’indigna di fronte alle scemenze di un indomito showman che non si rassegna all’idea che non si parli più di lui e chiede vendicative sanzioni. In primo luogo perché ha preteso d’insegnare ai suoi fedeli che all’offesa si risponde con la pazienza e con le opere che tangibilmente ne dimostrino l’infondatezza e, secondariamente, perché la vendetta non esiste nel suo codice, fatto di bontà infinita, di comprensione per le pecore smarrite e di perdono. E se volesse dare il buon esempio per smentire quanto e come una certa corruzione alligni anche tra le sue mura, a dispetto delle illazioni dell'ex Ragazzo del Clan, di cose da fare ne avrebbe parecchie: vogliamo cominciare dal gravissimo problema della pedofilia in cui è implicato persino qualche vescovo o certe questioni rimaste oscure come un certo Marcinkus o i riciclaggi di denaro sospetto che coinvolgono la Banca Vaticana?
Francamente lo sdegno di piazza S. Pietro somiglia troppo agli "aita" della vergine cuccia di un certo Parini, guarda caso, prete anche lui.
Ma la questione su cui occorre meditare è piuttosto cosa c’entri l’esibizione di Adriano Celentano, spalleggiato nella sua performance kitsch persino da Gianni Morandi e da un demenziale Pupo. Cosa ci azzecca in una kermesse canora, peraltro orami insopportabile, una insulsa sceneggiata di un’ora di un signore stanco e sul viale del tramonto, incuneata a forza in uno spettacolo che con la canzone ha ben poco a che vedere?
La risposta è semplice e sta nella stessa natura di un appuntamento annuale della RAI che suona come una sorta di Telethon per le avide casse dell’emittente pubblica. Il festival della canzone italiana è da tempo uno zombie senza senso, nel quale nella maggior parte dei casi si aggirano artisti disperati in cerca di rilancio o in cerca d’affermazione presso il grande pubblico, - n’è testimonianza l’annosa polemica ricorrente su favoritismi, eliminazioni, voti truccati e quanto di più meschino rappresenti l’essenza delle competizioni con contenuti trash. Basandosi sul gusto medio dell’ascoltatore tipo la riproposizione del festival, con la partecipazione di nomi di grande richiamo senza i quali gli ascolti sarebbero al lumicino, serve ad acquisire contratti pubblicitari di rilevante importanza, che portano nella casse RAI ingenti risorse per l’autofinanziamento. Poco importa, dunque, che di fondo il festival, che un tempo rappresentava lo specchio d’una cultura nazionale da ostentare con orgoglio, oggi sia morto e sepolto. La sua resurrezione periodica serve solo a far soldi e, quindi, impone che si infarcisca di interventi di grandi nomi in grado di catturare l’immaginario popolare, qualunque sia poi il prezzo pagato allo stile e alla cultura. D’altra parte, se il festival dovesse essere giudicato non per le emozioni complessive che stimola nella percezione collettiva, ma lo si volesse scomporre nei vari blocchi che lo compongono il giudizio non potrebbe che condurre a conclusioni aberranti: un’accozzaglia di stupidaggini infarcite da espressioni da angiporto a cura di tali Paolo e Luca, un’orchestrata sequela di stronzate proferita da un emblema dell’ignoranza, ex-cantante e profeta fallito dal nome Adriano Celentano, quattro cosce e altrettanti seni esibiti da compiacenti cover girl disposte persino ad un eventuale endoscopia in diretta pur di scalare il successo, un trombone dai capelli tinti e la faccia di plastica nei panni impropri dell’anchorman, una sequenza di sfigati a gracchiare motivetti che durano l’espace d’un matin, tutti incollati insieme a testimoniare la nouvelle vogue di una Italia sempre più decadente.

martedì, febbraio 14, 2012

Grecia, colonia miserabile d’Europa

Martedì, 14 febbraio 2012
La Grecia è salva. Forse non ancora.
Questo il dilemma che ancora grava su dodici milioni di anime, ormai ridotte allo stremo da ben cinque provvedimenti di risanamento dell’economia varati in poco più di un anno dai governi succedutisi al potere, che non hanno ancora trovato la quadratura per scongiurare l’ipotesi di default dell’intera penisola Ellenica.
E la Grecia non è che la prima vittima sacrificale sull’altare degli egoismi franco-tedeschi, che schiacciano l’Europa e allontanano sempre più l’ipotesi di un’unione anche politica del continente. Già, perché dopo la durissima lezione imposta alla Grecia da chi s’è autoproclamato egemone del destino dell’Europa e dell’euro, la fiducia dei cittadini comunitari nell’istituzione continentale è sempre più flebile. Chi sarà la prossima vittima, il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna o l’Italia?
E’ vero, la Grecia viene fuori da un lunghissimo periodo di scialacquamento economico, di una gestione politica fatta di biechi clientelismi e di sperpero di denaro pubblico. Basti pensare che su una popolazione di 12 milioni di abitanti un terzo dei cittadini trova impiego nella pubblica amministrazione, generando un costo per il pubblico bilancio spaventoso e senza giustificazione alcuna. In più, il paese è quasi totalmente privo di una propria capacità industriale, con un’agricoltura sottosviluppata, con un economia alla mercé delle importazioni massicce a prezzi insostenibili per i modesti redditi dei suoi abitanti. C’è infine un sistema fiscale terzomondista, figlio della dittatura dei colonnelli, che ha dissanguato poveri, classe operaia e ceto medio, lasciando del tutto indenne il ristretto club dei grandi capitalisti armatori, ai quali è stata data la possibilità di costituire ingenti depositi all’estero e di sottrarre quote rilevanti di ricchezza alla nazione.
La sua posizione geografica, inoltre, la rende un fianco debole della sicurezza europea, costringendola ad enormi spese militari per armamenti di difesa, che hanno raggiunto la folle quota del 7% del PIL: neanche gli Stati Uniti, gendarmi del mondo, hanno un rapporto simile nel loro bilancio statale. Se si pensa che quel fiume di denaro finisce poi per ingrassare gli armieri tedeschi e francesi, ben si comprende come l’operazione risanamento dei conti, imposta e orchestrata con condizioni capestro proprio da Sarkozy e da Merkel, si rappresenta come una prova di squallida protervia e d’arroganza senza precedenti: da un lato l’imposizione di un taglio draconiano al bilancio, con riduzioni al numero dei dipendenti pubblici, falcidia dei salari e delle pensioni, blocco di ogni spesa pubblica con l’obiettivo di contenere il deficit al 120% del PIL entro il 2020 – quote di riduzione del 20% all’anno, - dall’altro lato l’imposizione di onorare i contratti per le forniture militari nella misura degli impegni assunti, se non addirittura di incrementare gli acquisti.
Il risultato è che la Grecia ha già messo in saldo non solo alcuni dei gioielli costituenti il patrimonio dello stato, come il porto del Pireo venduto ai Cinesi, ma dovrà inventarsi chissà cosa per poter onorare l’impegno di ridurre il debito nei termini concordati e ottenere quegli aiuti pagati a prezzo di sangue – 330 miliardi di euro complessivamente – per mantenere in vita la baracca. E come se non bastasse alle prossime elezioni, previste per l’aprile di quest’anno, la Germania ha imposto che i candidati al parlamento greco sottoscrivano, per poter essere eletti, un documento con il quale s’impegnano a sostenere il varo della legislazione necessaria al rispetto degli impegni assunti con i creditori.
Parlare d’Europa in queste condizioni e di solidarietà sinceramente fa sorridere, nella migliore delle ipotesi, non fosse per il senso di vomito che genera un atteggiamento che con le sue frustranti ingerenze suona smaccatamente di bieco colonialismo.
C’è da chiedersi perché la Grecia abbia accettato di sottostare a queste condizioni capestro, rinunciando nei fatti alla propria sovranità e mortificandosi senza appello nella dignità di popolo libero. Peraltro senza alcuna speranza di potersi risollevare con le condizioni che le sono state imposte. Come ha acutamente rilevato qualche economista svincolato dai rigidi schemi dell’opportunismo degli interessi dei paesi europei in questo momento forti, sarebbe stato meglio per la Grecia dichiarare il default e trascinare nel fango e nella disperazione anche coloro che oggi si fingono falsi salvatori della sua economia e le impongono sacrifici insostenibili: un paese con le condizioni che gli sono state dettate sta solo prolungando la sua agonia, dando la possibilità alle iene mascherate da soccorritori di sterilizzare gli effetti del fallimento certo che verrà. Un default e un ritorno alla dracma avrebbe permesso alla Grecia di saldare il conto definitivamente e di tentare di risalire con fatica la china senza le pastoie e le ipoteche messe in atto. Il fallimento non avrebbe che liberato i Greci dalle loro catene, dalla palla al piede con la quale hanno limitato la propria libertà di manovra, senza per questo subire un effetto peggiore della macelleria sociale ormai in atto.
E se queste sono le premesse per la realizzazione di un’Europa unita anche politicamente, in cui il comando è relegato nelle mani del più forte, allora non c’è speranza, non v’è spazio per sognare maggiore libertà e maggiore benessere da un’integrazione, di fatto, solo sulla carta.

martedì, febbraio 07, 2012

Gli schiavisti del terzo millennio

Martedì, 7 febbraio 2012
Era stato Padoa Schioppa, ministro dell’economia del governo Prodi, a parlare per primo di «bamboccioni» rivolgendosi ai giovani, che già a quel tempo reclamavano una maggiore attenzione da parte delle istituzioni alle loro condizioni di sottoccupati e sfruttati da un sistema economico che con la precarietà del lavoro intendeva garantirsi manodopera a basso costo e libertà di licenziamento. Ciò che con un eufemismo si definiva flessibilità e dava alle imprese l’illusione di poter mantenere una competitività in mercati globali grazie al basso costo della forza lavoro impiegata.
Il noto ex banchiere se ne uscì con quella battuta forse più spinto dal decadimento cerebrale dovuto all’età che da una precisa volontà di offendere una generazione già al tempo in forte sofferenza per una palese mancanza di futuro, una generazione che implorava l’attenzione del governo Prodi ad una questione lavoro che rischiava, com’è puntualmente avvenuto, d’incancrenirsi e di trascinare milioni di persone nel vicolo cieco della disperazione.
La storia ci conferma che quelle preoccupazioni sono divenute realtà e che, proprio grazie all’insipiente ignavia di Prodi e soci, Berlusconi ha avuto la chance di ritornare al potere, illudendo le masse con posti di lavoro per tutti e riforme del mercato del lavoro tese a stemperare gli effetti della famigerata legislazione Biagi.
Com’è altrettanto noto, il governo Berlusconi nulla ha fatto in materia, ma ha pensato bene di circondarsi di ministri, come Sacconi o Brunetta, che non solo hanno sprezzatamente guardato alla questione come marginale, ma non hanno perso occasione per insultare e ricoprire di contumelie i rappresentanti dei movimenti di lotta contro il fenomeno del precariato. Ai «bamboccioni» si sono aggiunti così «scansafatiche» e «perdigiorno», con l’intento di negare e svilire una questione sociale divenuta oramai centrale anche alla luce della congiuntura disastrosa del sistema paese.
Dall’attuale governo Monti e dalle sue dichiarazioni d’esordio, ci si sarebbe attesi un’attenzione privilegiata al fenomeno occupazionale giovanile. Ma, dopo tante dichiarazioni d’intento e buoni propositi, sembra che la musica non sia cambiata granché, visto che, sull’onda dei precedenti capiscuola, anche i ministri Fornero e Cancellieri, rispettivamente al Lavoro e Politiche sociali e agli Interni, delegati alla trattativa con le parti sociali per una riforma del mercato del lavoro, abbiano preferito la scorciatoia dell’ironica minimizzazione del problema, anziché affrontarlo con la doverosa serietà e attenzione, associando le loro infelici dichiarazioni su «mammoni alla ricerca illusoria del posto fisso» alle stupide affermazioni del loro presidente del consiglio sulla «monotonia del posto fisso».
Al di là della palese bassezza morale di queste esternazioni, peraltro precedute dalla sublime idiozia del sottosegretario Michel Martone, secondo il quale chi non consegue una laurea entro il ventottesimo anno è uno «sfigato», - dimenticando le poco edificanti vicende personali di raccomandato di ferro che gli hanno consentito di conseguire importantissimi traguardi, raccomandazioni senza le quali sarebbe oggi in qualche ortomercato a scaricare cassette d’arance, - quel che stupisce è l’accanimento con il quale si continua a stigmatizzare la condizione di milioni di giovani disoccupati, addossando loro colpe che non hanno ed assumendo queste a pretesto dell’incapacità di risolvere ciò che, con il passare del tempo, sta assumendo sempre più la fisionomia di una mina sociale pronta a deflagrare senza preavviso.
Così sul web alle ultime edificanti parole dei ministri in questione s’è scatenata un’ironia amara e velenosa, che rappresenta un allarme da non sottovalutare. «Questo governo ci insulta ogni settimana e dimostra di non conoscere la realtà del Paese», ha scritto qualcuno, seguito dalle sconfortate considerazioni di qualcun altro che non esita a denunciare: «Noi trentenni vogliamo stare vicino a mamma e papà, signora Cancellieri, perché lo Stato non è vicino a noi. Il Welfare State per i giovani non esiste. E un Paese che non difende i suoi figli resta un Paese morto».
Ma il più duro è Alessandro Robecchi, giornalista e scrittore, che mette insieme alcune «coincidenze»: nota che la Fornero, di Torino, ha un posto fisso, a Torino. Come il marito, Mario Deaglio, docente all'università, a Torino. «E come la figliola, associato di Medicina. Dove? All'Università di Torino: bravi, avete indovinato». Poi aggiunge che «la figliola» di posti fissi «ne ha addirittura due». Nella foto (che mostra le lacrime in tv), conclude Robecchi, «mamma Fornero piange pensando ai numerosi sacrifici che l'università di Torino ha dovuto affrontare per la sua famiglia».
Ma quel che sconcerta di queste improvvide sortite è la miseria intellettuale dei suoi autori, incapaci di coniugare cosa significhi per un giovane accettare, ove peraltro esista, un lavoro precario e mal pagato lontano dalla casa natia. Pensa forse Fornero o Cancellieri che con una retribuzione di 700/800 euro sia possibile pagarsi un affitto, mangiare e pagare la bolletta del telefono, della luce e del riscaldamento? Non pensano piuttosto questi illuminatissimi ministri che il supporto della famiglia d’origine è molto spesso la condizione per sopravvivere in un sistema canagliesco che specula in modo riprovevole sul desiderio legittimo di chi, pur di cominciare a rendersi indipendente, è disposto ad accettare anche condizioni umilianti di lavoro? E che fine hanno fatto le tanto decantate asserzioni di Monti e valenti cattedratici a proposito del vistoso gap tra le retribuzioni in Italia e il resto d’Europa? Chi rifiuterebbe mai un serio posto di lavoro pagato adeguatamente a mille chilometri dalla città natale? Chi scrive fece una scelta di questo genere negli anni settanta e lasciò amici ed affetti ad oltre 1600 chilometri dal luogo in cui trovò lavoro, senza per questo sentirsi un eroe o un appartenente ad una specie rara. La stessa scelta fecero in tanti, sulle orme dei loro genitori e dei loro nonni. Ma le condizioni d'allora erano ben diverse: non erano stati inventati gli infami call center, i contratti a progetto, in lavoro in affitto con retribuzione da fame e gli stage formativi, sebbene anche quelle scelte implicassero sacrifici e rinunce.
Abbia la dignità d’ammettere allora il professor Monti e il suo staff che, nel segno della continuità più coerente, il suo governo ha l’obiettivo di completare l’opera di macelleria sociale iniziato da Berlusconi e Sacconi, da realizzarsi con la cancellazione di quell’articolo 18 dello Statuto, citato oggi a panacea di ogni distorsione del mercato del lavoro e d’ostacolo alla ripresa della crescita.
Dei giovani, del loro affrancamento dalla schiavitù dell’era moderna, rappresentata dalla precarietà delle condizioni di lavoro e di vita, al professore non importa nulla. A lui importa solo offrire su un piatto d’argento agli interessi di un capitalismo onnivoro e spietato le condizioni per sentirsi libero di disporre di carne da macello a proprio piacimento e di poter mettere in poratica di uno dei più potenti strumenti di ricatto al proprio strapotere da sempre esistente: o accetti le condizioni che t’impongo o ti condanno all’emarginazione sociale, con l’espulsione da quel sistema dal quale trai i sussidi per la tua sopravvivenza.
Complimenti, professore, nessuno in un sedicente sistema democratico era riuscito a far di meglio.

(nella foto, il "grande" Michel Martone, sottosegretario al Lavoro, le cui credenziali non lasciano dubbi su quali metodi ricorrere per combattere la sfiga)

giovedì, febbraio 02, 2012

Le scemenze di zio Mario

Giovedì, 2 febbraio 2012
Che l’Italia fosse il paese degli emulatori, di coloro che s’innamorano di comportamenti border line o del trash culturale d’oltre oceano, era cosa risaputa. Chi non ricorda le macchiette di Alberto Sordi nelle vesti dell’americanaccio con tanto di chopper e bomber a scorrazzare per le vie di Roma? E poi al giorno d’oggi abbiamo Marchionne, l’italo-canadese con il cipiglio yankee, che vede la fabbrica nostrana come la fotocopia di Detroit o di Chicago e vorrebbe imporre con l’approccio del proprietario di piantagioni di cotone dell'Alabama chi e come si lavora nel suo latifondo. E si è ancora fortunati se non pretende che i "suoi" operai cantino gospel mentre avvitano bulloni o spingono un carrellino con utensili vari.
L’emulazione è una malattia altamente contagiosa, una patologia virale alla quale pochi sfuggono, specialmente quando, per effetto del successo con il quale hanno scalato le gerarchie sociali, perdono progressivamente l’aderenza con la realtà effettiva e cominciano a vedere il mondo con una sorta di grandangolare spinto, che ampia la visuale ma distorce vistosamente le dimensioni delle cose. Questa patologia in qualche caso genera gli effetti di una sbornia, che esalta l’umore e induce a proferire frasi sconnesse e affermazioni senza senso, lungi dall’avere contezza delle assurdità che si sciorinano.
E che la patologia non risparmi nessuno e colpisca a caso ce lo conferma anche la recente intervista a Matrix del professore Monti, capo del governo tecnico che guida il Belpaese, alle prese con il tentativo di traghettare l’Italia fuori dalle tenebre della crisi più dura dal dopoguerra ad oggi.
Sì, quel professor Monti a cui gli ossimori e il tempismo debbono sembrare esibizione di scienza e non, piuttosto, una manifestazione di confusione e di pochezza becera distante anni luce dall’aplomb di un ex rettore di università – per inciso, tra le più prestigiose in Europa – con un trascorso da commissario alla Comunità europea. Peccato che l’illustre professore al pari di quanti l’hanno preceduto sembri non rendersi conto che l’Italia non è l’America, quantunque abbia un suo far-west istituzionale, e che parecchie ricette di quella realtà non sia affatto potabili dalle nostre parti anche in presenza di una globalizzazione dei mercati. E che alcune ricette non siano applicabile nulla ha a che vedere con le funzioni digestive dei commensali, ma impatta con usi, costumi, cultura e valori millenari che è velleitario pretendere di sradicare senza un’adeguata e lunga liturgia educativa delle componenti sociali cui s’intende somministrare il new deal: imporre il consumo di carne di porco agli Arabi, ancorché motivando la cosa con esigenze di natura alimentare, è impresa assai ardua. Così parlare di mobilità sfrenata in un paese che ha nella continuità e nella fidelizzazione del posto di lavoro la sua essenza è, per certi versi, come bestemmiare in chiesa. Ma forse al rigido professore con il gusto per l'humor d'oltre Manica queste considerazioni sfuggono. E allora, facendosi usbergo di sottile ironia, si cimenta nel tentativo impraticabile di raddrizzare le gambe ai cani, asserendo in un paese che ha sempre puntato al posto fisso che ci si deve abituare alla mobilità del lavoro, sottovalutando che con i contratti da co.co.pro., a progetto, interinali, staff leasing, job sharing, stage gratuiti e altre ridicole diavolerie c'è gente che entra ed esce dalle aziende come si trattasse della ritirata d'un bar.
Ma si sa, la politica - alla quale il professore si ritiene orgogliosamente estraneo - non ha mai brillato per coerenza e onestà intellettuale e il professore, che si tiene nello staff un poveraccio come tal Michel Martone, non fa eccezione: da un lato blandisce i giovani con la promessa di posti di lavoro, dall'altro toglie loro ogni speranza innalzando l'età pensionabile; da un lato dichiara di voler combattere il precariato, dall'altro fa accattonaggio intellettuale sposando le tesi per l'abolizione dell'art. 18 del suo collega Ichino, che nell'elaborare la sua grottesca teoria oltre alla logica s'è bevuto anche il cervello. Insomma, un premier nel segno della continuità con le fesserie sui precari proferite dal mitico Brunetta e le stupidaggini dell'Unto del Signore di Arcore, che suggeriva di fidanzarsi con suo figlio per aver fortuna nella vita.
Secondo il professore, dunque, ci si deve abituare al cambiamento di posto di lavoro e poi «che monotonia quel posto fisso»!, una frase che, ancorché inopportuna, a dir poco, in un paese che registra quasi il 9% di disoccupazione totale, – dato falsato al ribasso, visto che non tiene conto di una quota stimata del 4-5% rappresentata dagli scoraggiati che hanno rinunciato a cercare un lavoro che non c'è, - che sale al 32% se riferita ai giovani entro i 30 anni in cerca d’occupazione e che interessa il 54% dei ragazzi del Sud, che suona in netta contraddizione sia con i dichiarati intenti del governo di riformare il mercato del lavoro per generare nuove opportunità, sia con i drammatici dati ISTAT sull’inoccupazione, diffusi qualche ora prima di quell’intervista.
Ma ciò che preoccupa di quella che non può ritenersi solo una semplice boutade del presidente del consiglio è la morale che deriva dal suo tweet: lavoratori-cittadini considerati alla stregua di greggi avvezze ad una transumanza senza sosta e pazienti come pecore disposte a subire ogni decisione del pecoraio, dalla tosatura alla spremitura senza mai accennare ad un moto di ribellione.
Non è certo necessario dare un’occhiata al web per sapere cosa pensano gli Italiani di tale corbelleria, che rappresenta un vero vilipendio alla loro dignità di aspiranti cittadini a pieno titolo. Italiani tutelati da quella carta straccia costituzionale che recita tronfia il diritto al lavoro di tutti, ma che nei fatti viene negato in omaggio alla tutela degli interessi famelici di gruppi finanziari, congreghe industriali, interessi di banche e assicurazioni e loro manager inclusi, che non esitano a calpestare ogni dovere a contribuire in modo fattivo e tangibile alla creazione di posti di lavoro pur di massimizzare i loro profitti.
La crisi che ha investito il paese e l’intera economia mondiale deriva dalle folli speculazioni messe in atto da una finanza senza scrupoli, rappresentata da banche e istituzioni finanziarie, quei santuari criminali primi ad esser stati aiutati con denaro pubblico e nei fatti esentati dal riparto delle misure varate per fronteggiare quella crisi. Scaricare sulla gente comune l’onere di quelle conseguenze, chiedendo di tirare la cinghia, adattarsi alla transumanza, subire il precariato lavorativo e sociale, renderla più povera e indifesa di fronte alle violenze di un capitalismo di rapina, suona francamente osceno. Così come oscena appare la protesta di coloro che sentono l’offesa da quest’andazzo e non assumono iniziative più incisive per far capire che non è più tollerabile continuare a vivere sotto il tallone di una classe politica manifestamente ladra e sprezzante delle tragedie sociali che si consumano sotto i suoi occhi. Non è più possibile assistere agli show di un drappello d’infami che rubano i soldi pubblici del discutibile finanziamento pubblico dei partiti per arricchirsi, che profittano della propria posizione di potere per lucrare su compravendite immobiliari, per esimersi da processi in cui sono imputati di gravissimi reati, che fingono di ridursi le laute prebende da lenoni, che per primi evadono l’obbligo di regole fiscali e civilistiche ricorrendo all’impiego di portaborse precari e sottopagati, e così via dicendo.
E davanti a questo scempio etico, che allontana i cittadini dalla politica, che nessuno si permetta con un termine in voga di parlare di “antipolitica”, teorizzando che questa conduce all’autoritarismo ed alla morte della democrazia. In una situazione come quella che viviamo la democrazia è passata a miglior vita ormai da tempo ed il richiamo a mantener la calma e a continuare la lotta civile per il confronto è solo un mistificatorio espediente per reggere in vita le divisioni sociali che si sono determinate nel tempo e il consolidamento del potere di un’oligarchia tiranna.
E allora, se lo “zio Mario” vuol smentire quanto comincia a radicarsi nella percezione di chi aveva salutato il suo esordio come un auspicato cambiamento di registro, smetta di parlare di salutare mobilità, che peraltro nessuno osteggerebbe in presenza di vacche pasciute, ma si dedichi con maggior vigore e credibilità di quanto non abbia fino ad ora fatto a smantellare le posizioni di privilegio di certe corporazioni, vere ostacolo al rilancio dell'economia, e al risanamento di un mercato del lavoro oramai in ginocchio e infettato da un precariato putrido, e di meccanismi di esercizio della politica da sud-est asiatico. Il paese, quello che si sporca le mani e che dice di voler salvare, se si dedicherà a fare ciò che ha promesso, senza infingimenti ed equivoci, gliene sarà riconoscente e gli riconoscerà senza riserve aver adempiuto al suo mandato con la serietà e l'onestà che da lui ci si attendeva.