mercoledì, gennaio 23, 2013

L’asso nella manica di Squinzi



Mercoledì, 23 gennaio 2013
Ce l’hanno nel DNA, è cosa risaputa. Mentre il Paese langue e s’appresta ad affrontare una tornata elettorale tra le più tormentate della storia repubblicana, la Confindustria di Squinzi si fa portavoce di un piano straordinario di rilancio dell’economia, una sorta di terapia d’urto, come l’ha definita la Repubblica in un intervista rilasciata dal Presidente degli industriali, per far crescere il PIL di quasi il 12% in cinque anni ed aumentare l’occupazione di 1,7 milioni d’unità. Un piano certamente ambizioso, ma che puzza da lontano di revival di sfruttamento e precariato.
Il messaggio è chiaramente indirizzato alle forze politiche in campo candidate alla guida del Paese, nella convinzione che un’offerta del genere non possa non risultare appetibile.
Il progetto è già stato approvato dal Comitato di presidenza degli industriali ed oggi la Giunta esecutiva dovrebbe approvare definitivamente la proposta da sottoporre poi al vaglio del futuro governo.
Ma cosa chiede viale dell’Astronomia per rilanciare la comatosa economia nazionale? In sintesi, un ridisegno degli strumenti di politica economica, sotto forma di riduzione della tassazione e minori oneri sul lavoro, insieme con una maggiore flessibilità di strumenti in ingresso nel mercato del lavoro, attraverso una revisione della recente legge Fornero, ed un incremento delle ore annue lavorate, possibilmente con una compensazione fortemente aumentata. Gli oneri derivanti da questi provvedimenti, facilmente traducibili in minori introiti fiscali per le casse dello stato, dovrebbero trovare compensazione, - a detta degli industriali, - in un incremento delle aliquote IVA e nell’imposizione sulle rendite finanziarie, verso cui sembrerebbero indirizzarsi le scelte della maggioranza dei partiti in questa campagna elettorale.
Esprimere giudizi sulla scorta di queste scarne anticipazioni su un piano che appare assai ambizioso non è cosa fattibile in questo momento, quantunque la sola richiesta di riedizione di strumenti di maggiore flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro, lascia presagire l’innalzamento di un muro pregiudiziale che difficilmente potrà trovare estimatori nell’ambito della sinistra.
Ma limitandoci solo a questo aspetto del piano ed assumendo che la nuova legislazione abbia di fatto irrigidito la flessibilità del mercato del lavoro, verrebbe immediatamente da contestare agli industriali dove fossero e cosa facessero quando sino ad una decina di mesi or sono la flessibilità che reclamano c’era e le condizioni di sfascio generalizzato erano persino più acute di quanto non lo siano attualmente. E’ innegabile che la sventurata legge Biagi del 2003 abbia consentito ai datori di lavoro di attingere a man bassa in un mercato contraddistinto da un’offerta straripante rispetto alla domanda, con la messa in opera di miriadi di contratti astrusi, la maggior parte dei quali a termine, che hanno creato un esercito di precari malpagati e confinati ai margini della società. L’operazione è stata peraltro condotta con spudorato cinismo, avendo molto spesso visto la sostituzione di personale altamente specializzato con giovani inesperti, assunti con contratti a termine al solo scopo di risparmiare la differenza di retribuzione e garantirsi mano libera di licenziare al termine del contratto.
Dunque, già in passato i “benefattori” di viale dell’Astronomia hanno dato prova di cinismo e di mancanza di scrupoli nel profittare di una situazione di grave bisogno presente nel mercato del lavoro. Oggi le statistiche, - quelle ufficiali che certamente non tengono conto della cosiddetta disoccupazione cronica da abbandono, dovuta ai tanti che hanno rinunciato a cercare lavoro perché disperati, - dicono che la disoccupazione dei giovani tra i 24 ed i 29 anni è pari al 29,1%, mentre quella delle persone in età lavorativa tra i 15 ed i 64 anni ha raggiunto l’incredibile ammontare del 37,8%. E queste statistiche, di fondo, nascondono un fenomeno impressionante costituito dalla disoccupazione al Sud, dove le stime danno al 56% la disoccupazione giovanile e vicina al 50% quella complessiva della popolazione in età lavorativa.
Di fronte a questi numeri da paese africano c’è da chiedersi che senso abbia una rinnovata richiesta di flessibilità che innescherebbe una nuova giostra di sottopagati, precari e sfruttati. Al contempo, viene spontaneo domandarsi quale sia stato il senso di una riforma del sistema pensionistico che, con l’innalzamento dell’età, ha completamente annullato il ricambio generazionale ed ha creato un ulteriore esercito di disperati senza reddito grazie alle politiche d’esodo messe in atto dalle imprese.
A nostro modesto avviso e come abbiamo già avuto modo di commentare in passato, la politica dei governi Berlusconi in materia di previdenza e lavoro è stata semplicemente inesistente. Mentre è stata del tutto folle quella portata avanti dal governo Monti, che oggi si permette di dare del pazzo a chi l’ha preceduto. Il governo dei tecnici, vuoi per accondiscendenza accomodante nei confronti della destra, vuoi per non inimicarsi la sinistra di Bersani, ha realizzato riforme senza senso o blande, oppure s’è accollata la responsabilità di rendere operativi progetti di legge scriteriati e vessatori, programmati dal governo Berlusconi con ricaduta sugli anni successivi alla conclusione del suo governo, come IMU e redditometro per le famiglie. Così facendo il Professore è caduto nella trappola del malcontento sociale diffuso, ispirato probabilmente dall’ansia cieca di realizzare nel brevissimo termine condizioni di riequilibrio dei conti pubblici. Ciò avrà anche consentito al Paese di riconquistare una credibilità internazionale oramai caduta sotto lo zero con la presenza di Berlusconi e la sua corte dei miracoli, ma ha marchiato Monti con lo stampo indelebile dello strozzino, che lo rende inviso ad una rilevante parte dei cittadini.
D’altra parte, non basta ora inveire con english humor o con sapiente eleganza nei confronti del PdL o della sinistra, definendo queste componenti come potenzialmente inadeguate alla guida dell’Italia in caso di successo elettorale, né promettere che alcune delle recenti imposizioni varate possano essere soggette a rimodulazioni migliorative. La sua ottusa politica di rigore lo ha scioccamente indotto a non valutare che alcuni miglioramenti, se possibili, avrebbero potuto realizzarsi prima della trasformazione in legge dei progetti cantierati dal governo Berlusconi. Pertanto, prenderne oggi le distanze o fingere di prendere atto del gravissimo disagio sociale provocato non redime la sua immagine di massacratore dell’economia, ma suona quasi un’ignobile beffa.
 Ovviamente l’esito delle elezioni è tutto in divenire, ma nello scenario corrente, dove si prevede una vittoria delle sinistre, appare ardita l’ipotesi che il piano confindustriale basato sui presupposti prima detti possa trovare positiva accoglienza.
Non va dimenticato che il governo di Romano Prodi cadde sullo scontro tutto interno tra le vere anime riformiste e le resistenze delle componenti conservatrici presenti dei DS, oggi PD. Ed uno scontro tra Bersani e Vendola, pronosticato e augurato da più parti, non sarebbe che la condizione per un nuovo periodo di relegazione nel cuneo d’ombra delle attese di coloro che vedono in questa sinistra un opportunità per riparlare finalmente d’equità, di giustizia sociale, di lavoro e di progresso.
(nella foto, il patron di Confindustria, Giorgio Squinzi)

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