L’ultima follia
Mercoledì, 9 gennaio
2013
L’ultima follia non è solo il titolo di un geniale film comico di
Mel Brooks, ma è anche il titolo dell’ultimo pulp movie che il fisco italiano s’è inventato, a suo dire, per combattere
l’evasione dilagante nel Paese. Regia di Attilio Befera, direttore dell’Agenzia
delle Entrate.
A parte la giustezza e la
condivisione della lotta ad evasori, furbi, furbetti ed affini, ci si chiede se
il metodo inventato dalle menti fini del fisco con l’ausilio dell’informatica sia
effettivamente quello che ci voleva o non sia, piuttosto, l’ennesima trovata
persecutoria contro chi già paga non solo il suo ma anche quello dei furbetti.
La domanda che in tanti si fanno,
infatti, è su come saranno utilizzate le elaborazione ottenute con il nuovo
redditometro. Si, perché con il nuovo strumento messo a disposizione
dell’Agenzia delle Entrate c’è da giurare che le sorprese in tutti i sensi
saranno veramente tante, così come tanti saranno i ricorsi alle commissioni
tributarie da parte di cittadini del tutto onesti e trasparenti, ma che
incapperanno nelle grinfie del fisco solo per ragioni interpretative della loro
posizione reddituale e non per effettiva evasione.
Com’è noto, il nuovo sistema di
calcolo della capacità contributiva dei singoli cittadini incrocerà una pletora
notevole di dati , dalle spese per gli affitti a quelli per le utenze, dai
costi per viaggi a quelli per la cura personale. Potenzialmente potremmo essere
chiamati a specificare quanto abbiamo speso per un taglio di capelli o per
cambiare l’olio all’auto o a giustificare le ragioni per le quali abbiamo
percorso qualche migliaio di chilometri, spendendo in carburante e autostrada.
Cosa dire delle spese per la biancheria o al supermercato? Saranno state
congrue rispetto al reddito guadagnato e denunciato?
Questi alcuni esempi delle spese
che a partire dal 2009 saranno oggetto di incrocio telematico da parte del
fisco, che spera così di scoprire i falsi poveri in canna o quanti, grazie a
lavoro in nero, hanno goduto di un tenore di vita in netto contrasto con il
reddito ufficialmente disponibile dichiarato.
Se la lotta all’evasione è
meritevole ed ha un suo indiscutibile senso in un Paese nel quale si stima in
150 miliardi la sottrazione dei redditi da sottoporre a tassazione, è
altrettanto vero che il metodo in procinto d’essere messo in pratica genera più
di qualche perplessità, particolarmente perché non è del tutto chiaro quale
sarà il peso dato alle singole voci di spesa che concorreranno alla
ricostruzione virtuale dei redditi, né in quale misura sia riconoscibile al
fisco il diritto di sindacare in quale modalità ciascuno ha il diritto di
spendere i propri soldi. Paradossalmente ci può essere chi preferisce mangiare
cipolle e ravanelli e girare in Mercedes o abitare in un monolocale della
periferia popolare e concedersi viaggi esotici. C’è chi poi grazie ad uno stato
indifferente non riesce a trovare lavoro o vive nel precariato con retribuzioni
da fame, ma riceve un sussidio dalla famiglia d’origine per campare in maniera
decente. Ebbene, il reddito di questo disgraziato, calcolato in base alle spese
effettuate non potrà che risultare certamente al di sopra dei suoi personali
introiti dichiarati.
Questi saranno considerati
evasori? Dopo l’onta del precariato o del sotto-salario dovranno anche subire
le vessazioni di un fisco integerrimo ma vorace e illogico?
Per effettuare i suoi calcoli il
cervellone del fisco utilizzerà tutti dati riconducibili ad un qualunque
soggetto ricavati dal suo codice fiscale. Ciò presuppone che non esistano
affitti in nero o ogni spesa sia stata effettuata con meccanismi di
tracciabilità tali da non consentire dubbio. Ma come la mettiamo con coloro che
non possiedono una carta di credito, che non hanno un conto bancario, che guidano
un’auto intestata alla nonna pensionata, che vivono in una casa per la quale
pagano un affitto in nero ed utilizzano esclusivamente il contante per le loro
spese? Quale visibilità avranno costoro nel sistema telematico tributario?
Il sospetto che il nuovo
meccanismo servirà per stressare e tartassare quanti fanno già il loro dovere,
ma il rischio che vengano stimati incongrui a giudizio dei controllori è
francamente assai elevato. Molti punti non quadrano, a cominciare dall’onere
della prova che d’ora in avanti è invertito: non sta al fisco dimostrare che il
contribuente ha evaso, ma al contribuente dimostrare che l’evasione
attribuitagli dal fisco è un’illazione e che il reddito che gli viene
attribuito è solo frutto della perversa fantasia di un computer dotato di
altrettanta perversa logica persecutoria. Né sembra accettabile che per le voci prive di
un monitoraggio diretto il riferimento debba essere il dato medio Istat,
sebbene il contribuente sostenga di aver speso di meno.
Senza reticenza alcuna ci
sentiamo di definire questi metodi tristissimi espedienti da Gestapo che non
hanno diritto d’esistenza in un paese democratico e civile. Cosa dire poi della
retroattività del metodo? C’è forse qualcuno che trasformatosi in pignolo
ragioniere possa vantare di aver conservato dal 2009 ad oggi tutti i documenti
di spesa, rendendo peraltro la propria casa un archivio della Cia?
Riteniamo che non sia questo il
metodo per raggiungere la vittoria sulla vasta evasione che alligna nel nostro
Paese. Sarebbe stato molto più logico – e lo è ancora oggi – che certi
meccanismi di controllo antievasione fossero stati fissati ab origine, magari imponendo alle aziende produttrici di mantenere
i registri della produzione in modalità analitica e le relative registrazioni
delle vendite per cliente, con tanto di specifiche quantità, così da risalire
facilmente a chi da quelle aziende s’è approvvigionato e determinare un
adeguato controllo di magazzino delle vendite al dettaglio, con tanto di
riscontri IVA e d’incasso.
Invece non solo non si applicano
questi meccanismi, tra l’altro in molti casi già in uso per la rilevazione
statistico-contabile interna, ma le aziende vengono persino autorizzate al
falso in bilancio, mentre un bambino che sorbisce una caramella, sprovvisto
della prova d’acquisto, rischia la multa milionaria.
Analogo controllo potrebbe essere
facilmente applicato ai professionisti, - avvocati, medici, ingegneri, ecc. –
consentendo ai contribuenti di produrre in sede di dichiarazione dei redditi le
rendicontazioni fiscali di quelle spese, magari azzerando quell’insignificante
importo a sgravio per “spese di produzione reddito” e ammettendone la
detrazione. In uno stato serio, che voglia incisivamente combattere la piaga
dell’evasione fiscale ha molto più senso individuare i veri evasori piuttosto
che perdere introiti fiscali a causa della detrazione di certe voci di spesa,
la cui detraibilità renderebbe appetibile la pretesa di una fattura in capo al fruitore
del servizio.
Ma le sorprese, se di sorprese si
tratta e non piuttosto di vere e proprie follie, non finiscono qui. L’acquisto
di un immobile in forza del metodo in discussione diventa una sorta di
harakiri. Con il vecchio sistema di calcolo deduttivo del reddito disponibile
l’acquisto di un immobile era ipotizzato con l’impiego di soldi racimolati nel
corso del tempo; - e generalmente chi ha acquistato una casa difficilmente lo
ha fatto grazie a fortunose vincite di lotterie o consistenti eredità. Nella
quasi generalità dei casi s’è trattato di decisioni assunte molti anni prima,
affrontate con risparmi accumulati per finanziare almeno il cosiddetto anticipo
ed affidare ad un mutuo pluriennale il saldo del residuo valore d’acquisto.
Adesso le cose non funzionano più così: chi acquista una casa, ancorché vedersi
detratta la quota di eventuale mutuo, si vedrà attribuita a reddito tutta la
quota sborsata, con il risultato che il reddito stimato risulterà lontano anni
luce da quello reale.
In conclusione, il metodo non ci
sembra affatto un metro serio e attendibile per misurare la reale capacità
contributiva, né la discrezionalità lasciata all’Agenzia delle Entrate trova
giustificazioni plausibili, costituendo la pericolosissima anticamera di un
contenzioso aspro e a macchia d’olio. C’è chi, a proposito del nuovo
redditometro, ha parlato di stato di polizia fiscale, scandalizzando Attilio
Befera, che ha prontamente difeso la sua nuova creatura. Peccato che a
contraddire lo sgomento di Befera, tra gli indicatore di ricchezza, il fisco
abbia pazzescamente incluso anche il possesso di animali domestici, che non
essendo dotati di parola e non potendo indicare chi sia il loro effettivo
padrone, preludono a tempi durissimi per le tante anime pie sorprese a dar da
mangiare ai mici del quartiere.
(nella foto, Attilio Befera, direttore dell'Agenzia delle Entrate)
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