giovedì, gennaio 17, 2013

Quando la legge è senza padre



Giovedì, 17 gennaio 2013
Una delle cose che caratterizza il nostro paese è la pervicacia, quella tenace ostinazione nel voler perseguire un obiettivo a qualunque costo, sfidando ostacoli e contrarietà che farebbero desistere  i più, ma che nel nostro caso sembrano addirittura moltiplicare la motivazione al punto da rendere l’obiettivo non più funzionale ad un risultato quanto fine a se stesso. E in questa vera e propria battaglia che ci impegna allo stremo non c’è valutazione di convenienza che tenga. C’è un atteggiamento quasi militaresco, un'esigenza cogente che impone di eseguire l’ordine che ci proviene da dentro come fosse un principio etico inderogabile e ci costringe quasi con autocelebrazione e propensione al martirio a tirare dritti sulla strada che porta all’obiettivo. Poco rileva che l’obiettivo spesso possa essere di poco conto, farlocco, privo di un vantaggio tangibile o addirittura ad effetto penalizzante; non arresta neanche il ridicolo di cui si rischia di coprirsi in questa ottusa battaglia, né i sacrifici smisurati rispetto al valore del risultato. L’obiettivo assume un significato catartico  e nulla farà recedere la volontà, al punto da trasformare il fine prefissato  in sorta di patologia ossessiva.
Questa propensione, ben nota a psicologi e sociologi e che rientra nello studio della devianza, costituisce la radice di una serie di comportamenti borderline che ispirano l’operato della nostra pubblica amministrazione, sovente talmente compenetrata nella norma da applicare da perdere il senso dell’elasticità e divenire totalmente incapace di valutare il peso di situazioni apparentemente simili, ma profondamente diseguali nella genesi: è la norma che ha la supremazia, non la finalità che intende perseguire e, dunque, va applicata in modo sordo e cieco, in modo generalizzato e senza eccezioni.
Questo lungo prologo ci permette di entrare ancora una volta nella polemica in corso sull’introduzione del nuovo strumento fiscale messo in mano all’Agenzia delle Entrate, che tra i primi abbiamo contestato. Il comportamento di governo, parlamento, maggioranza, opposizione, associazioni di consumatori, esperti e quant’altro sembra giunto alla unanime conclusione che il redditometro recentemente varato da Monti è una boiata pazzesca, poiché attribuisce, sulla base di parametri arbitrari ed induttivi ai limiti della costituzionalità, un potere assurdamente smisurato all’Agenzia delle Entrate di determinare a suo insindacabile giudizio quale sia il reddito di ciascun Italiano e, da lì, muovere una micidiale procedura di accertamento dagli esiti non imprevedibili ma scontati: si è evasori, piccoli o grandi, e pertanto si deve pagare quanto presuntivamente stabilito dal fisco. Certo, è sempre possibile promuovere un ricorso contro queste presunzioni, ma intanto si anticipa il 30% di ciò che il fisco ritiene esatto, salvo riceverne il rimborso alla conclusione del contenzioso.
«E’ un giocattolo sadomaso in mano a Befera» ha sostenuto con acutezza terminologica Vittorio Feltri in un editoriale per conto di una nota emittente radiofonica, la cui paternità difronte allo scatenarsi delle polemiche è sempre più incerta, ma che alla fine non può che attribuirsi a Mario Monti. Il presidente del consiglio, che con apposito decreto ha dato il via libera all’introduzione dello strumento, ha che ben dire che lo strumento incriminato è frutto delle decisioni dell’ex ministro Tremonti del governo Berlusconi. La decisione di renderlo operativo è stata di Mario Monti, che avrebbe potuto evitare ogni polemica o lasciandolo nel cassetto in cui giaceva da tempo o modificarlo prima del varo. Grava sempre su Monti la facoltà di ritirarlo dalla circolazione qualora non ne condivida i contenuti, piuttosto che sperticarsi nel prenderne le distanze criticandolo duramente solo perché si è in campagna elettorale.
Persino l’autore dell’”idiozia perfetta”, come si potrebbe definire questo mostro fiscale, Giulio Tremonti ne ha rinnegato pubblicamente la paternità alcuni giorni or sono nel corso della nota trasmissione televisiva Ballarò, precisando che il provvedimento da lui pensato era ben diverso da quello che è stato messo in opera. Né è mancato un intervento della Corte dei Conti, che ha raccomandato all’Agenzia delle Entrate un impiego parsimonioso ed attento dello strumento di ricostruzione presuntiva dei redditi sottoposti a verifica, quantunque la lotta all’ingente evasione stimata nel paese richieda l’adozione di metodi d’indagine efficaci e decisi.
La verità sta nel fatto che non è nella trasformazione in stato di polizia fiscale e nello scatenamento sul territorio di una Gestapo tributaria che si risolve in maligno problema dell’evasione, poiché questi metodi da Santa Inquisizione, che puzzano di caccia alle streghe, recano insito il rischio di mettere sott’accusa chi non sarà in grado di giustificare dove abbia trovato i denari per la permanente o la ragione per la quale abbia acquistato un paio di mutande in più rispetto agli arbitrari standard dell’ISTAT. E fingere di sentirsi offesi quando si usano certi termini per qualificare il comportamento di un fisco basato su queste regole non è solo ipocrita, ma anche implicita ammissione di una volontà di giustizia sommaria e d’incapacità investigativa.
Assunto che la conferma dell’operatività del redditometro costituirebbe tra l’altro una violazione gravissima della privacy ed un pericolosissimo precedente in materia di scardinamento dei principi democratici, che impongono l’onere della prova del reato in capo all’inquirente e non all’indagato, vi sarebbe poi una questione d’equità giuridica e di reciprocità da rispettare.  Perché, per esempio, non prevedere che chi fosse sottoposto a questo infame metodo d’accertamento e risultasse in regola dopo la chiusura del contenzioso non debba essere risarcito con il triplo di quanto ha dovuto indebitamente anticipare a titolo d’acconto sull’evasione presunta? Qual è il risarcimento morale da considerare sul piano dell’immagine per chi sarebbe inevitabilmente tacciato con il marchio d’infamia dell’evasore a prescindere dagli esiti dell’accertamento?
C’è da augurarsi che davanti a queste considerazioni ed alla crescente indignazione si decida al più presto per la revoca del provvedimento in questione, rimuovendo così la sensazione che per una manciata di voti si perpetui la comoda pratica di scaricare la responsabilità d’iniziative criticabili e sgradite senza una volontà precisa di risolvere i problemi dei cittadini.

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