Quando la legge è senza padre
Giovedì, 17 gennaio 2013
Una delle cose che caratterizza
il nostro paese è la pervicacia, quella tenace ostinazione nel voler perseguire
un obiettivo a qualunque costo, sfidando ostacoli e contrarietà che farebbero
desistere i più, ma che nel nostro caso
sembrano addirittura moltiplicare la motivazione al punto da rendere
l’obiettivo non più funzionale ad un risultato quanto fine a se stesso. E in
questa vera e propria battaglia che ci impegna allo stremo non c’è valutazione di
convenienza che tenga. C’è un atteggiamento quasi militaresco, un'esigenza
cogente che impone di eseguire l’ordine che ci proviene da dentro come fosse un
principio etico inderogabile e ci costringe quasi con autocelebrazione e
propensione al martirio a tirare dritti sulla strada che porta all’obiettivo.
Poco rileva che l’obiettivo spesso possa essere di poco conto, farlocco, privo
di un vantaggio tangibile o addirittura ad effetto penalizzante; non arresta
neanche il ridicolo di cui si rischia di coprirsi in questa ottusa battaglia,
né i sacrifici smisurati rispetto al valore del risultato. L’obiettivo assume
un significato catartico e nulla farà
recedere la volontà, al punto da trasformare il fine prefissato in sorta di patologia ossessiva.
Questa propensione, ben nota a
psicologi e sociologi e che rientra nello studio della devianza, costituisce la
radice di una serie di comportamenti borderline che ispirano l’operato della
nostra pubblica amministrazione, sovente talmente compenetrata nella norma da applicare
da perdere il senso dell’elasticità e divenire totalmente incapace di valutare
il peso di situazioni apparentemente simili, ma profondamente diseguali nella
genesi: è la norma che ha la supremazia, non la finalità che intende perseguire
e, dunque, va applicata in modo sordo e cieco, in modo generalizzato e senza
eccezioni.
Questo lungo prologo ci permette
di entrare ancora una volta nella polemica in corso sull’introduzione del nuovo
strumento fiscale messo in mano all’Agenzia delle Entrate, che tra i primi
abbiamo contestato. Il comportamento di governo, parlamento, maggioranza,
opposizione, associazioni di consumatori, esperti e quant’altro sembra giunto
alla unanime conclusione che il redditometro recentemente varato da Monti è una
boiata pazzesca, poiché attribuisce, sulla base di parametri arbitrari ed
induttivi ai limiti della costituzionalità, un potere assurdamente smisurato
all’Agenzia delle Entrate di determinare a suo insindacabile giudizio quale sia
il reddito di ciascun Italiano e, da lì, muovere una micidiale procedura di
accertamento dagli esiti non imprevedibili ma scontati: si è evasori, piccoli o
grandi, e pertanto si deve pagare quanto presuntivamente stabilito dal fisco.
Certo, è sempre possibile promuovere un ricorso contro queste presunzioni, ma
intanto si anticipa il 30% di ciò che il fisco ritiene esatto, salvo riceverne
il rimborso alla conclusione del contenzioso.
«E’ un giocattolo sadomaso in mano a Befera» ha sostenuto con
acutezza terminologica Vittorio Feltri in un editoriale per conto di una nota
emittente radiofonica, la cui paternità difronte allo scatenarsi delle
polemiche è sempre più incerta, ma che alla fine non può che attribuirsi a
Mario Monti. Il presidente del consiglio, che con apposito decreto ha dato il
via libera all’introduzione dello strumento, ha che ben dire che lo strumento
incriminato è frutto delle decisioni dell’ex ministro Tremonti del governo
Berlusconi. La decisione di renderlo operativo è stata di Mario Monti, che
avrebbe potuto evitare ogni polemica o lasciandolo nel cassetto in cui giaceva
da tempo o modificarlo prima del varo. Grava sempre su Monti la facoltà di
ritirarlo dalla circolazione qualora non ne condivida i contenuti, piuttosto
che sperticarsi nel prenderne le distanze criticandolo duramente solo perché si
è in campagna elettorale.
Persino l’autore dell’”idiozia
perfetta”, come si potrebbe definire questo mostro fiscale, Giulio Tremonti ne
ha rinnegato pubblicamente la paternità alcuni giorni or sono nel corso della
nota trasmissione televisiva Ballarò, precisando che il provvedimento da lui
pensato era ben diverso da quello che è stato messo in opera. Né è mancato un
intervento della Corte dei Conti, che ha raccomandato all’Agenzia delle Entrate
un impiego parsimonioso ed attento dello strumento di ricostruzione presuntiva
dei redditi sottoposti a verifica, quantunque la lotta all’ingente evasione
stimata nel paese richieda l’adozione di metodi d’indagine efficaci e decisi.
La verità sta nel fatto che non è
nella trasformazione in stato di polizia fiscale e nello scatenamento sul
territorio di una Gestapo tributaria che si risolve in maligno problema
dell’evasione, poiché questi metodi da Santa Inquisizione, che puzzano di
caccia alle streghe, recano insito il rischio di mettere sott’accusa chi non
sarà in grado di giustificare dove abbia trovato i denari per la permanente o
la ragione per la quale abbia acquistato un paio di mutande in più rispetto
agli arbitrari standard dell’ISTAT. E fingere di sentirsi offesi quando si
usano certi termini per qualificare il comportamento di un fisco basato su
queste regole non è solo ipocrita, ma anche implicita ammissione di una volontà
di giustizia sommaria e d’incapacità investigativa.
Assunto che la conferma
dell’operatività del redditometro costituirebbe tra l’altro una violazione
gravissima della privacy ed un pericolosissimo precedente in materia di
scardinamento dei principi democratici, che impongono l’onere della prova del
reato in capo all’inquirente e non all’indagato, vi sarebbe poi una questione
d’equità giuridica e di reciprocità da rispettare. Perché, per esempio, non prevedere che chi
fosse sottoposto a questo infame metodo d’accertamento e risultasse in regola
dopo la chiusura del contenzioso non debba essere risarcito con il triplo di quanto
ha dovuto indebitamente anticipare a titolo d’acconto sull’evasione presunta?
Qual è il risarcimento morale da considerare sul piano dell’immagine per chi
sarebbe inevitabilmente tacciato con il marchio d’infamia dell’evasore a
prescindere dagli esiti dell’accertamento?
C’è da augurarsi che davanti a
queste considerazioni ed alla crescente indignazione si decida al più presto
per la revoca del provvedimento in questione, rimuovendo così la sensazione che
per una manciata di voti si perpetui la comoda pratica di scaricare la
responsabilità d’iniziative criticabili e sgradite senza una volontà precisa di
risolvere i problemi dei cittadini.
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