mercoledì, luglio 21, 2010

Il bavaglio all’informazione

Mercoled', 21 luglio 2010

Pubblichiamo un articolo di Massimo Giannini, vice direttore de la Repubblica, che sintetizza la situazione relativa alla cosiddetta legge bavaglio sull’informazione in discussione alla Camera.

Vince la libertà non la legalità

di Massimo Giannini

"QUESTA legge non può passare, e non passerà", aveva scritto "Repubblica" all'inizio della battaglia sulle intercettazioni telefoniche. Non era un ideologico "grido di battaglia" contro la legge-bavaglio voluta a tutti i costi da Silvio Berlusconi, che minaccia i diritti di libertà e i principi di legalità. Era invece una rischiosa ma convinta "scommessa" sulla forza della democrazia. La scommessa racchiudeva, da una parte, un atto di fiducia verso le istituzioni repubblicane, nonostante le continue aggressioni del presidente del Consiglio. Dall'altra, un investimento sull'opinione pubblica, nonostante le continue manipolazioni dell'agenzia Stefani berlusconiana.
È ancora presto per trarre conclusioni definitive: l'iconografia del Caimano ci ricorda che proprio nei momenti più drammatici il colpo di coda è sempre possibile. Ma allo stato degli atti, la giornata di ieri dice che almeno una parte di quella scommessa è stata vinta. Per ora Berlusconi incassa una sconfitta durissima, dentro la sua maggioranza e di fronte al Paese. Il governo, suo malgrado, è costretto a far suoi gli emendamenti sul diritto di cronaca. Se la Camera li voterà e li approverà, i diritti di libertà saranno salvi.
I giornali potranno continuare a fare il proprio dovere, cioè informare i cittadini su tutte le inchieste che svelano le trame del potere politico, economico e criminale. I cittadini potranno continuare ad esercitare un loro diritto, cioè essere informati di tutto ciò che le intercettazioni svelano sul malaffare della "casta". È una buona notizia. Sul piano della politica, conferma la tenuta dell'asse istituzionale tra il presidente della Repubblica e il presidente della Camera. Napolitano e Fini, in modi diversi e con ruoli diversi, sono riusciti a fermare il tentativo tecnicamente eversivo del premier di stravolgere un principio garantito dalla Costituzione all'articolo 21. Sul piano della democrazia, conferma che a volte anche il "berlusconismo da combattimento", quello più pericoloso perché tendenzialmente dispotico e irresponsabile, può essere fermato.
La modifica alla legge proposta dalla presidente della commissione Giustizia, la finiana Giulia Bongiorno, è convincente dal punto di vista culturale e procedurale. Cade la norma liberticida che vietava ai giornali di pubblicare qualunque intercettazione fino alla richiesta di rinvio a giudizio o all'inizio dell'udienza preliminare. Al suo posto, l'emendamento prevede la cosiddetta "udienza-stralcio", con la quale le parti (difesa ed accusa) decidono insieme davanti al giudice (durante le indagini preliminari e prima del dibattimento) quali siano le intercettazioni "rilevanti" (dunque pubbliche e pubblicabili) e quelle irrilevanti (dunque da secretare o da distruggere). Una norma di assoluto buon senso.
La stessa che aveva proposto su questo giornale Giuseppe D'Avanzo due anni fa, e che "Repubblica" da allora ha sempre rilanciato con forza, in editoriali, convegni e trasmissioni televisive. Scriveva D'Avanzo, nel suo commento intitolato "La via maestra per una riforma": "Occorre separare le conversazioni utili a formare la prova da quelle, non utili, relative alla vita privata degli indagati e delle persone estranee alle indagini, le cui conversazioni siano state raccolte per caso. Bisogna separare le prime dalle seconde dinanzi a un giudice alla presenza delle difese e, per impedire la divulgazione e la pubblicazione delle conversazioni non utili alle indagini, è necessario estendere a questa procedura il vincolo della segretezza, prevedendo sanzioni severe per i trasgressori...".
L'articolo uscì l'11 giugno del 2008. Un'epoca "non sospetta", per così dire. Che dimostra quanto sia strumentale l'ideologia propagandistica usata da Berlusconi per spiegare la necessità e l'urgenza di questa legge-bavaglio: la presunta "tutela della privacy". E che dimostra quanto sia debole il pensiero di quegli intellettuali gregari che in queste settimane si sono affrettati a salire sul carro del premier, proprio in nome di un intangibile (e perciò insostenibile) "primato" della privacy. Di cui al premier (con tutta evidenza) non interessa nulla. E di cui "Repubblica", invece, si è fatta responsabilmente e concretamente carico da almeno due anni.
Ma se con questo emendamento cade almeno il "bavaglio", questa legge non rinuncia affatto a colpire il "bersaglio" che riguarda l'agibilità delle intercettazioni da parte della magistratura. Questa parte della "scommessa" appare tuttora irrimediabilmente persa. Se questa legge sarà approvata, pur con tutte le modifiche apportate anche su questo versante dai volonterosi finiani, i principi di legalità ne usciranno gravemente lesionati. Non basta aver prolungato le "proroghe" alle intercettazioni di 15 giorni in 15 giorni, dopo i 75 categoricamente fissati come limite da questo dissennato provvedimento: per i pm questo sarà un ulteriore intralcio alle indagini, e non solo di natura burocratica. Non basta aver parzialmente corretto l'abominio della "prova diabolica" richiesta per poter procedere alle intercettazioni ambientali, o aver ripristinato la procedibilità innescata dalle intercettazioni sui cosiddetti "reati spia".
Rimane l'impianto fortemente limitativo all'uso di questo prezioso strumento di investigazione e di raccolta delle prove, come confermano tutti i magistrati impegnati in prima linea persino nei reati contro le mafie, da Pietro Grasso ad Antonio Ingroia. Questa "danno", enorme per la sicurezza del Paese e incalcolabile per la difesa della legalità, è stato ridotto. Ma in misura tuttora intollerabile per uno Stato di diritto. E allora, cosa resta di questa pessima legge, se non l'insensata ma gravissima deformità che arreca al nostro sistema giuridico? Cosa resta se non l'innaturale ma profondissima torsione delle regole che sovrintendono alla prevenzione e alla persecuzione di tutte le forme di criminalità, organizzata e comune, politica ed economica? Questo sembra, tuttora, il prezzo da pagare alla "lucida follia" berlusconiana. Il premier, ieri, ha sostanzialmente dichiarato la "resa". Ha ammesso che questa legge, così emendata, non serve a niente: voleva impedire che "milioni di cittadini" venissero spiati, e "per colpa" delle modifiche imposte da Fini e ispirate da Napolitano non sarà così. "Gli italiani continueranno a non poter parlare al telefono", ha commentato il presidente del Consiglio, spacciando all'opinione pubblica l'ennesima menzogna.
Ma aggiungendo una chiosa che non può non preoccupare chiunque abbia a cuore il destino di questo Paese: se l'operazione legge-bavaglio non gli è riuscita e non gli riuscirà come lui avrebbe voluto, la colpa è di "quell'architettura costituzionale italiana basata sull'equilibrio tra i diversi poteri, che impedisce l'ammodernamento dell'Italia". Non è solo la grottesca auto-assoluzione di un leader ormai sprofondato nel regno dell'irrealtà, che maschera la sua difficoltà e la sua incapacità con il logoro e inservibile mantra del "non mi lasciano governare". Sembra anche la guerresca minaccia di un uomo disperato, perciò pronto a rovesciare tutti i tavoli. E pronto ad attaccare un principio essenziale, forgiato in quattro secoli di storia occidentale, dai padri pellegrini del Mayflower nel 1620 ai padri fondatori della Repubblica nel 1948: la divisione e il bilanciamento dei poteri. Il cuore di tutte le costituzioni, l'essenza di tutte le democrazie. Questa, qui e nei prossimi mesi, rischia di essere la vera posta in gioco. È bene che gli italiani lo sappiano.


(nella foto, Massimo Giannini, vice direttore di la Repubblica)



martedì, luglio 20, 2010

RAI – L’effetto CEPU


Martedì, 20 luglio 2010
Questa sicuramente non ci voleva. Non passano ventiquattr’ore dalla sua visita all’ateneo del CEPU, l’Ecampus di Novedrate, che Berlusconi deve incassare l’ennesimo smacco per decisione dei magistrati, - quei magistrati che non perde occasione per vilipendere con ogni sorta d’insulto e che oggi gli rendono pariglia rigettando il ricorso che il suo valletto Masi, direttore generale della televisione pubblica, aveva intentato contro la sentenza di reintegro di Paolo Ruffini.
Un ricorso che Masi aveva preparato con tignosa attenzione, con il supporto di una nutrita schiera di eminenti legali, contro quel provvedimento di reintegro che non aveva esito a definire davanti alla Commissione di Vigilanza frutto di una valutazione totalmente «infondata in fatto e in diritto». Ovviamente, di diverso parere è stato il collegio del tribunale del lavoro di Roma, chiamato a valutare la congruenza del reclamo inoltrato dalla RAI avverso la sentenza di primo grado, che non ha avuto alcuna esitazione nel rigettarlo, ritenendo insussistenti le ragioni opposte da viale Mazzini.
Uno smacco, non c’è altra definizione, per il direttore Masi e per la schiera dei servi che il Cavaliere ha disseminato in varie posizioni di comando in enti pubblici e privati da quando ha assunto il potere, con l’intento di addomesticare il sistema a proprio uso e consumo.
Ma il provvedimento, - di cui si conosceranno domani le motivazioni di merito, - va ben oltre il caso Ruffini, poiché mette a nudo la fragilità dei meccanismi giuridici cui fanno ricorso le falangi legali del premier ogni qual volta decidano di scatenare una qualche guerra di persecuzione contro il nemico di turno. Il che dovrebbe suggerire al presuntuoso Signore di Arcore di rivolgersi in futuro a legulei magari meno qualificati di quelli laureati nelle prestigiose aule del CEPU, ma con un retroterra decisamente più spesso e solido, quantunque acquisito in atenei dal nome meno roboante, in grado di evitargli passi falsi che servono esclusivamente ad erodergli ulteriori punti di gradimento e d’immagine.
Qualcuno parla già da qualche tempo di clima da fine impero, per indicare i continui show down del Cavaliere. Ma la cosa non sembra preoccupare il vanesio interessato, convinto com’è d’essere in grado di riuscire a fare ciò che non è stato possibile a madre natura: raddrizzare le gambe ai cani. E dunque, anziché salvare ciò che resta oramai della sua consunta immagine di vincente, almeno per poter trascorrere in un buon ritiro una vecchiaia in compagnia di positivi ricordi, si ostina a scagliarsi a testa bassa contro chiunque osi traversargli la strada accecato da incomprensibile odio.
E’ una fase di luna calante, che suggerirebbe a chiunque di farsi da parte e considerare chiusa una fase della propria esperienza. Ma il Cavaliere è fatto così: pervicace, indomito, irriducibile, convinto che quattro azzeccagarbugli pronti a soddisfare i suoi desideri di vendetta siano in grado di stravolgere la verità e di portare a casa il risultato che s’è prefisso.

(nella foto, Paolo Ruffini, direttore di RAI 3, reintegrato dalla magistratura dopo l'illegittima rimozione)

lunedì, luglio 19, 2010

Ennesimo exploit di Berlusconi: adesso è anche modello di buona creanza


Lunedì, 19 luglio 2010
L’on. Di Pietro s’è lamentato delle intemperanze verbali di Berlusconi, che nel corso di una visita all’Ecampus di Novedrate compiuta oggi avrebbe messo in discussione la qualità dei suoi studi per conseguire la laurea in giurisprudenza.
Analoga protesta ha levato Rosy Bindi, presidente del PD, alla quale facendo leva sulla consueta signorilità di cui è naturalmente dotato, il presidente del consiglio ha rivolto i complimenti per la bruttezza. «Mi accusano sempre di circondarmi di belle ragazze senza cervello,» - avrebbe detto il premier secondo quanto riferito da alcuni partecipanti alle agenzie di stampa. - «Ecco invece qui delle belle ragazze che si sono laureate con il massimo dei voti e che non assomigliano certo a Rosy Bindi.»
Ma evidentemente i due bersagli delle facezie - alquanto idiote, a dire il vero, - di un capo di governo pronto a sparare qualunque minchiata pur di occupare le prime pagine dei giornali, non hanno avuto il buon senso di non dare alcun peso a queste affermazioni e hanno preferito replicare, scadendo così di livello e contravvenendo al sono principio che il silenzio in certe ci.rcostanze è più fastidioso delle urla sguaiate.
A nostro avviso i due interessati hanno sottovalutato alcuni aspetti. In prima battuta perché le battute sono state proferite in un ambiente culturalmente a lui molto familiare, un liquido amniotico nel quale ha sempre sguazzato in perfetto agio, trattandosi di un’università fondata dal creatore del mitico CEPU, Francesco Polidori, nelle cui qualificatissime aule si sono formati insigni nobel per la letteratura, la matematica, la chimica e, soprattutto, le materie giuridiche, tant’è vero che parecchi dei suoi consiglieri in questa nobile scienza debbono provenire da quelle fila, sebbene non abbiano mai voluto ammetterlo per eccesso di modestia. Scondariamente ,perché con tutti i guai che in queste ore l’assediano, - Dell’Utri, Verdini, Cappellacci, Fini, l’enigmatico Tremonti, e per economia di spazio chiudiamo qui la triste lista, - una battuta scherzosa alla volta dei suoi avversari sarà servita al buon Silvio per alleggerire il clima in cui sta trascorrendo le giornate.
E poi, non è certo la prima volta che il simpatico gigante della gag e gnomo della politica ricorre a queste scenette d’avanspettacolo per stemperare le frustrazioni o, presumibilmente, per collocare un gancio traino e rimorchiare qualche sprovveduta, divertita dall’innata verve dell’indomabile playboy. E’ scritto in tutti i bignamini per tomber de femmes che le donne per lasciarsi circuire debbono ridere, che la risata allenta le difese e permette all’insidiatore di mettere a buon frutto la fatica delle sue avances, più o meno dissimulate.
Così, invece di lasciar perdere e dare alle esternazioni di Berlusconi il dovuto peso, Di Pietro ha tuonato: «Berlusconi, invece di continuare a offendere la mia storia personale, rinunci ad avvalersi dell'insindacabilità prevista dall'articolo 68 della Costituzione, così vedremo davanti ai giudici chi ci capisce di più non solo di italiano ma anche di diritto. Le sue dichiarazioni,» - aggiunge il leader dell'IdV - «già più volte sono state ritenute diffamatorie dai giudici ma Berlusconi ha sempre approfittato dell'articolo 68 della Costituzione. Anche per queste sue ultime affermazioni lo querelerò augurandomi che si decida ad affrontarmi a viso aperto in un' Aula di Tribunale,» dimostrando così quanto manchi di senso dell’humor e del fair play.
Più elegante la Bindi, che, sebbene avrebbe potuto lasciar correre e così far intendere al vecchio astioso che le sue velenose frecciate non erano andate a segno, ha preferito il commento caustico ma garbato: «Faccio i miei complimenti alle studentesse per il conseguimento della laurea. Su quello che ha detto il presidente del Consiglio mi limito con tristezza a prendere atto che, tra i tanti segnali della fine dell'impero, c'è anche questa ormai logora ripetitività delle sue volgarità».
Non c’è che dire: c’è da esser fieri di avere un presidente del consiglio così al di sopra delle piccole beghe da bassofondo e dalle così alte capacità di ergersi a modello per i tanti giovani presenti alla sceneggiata e in procinto di intraprendere il lungo cammino dell’inserimento nel mondo del lavoro e degli adulti.
Dopo questa ennesima dimostrazioni delle sue insuperabili capacità di insigne uomo di stato e di faro culturale, nonché di gran maestro dei metodi di Monsignor Della Casa, chissà che il mecenate Polidori non voglia elargire a Silvio Berlusconi una laurea honoris causa e magari una cattedra nella sua prestigiosa università, così quando il Nostro avrà terminato la sua fulgida carriera da politicante non abbia a tediarsi negli ozi di Arcore o ad inseguire manieristicamente le sottane.

(nella foto, un tomber de femmes in azione)

mercoledì, luglio 14, 2010

La qualità virtuale

Mercoledì, 14 luglio 2010
Correvano gli anni ’80 quando dal lontano Giappone si diffondeva nel mondo intero una cultura nuova e innovativa, che negli anni a seguire avrebbe dovuto rivoluzionare la cultura industriale e la modalità di produrre. Erano gli anni dei circoli della qualità, delle assisi informali costituite dalle maestranze che si adoperavano per la realizzazione di prodotti a difettosità decrescente, se non addirittura zero, e che avevano costituito il fattore d’eccellenza dell’industria giapponese a livello mondiale.
Importate immediatamente in tutte le aziende del globo, - chi non ricorda ile cassette delle idee e dei suggerimenti, piuttosto che le innovazioni organizzative come le isole di produzione, - avrebbero dovuto consentire lo sviluppo di una nuova mentalità del produrre, basata sulla capacità di realizzare prodotti finiti in grado di durare nel tempo, ad efficienza garantita e capaci di contribuire significativamente non soltanto all’accreditamento del marchio aziendale ma anche a ridurre i costi del post-vendita e quelli necessari per il mantenimento di un apparato di assistenza tecnica alla clientela.
La razionalizzazione di tale filosofia produttiva portò successivamente a veri e propri sistemi di certificazione della qualità, con tanto di istituti certificatori e ingenti costi per le aziende per ottenere le tanto ambite ISO, cioè le attestazioni che i processi di produzione rispondevano a precise e codificate procedure controllate e verificate in ogni fase di realizzazione del prodotto finale.
Eppure, a dispetto dei buoni propositi, mai come da quegli anni il mondo ha assistito ad un degrado progressivo della qualità dei prodotti immessi sul mercato. Anzi v’è legittimo il sospetto che la qualità virtuale dei prodotti finiti posti in vendita abbia scatenato un business del tutto nuovo basato sulla speculazione legata alla ricambistica ed all’assistenza post-vendita.
A ben guardare il mercato dei beni c’è infatti da registrare una significativa caduta dei prezzi dei prodotti finiti, - particolarmente più sostanziosa se si effettua un calcolo destagionalizzato dei prezzi, come direbbero gli economisti addetti ai lavori, - al punto tale che in moltissimi casi è venuta meno la convenienza alla riparazione dei prodotti che dovessero guastarsi causa il crescente costo dei ricambi e delle tariffe d’assistenza tecnica. Addirittura è del tutto evidente come tante aziende puntino alla realizzazione di prodotti a ciclo di vita estremamente ridotto, magari in grado di reggere il cosiddetto periodo di garanzia, per rimpinguare i propri bilanci con i proventi della ricambistica e delle riparazioni fuori garanzia.
Questo fenomeno è particolarmente più evidente in alcuni settori piuttosto che altri, ma costituisce un approccio sempre più diffuso di una cultura industriale che tende sempre più, spinta anche da una concorrenzialità sempre più serrata e aggressiva, a trasformare anche i beni durevoli in prodotti di consumo usa e getta.
L’elettronica è un settore che costituisce l’esempio lampante di questo processo che potremmo definire di degrado della cultura industriale: cellulari, elettrodomestici, televisori, computer, utensileria in genere sono costantemente sotto l’assalto dell’innovazione tecnologica, che ne riduce il costo e ne amplia le prestazioni, ma, nello stesso tempo, di un processo scientificamente teso a ridurne la durata e, dunque, la performance qualitativa. In altri termini, un processo che ha ridotto sensibilmente il ciclo di vita dei prodotti.
Il fenomeno ha costretto le autorità di governo degli stati ad intervenire, al punto che ovunque sono state introdotte leggi per la tutela dei diritti dei consumatori e normative di garanzia durante i quali le aziende produttrici sono costrette ad interventi di riparazione gratuiti. In Europa già dal 2002 è vietata l’immissione sul mercato di prodotti che non siano coperti da una garanzia biennale, proprio in considerazione del fenomeno di riduzione del ciclo di vita dei prodotti in commercio.
Ma a ben guardare le cause di un fenomeno che ha reso la nostra esistenza sempre più proiettata verso un consumismo distruttivo senza precedenti, vi sono anche ragioni di ordine economico. L’ingresso dirompente nei mercati internazionali di Cina, Corea, Taiwan e di aree del mondo fino a pochi anni or sono ai margini dell’economia mondiale è stato l’inizio e l’acceleratore del processo di degrado in atto, causa la capacità di questi contesti emergenti di produrre a bassissimo costo e con straordinarie capacità di clonazione di prodotti similari provenienti da contesti con maggiore tradizione tecnica. Internet, poi, ha dato il colpo di grazia, dato che attraverso la rete è ormai possibile acquistare di tutto, peraltro con la possibilità di fare confronti immediati tra prodotti della stessa natura, ma senza contezza alcuna della qualità della componentistica di ciò che si acquista. Infine, va rilevato come il degrado qualitativo abbia influito anche sugli aspetti legati alla sicurezza dei prodotti.
Così, scrive la Repubblica «un esercito di pericolosi killer è entrato alla chetichella nelle case. Si sono nascosti nella stanza dei bimbi, nei frigo, in bagno o in garage. Innocui all'apparenza, micidiali quando entrano in azione: Barbie velenose, auto che non frenano, passeggini-ghigliottina, fasce anti-cellulite che bruciano la pelle al posto del grasso. Le avanguardie più stravaganti e "pop" del nuovo incubo domestico del globo: i prodotti nati col difetto di fabbrica. Le mozzarelle Avatar (quelle che diventano azzurrine) sono solo l'ultimo caso.» Ma che dire dei cellulari da 500 euro, venduti a meno della metà pochi mesi dopo la loro comparsa sul mercato, che in caso di guasto rendono più conveniente l’acquisto di un apparecchiatura nuova piuttosto che la riparazione? E’ così per i tanti prodotti informatici, presenti sul mercato, nel quale regna una grandissima confusione di modelli e di prezzi, aggravata anche dalle politiche di (s)vendita messe in atto dai mille supermercati, sempre pronti ad offrire con sottocosto o promozioni equivoche apparati spacciati per gli ultimi ritrovati della tecnologia.
«La globalizzazione corre e i controlli di qualità non sono più quelli di una volta» - prova a spiegare Francesca Magno, che ha studiato il fenomeno al dipartimento di economia aziendale dell'Università di Bergamo. - «Quando si produce a ritmi forzati i margini d'errore crescono e, alla fine, il difetto di fabbrica è sempre in agguato.» E il fenomeno si è allargato a macchia d’olio, investendo anche realtà produttive che sino a poco tempo fa sembravano indenni. Un esempio su tutti è la Toyota, la più grande casa automobilistica del globo, costretta a richiamare milioni di vetture per un difetto all’acceleratore, che la dice lunga come anche i padri della qualità abbiano dovuto scendere a più miti consigli e compromessi per mantenere la leadership in un mercato in cui la sola logica di sopravvivenza è ormai quella del fast food, dove risparmio e velocità contano più della qualità.
E che dire del mitico iphone della Apple, renitente oggetto del piacere e dello sciovinismo con i suoi problemini di ricezione? Ma sono plausibili 750 euro per un prodotto che per essere usato richiede l’assunzione di posizioni da kamasutra?

(nella foto, il nuovo cellulare Apple)

martedì, luglio 13, 2010

Governo - Nuova puntata de "La Piovra”

Martedì, 13 luglio 2010
E’ come i grani di un rosario. Non passa giorno che nella coalizione al governo non emerga un nuovo caso di malaffare, peraltro di gravità inaudita e che coinvolge personaggi non certo di secondo piano.
Adesso è la volta di Denis Verdini, uno dei tre coordinatori del PdL, coinvolto in una misteriosa quanto squallida vicenda di corruzione e di associazione a delinquere segreta, che aveva l’obiettivo non solo di realizzare affari milionari con la produzione di energia eolica, ma anche di avvicinare magistrati con il fine di costruire falsi dossier contro avversari politici. Con lui due stinchi di santo del calibro di Flavio Carboni, che nonostante l’età avanzata non aveva perso il vizietto di tramare nell’ombra per mettere a segno qualche buon affare, e Marcello Dell’Utri, fresco di condanna per appurato fiancheggiamento alla mafia.
Italo Bocchino, primo del movimento che con Gianfranco Fini ha ormai da tempo preso le distanze da quel PdL che giorno dopo giorno somiglia sempre più ad una aggregazione di gaglioffi senza scrupoli, ha impietosamente richiesto che lo stesso Berlusconi assuma tutte le misure necessarie e urgenti affinché Verdini lasci la carica attualmente ricoperta, causa la plateale incompatibilità in un incarico fortemente appannato dalle vicende giudiziarie in corso e documentate dai rapporti degli inquirenti.
Ma ciò che più turba non è certamente il trailer sulla nuova puntata de La Piovra che viene rappresentato al Paese, quanto l’ennesima e sconcertante dichiarazione del capo del governo, che ha bollato l’affaire come «tutta una montatura, sulla quale come al solito i giornali fanno disinformazione». Di più, una «cosa assurda», perché dove è il reato, dove l’associazione a delinquere per costituire un’associazione segreta quando dalle carte emergono solo i movimenti scomposti di «due pensionati che millantavano credito, due ignoti personaggi che nessuno conosce, ma ci rendiamo conto?». E Flavio Carboni, poi: altro che pericolo pubblico. La verità, secondo il premier, è che «non si mette in galera uno che ha settantotto anni» e pure tre by-pass, come raccontano le cronache. Insomma, è furioso, Berlusconi, per l’ennesimo scandalo che getta «fango» a suon di «menzogne» e di «operazioni di disinformazione» proprio nel cuore del suo partito. Per questo la sua ira gelida è tutta contro chi ha cavalcato il caso, chi ha chiesto le dimissioni di Verdini adducendo motivi di opportunità ed esigenze di moralità, chi è arrivato a sostenere che altre indiscrezioni verranno alla luce, altre notizie imbarazzanti: Italo Bocchino, per intendersi. Ritenuto uomo di massima fiducia di Gianfranco Fini, quasi il suo braccio armato. Tanto da aver provocato nel Cavaliere - più che uno sfogo - l’annuncio che si stia per mettere una pietra tombale su ogni tentativo di ripresa di dialogo con il cofondatore: «Per me», - dice tranchant, - «Fini è fuori dal partito. Perché chi si fa rappresentare da uno come Bocchino, non può che essere fuori dal partito»
E tanto è bastato perché i soliti banditori del centro-destra, Bondi e Cicchitto, scendessero in campo per sperticarsi in strumentali difese d’ufficio del coordinatore sotto accusa e usassero le dichiarazioni di Bocchino quale ulteriore prova dell’impellente necessità di limitare il diritto d’informazione, che, a loro illuminato avviso, sarebbe sistematicamente invocato solo per poter diffamare impunemente la probità degli arcangeli che nel centro-destra lavorano per il benessere della nazione.
«L'On. Bocchino ha l'obbligo di riferire come sia giunto in possesso di tali verbali, in che modo e attraverso quali canali Questa vicenda dimostra a quale livello di degrado e di spregiudicatezza giungano alcuni esponenti politici. Inoltre rivela, se fosse confermata, l'intreccio perverso non solo tra una parte della magistratura e il mondo dell'informazione, ma anche tra ambienti giudiziari e esponenti politici, che utilizzano notizie coperte da segreto istruttorio come strumento di lotta politica», hanno dichiarato all'unisono.
La replica di Bocchino non ha tardato ad arrivare in una nota ufficiale: «Gli amici Bondi e Cicchitto possono star tranquilli che non c'è alcun complotto in giro, né misteri. Quando ho parlato di atti che a mio giudizio porranno un problema di opportunità politica a Berlusconi sul caso Verdini, mi riferivo semplicemente all'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Carboni e soci, documento in possesso di tutte le redazioni dei giornali», - con ciò smontando le assurde e pretestuose tesi complottiste subito avanzate dal Cavaliere e dai suoi due fedeli mastini.
Non una parola dal quartier generale del PdL, comunque, nei confronti di Dell’Utri e Cosentino, ufficialmente coinvolti nell’indagine in corso, che, visti i precedenti, non potevano essere spacciati per personaggi al di sopra d’ogni sospetto, coinvolti per puro caso in una vicenda che puzza d’imbroglio già lontano un miglio. S’è preferito giocare la carta Carboni, il povero vecchietto con i by-pass spendibile per mansueto pensionato: chi si ricorda ancora oggi il suo coinvolgimento nella P2 di Licio Gelli, il crack della Rizzoli e l’omicidio Calvi, vicende nelle quali il vecchietto in questione, - allora molto giovane, - ebbe un ruolo di primissimo piano? I giovani, che abbagliati e smidollati votano PdL, non hanno certamente memoria di fatti accaduti quando non erano neppure nati e i vecchi, quelli plagiati dall’illusionista Fede, in tanti casi sono ormai così rincoglioniti da non ricordare neanche ciò che hanno mangiato qualche minuto prima di sedersi davanti al piccolo schermo per sentire i deliri dell’imbonitore di turno.
A ben guardare nel PdL si stanno raggiungendo punte d’inquisiti veramente inimmaginabili, dato da insinuare il sospetto che uno dei requisiti necessari per essere inserito nelle liste del partito non sia tanto la capacità politica quanto la contiguità ad ambienti equivoci border line, grazie alla quale il consenso che non dovesse potersi acquisire con la distribuzione delle fette di salame da mettere sugli occhi e con le oscene panzane sparate a raffica dal Cavalier Viagra e i suoi megafoni, va pilotato con il ricorso a metodi di persuasione occulta e qualche iniziativa da malaffare.
Qualche mese fa in parecchi ambienti si ventilò l’ipotesi che l’astro del Cavaliere fosse avviato sull’inesorabile viale del tramonto e nel presagire ciò Massimo D’Alema dichiarò che sarebbe stato necessario elevare il livello d’attenzione per salvaguardare la democrazia dai pericoli cui sarebbe stata sottoposta dai prevedibili colpi di coda del caimano ferito. Ciò cui stiamo assistendo ne è conferma, ma deve preoccupar di più che probabilmente quanto è finora accaduto non è che l’anticipo di altri e ben assestati colpi alla solidità delle nostre istituzioni e alla nostra libertà.

(nella foto, il faccendiere inquisito Flavio Carboni)

venerdì, luglio 02, 2010

Ryanair – Al via la pipì a gettone


Venerdì, 2 luglio 2010
La notizia è su tutti i quotidiani di oggi: Ryanair, la compagnia low cost irlandese, gestita dal geniale quanto bizzarro Michael O’Leary, ha annunciato la prossima installazione di sgabelli a bordo dei propri aerei, che consentiranno ai passeggeri che per tale soluzione opteranno di viaggiare in piedi a costo irrisorio. L’innovazione, - che registra lo scetticismo delle autorità aeronautiche comunitarie, - sarà realizzata con la rimozione di alcune file di sedili posteriori, oltre che di una toilette, e dovrebbe permettere l’incremento dell’offerta di posti a bordo.
Ancorché balzana, l’idea se per certi versi fa sorride, visto che non si riesce ad immaginare un aereo come un qualunque vagone di metropolitana, con passeggeri pigiati e appesi ad un maniglione pendente da un corrimano, per altri versi stizzisce un po’, se si pensa che parte dei posti in questione saranno realizzati con la soppressione della toilette, che a partire da quel momento potrà essere fruita solo a pagamento.
Premesso che Ryanair non è nuova all’invenzione di soluzioni discutibili sul piano della funzionalità dei servizi e sul rispetto dei bisogni più elementari dei passeggeri, - storica la decisone di non imbarcare sui propri aeromobili i disabili perché bisognosi di un’assistenza non prevista dalla sua carta dei servizi, cassata dopo anni di durissimi scontri con ordinanza comunitaria, - includere l’uso della toilette nella politica dei “no frills” sembra francamente azzardato.
Mentre è comprensibile che la scelta di portarsi dietro un bagaglio voluminoso o pesante rientri tra le facoltà del passeggero, che potrà preventivamente decidere il contenuto e la dimensione della valigia prima di intraprendere il viaggio, avvalendosi della possibilità di pagare un sovrapprezzo, non altrettanto comprensibile sembra la decisone di imporre una “crap tax” o una “piss fee” , - per dirla all’inglese, - a tutti coloro che dovessero avvertire un bisogno corporale irrefrenabile, la cui soddisfazione non è certo programmabile prima di intraprendere il viaggio.
Certo, non può escludersi la nascita di un fiorente business presso i tabaccai siti negli scali praticati da Ryanair, rappresentato da pappagalli e padelle, nonché sacchetti a conformazione glutea, in grado di sopperire con furbesco fai da te alla gabella imposta dalla compagnia, possibilmente venduti ad un prezzo competitivo rispetto all’euro programmato dai sagaci responsabili marketing di O’Leary. C’è tuttavia da credere che la genialità della compagnia sarebbe in grado d’inventarsi in questo caso un’altra diavoleria, magari sotto forma di tassa sullo smaltimento di quei rifiuti organici.
La verità è che da quando s’è aperta la guerra delle tariffe, nel trasporto aereo succede di tutto e questa ipotesi idiota di Ryanair non è che l’ultima boutade in un mercato che al punto in cui è arrivato non più possibile pensare solo alla sicurezza, ma è necessario cominciare ad affrontare anche aspetti che ledono la dignità personale, la cui omissione favorisce ignobili speculazioni. Per fare un esempio, se è comprensibile per ragioni di sicurezza il divieto di portare a bordo liquidi, non è ammissibile consentire alle compagnie di taglieggiare i passeggeri per un bicchiere d’acqua. Delle due, l’una: o l’acqua viene distribuita gratuitamente su semplice richiesta o si consente di imbarcare la classica bottiglia, al più sigillata, per poter soddisfare un eventuale bisogno durante il volo. E chi sostiene che ciò è già consentito fa questa affermazione in palese malafede, dato che 33 cl d’acqua (quota ammessa) non sono certamente sufficienti a soddisfare il fabbisogno per un volo che può durare anche 14/15 ore.
In ogni caso, se queste iniziative di Ryanair, - che se non stoppate per tempo rischiano di fare proseliti, - dovessero prender piede, a quando la prossima iniziativa di fantozziana memoria di far spingere l’aereo ai passeggeri per risparmiare sui costi del carburante in fase di decollo? Anche questa potrebbe essere un’idea da non trascurare, così come se i passeggeri fossero obbligati a soffiare in apposite cannucce connesse con il sistema d’alimentazione dei motori dell’aereo per tutta la durata del volo i costi di crociera si ridurrebbero al minimo e l’aereo potrebbe finalmente assumere lo stesso ruolo di un mezzo di trasporto urbano a tariffe equivalenti.
Confessiamo di non aver mai volato con la compagnia in questione, non solo perché non si è mai presentata l’occasione, ma forse per una sorta di preconcetta antipatia per i metodi, - disgraziatamente emulati da altre compagnie, - a metà strada tra il ridicolo e il brutale che adotta nei confronti dei suoi malcapitati utenti (limitazioni di bagaglio al seguito, limitatezza dei servizi, sovrapprezzo ticketing per pagamenti on line, costi supplementari per assicurazioni, decentralità degli scali serviti, ecc.), ma in occasione dell’introduzione di un eventuale “piss fee” non escluderemmo di farlo, magari per il solo gusto di farla sulla moquette e, per dirla alla Jannacci, vedere di nascosto l’effetto che fa.

giovedì, luglio 01, 2010

Governo bugiardo servo della Lega


Giovedì, 1 luglio 2010
Sfacciati, arroganti, supponenti, bugiardi. Sono solo alcuni degli aggettivi qualificativi tra le decine possibili utilizzabili per definire l’armata sgangherata di Berlusconi, quello del “non metteremo mai le mani nelle tasche degli Italiani” con aumenti di tasse, ma che giorno dopo giorno perpetra scippi allucinanti ai loro danni.
Dopo aver acceso una guerra non ancora conclusa con Regioni ed enti locali per i tagli programmati con il provvedimento Tremonti, ancora in corso di acceso confronto in parlamento, tagli che mettono in ginocchio le capacità gestionali dell’apparato pubblico decentrato, ecco la nuova alzata d’ingegno del consiglio dei ministri, - ma sarebbe il caso di parlare di minestrone, vista l’incapacità di varare provvedimenti che non somiglino a maleodoranti resti di cavoli sommati ad ingiallite foglie di lattuga e piccioli di zucchine, - che ha deciso per far cassa di imporre il pedaggio su alcuni tratti stradali ai quali riconoscere questo nome è semplicemente sbalorditivo.
Il provvedimento sconta anche l’aumento generalizzato dei pedaggi su tutta la rete autostradale esistente, il cui introito andrà interamente all’ANAS per finanziare l’incremento di dotazioni richiesto e necessario per le opere di manutenzione e ammodernamento previste. E fin qui non ci sarebbe molto da dire, a parte le ovvie considerazioni sugli effetti inflazionistici di un rincaro che, automaticamente, si trasferirà sul costo finale di moltissimi prezzi al consumo di beni in larga parte di prima necessità, considerato che il trasporto merci nel Paese avviene prevalentemente su gomma.
Ciò che non è affatto concepibile è la decisione di gravare di pedaggio alcuni tratti extraurbani, come il GRA di Roma o la tangenziale di Torino, - peraltro forieri di un allargamento del provvedimento ad altri tratti tangenziali a centri urbani fortemente congestionati da traffico automobilistico, - che per la natura del servizio che rendono o per la fisionomia della loro strutturazione dovrebbero, al contrario, prevedere un premio a favore di chi vi si deve avventurare non avendo alcun altra alternativa.
E che la decisione assunta sia del tutto priva di minimo buon senso è nell’evidenza delle condizioni disastrose in cui versa, per esempio, la sedicente autostrada Catania-Palermo, che ha più le sembianze di una sconcia mulattiera che non di un’arteria meritevole del pomposo nome affibbiatole. Né fa accezione a questa considerazione la Salerno-Reggio Calabria, i cui eterni lavori d’ammodernamento hanno prodotto miglioramenti solo marginali, sicuramente non meritevoli da giustificare un pedaggio. In fine, non diverse sono le considerazioni opponibili ad un transito a pagamento sul GRA di Roma, divenuto oramai a tutti gli effetti un tratto di percorrenza urbana con una congestione di traffico, che nelle ore di punta definire disastrose equivale a minimizzarne la reale immagine apocalittica. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, consapevole di quanto la decisione del pedaggio sia una corbelleria bell’e buona, ha già dichiarato che fosse messo un casello per l’esazione non esiterebbe a sfondarlo con la propria auto.
Ma se questo non fosse di per sé sufficiente a bollare di miopia opportunistica il provvedimento, allora è doveroso richiamare i principi che dovrebbero essere alla base di un sistema che prevede il transito a pagamento su particolari strade. Il primo elemento deve essere individuato nell’alternatività dell’arteria sottoposta a pedaggio rispetto alla rete stradale ordinaria. Il secondo dovrebbe essere costituito dalla sussistenza di servizi qualificanti, come qualità del manto stradale, aree di servizio, corsie d’emergenza, aree di sosta, netta separazione in senso di marcia delle carreggiate, recinzione del tracciato, ecc., la cui manutenzione richiede un costo aggiuntivo, giustamente da scaricare in qualche misura sull’utenza. La caratteristica di queste vie di comunicazione, comunque, sta nell’opzione lasciata all’utente di servirsene o meno, senza per questo vedere menomato il proprio diritto alla mobilità in modo talmente grave da non lasciargli alternativa. Infine, se in epoche di attenzione al risparmio energetico e alle problematiche di inquinamento ambientale, deve giustamente essere disincentivato l’uso dell’auto privata, è necessario che ai percorsi stradali siano affiancati efficienti servizi di trasporto pubblico, ferroviario e pullman, offerti peraltro anche a tariffe competitive.
A ben esaminare, di tutto ciò che prima è stato detto nulla è presente sia in Calabria che in Sicilia. La statale tirrenica, la SS18, è in realtà uno stretto budello che costeggia il mare e che da Napoli conduce a Reggio Calabria con centinaia di attraversamenti di paesi e frazioni. Questa strada, sebbene teoricamente più breve del percorso autostradale, - che com’è noto si addentra nel territorio calabrese scalando le montagne, - non può considerarsi in alcun modo un’alternativa alla disastrata A3. Allo stesso modo, i servizi ferroviari di collegamento nord-sud sono in uno stato di abbandono tale non costituire una surroga all’uso del mezzo privato su gomma.
Ad osservare la situazione siciliana il discorso è addirittura peggiore, visto che per ferrovia da Catania a Palermo sono richieste quasi cinque ore di percorrenza, mentre la percorrenza della statale 121 consiglia ancora oggi la stesura preventiva di testamento, - come scherzosamente asseriva negli anni ’60 un camionista, - dato che sono note la data e l’ora di partenza da uno dei due capoluoghi, ma è impossibile preventivarne quelle d’arrivo. La A19, fregiata dell’appellativo di autostrada, richiede per contro un tempo di percorrenza di almeno 2 ore e mezza abbondanti, sempre di non incappare in uno degli innumerevoli cantieri che restringono le carreggiate e costringono a file interminabili.
In questa situazione, - peraltro ostinatamente omessa da ogni valutazione da parte di chi assume provvedimenti come quelli in questione, - parlare di pedaggi è cervellotico per non dire scellerato e non può che costituire un elemento di potenziale regresso per le già disagiata zone interne delle due regioni.
Ovviamente, nei calcoli cinici di chi ha immaginato l’imposizione del pedaggio v’è la convinzione che saranno in pochi coloro che vorranno rinunciare per qualche spicciolo all’utilizzo di vie di comunicazioni comunque senza alternativa, con indubbi benefici per le casse di chi amministra i tratti in questione e un salasso insostenibile per i pendolari che giornalmente sono obbligati a raggiungere luoghi di lavoro e studio.
E se questo non è uno stratagemma per mettere le mani in tasca ai cittadini, peraltro quelli meno abbienti, considerata la popolazione di riferimento che più soffrirà la gabella, di cos’altro si tratta? Ma questo non era il governo che nel suo programma elettorale aveva persino previsto l’abolizione della già odiosa tassa di circolazione, nota come bollo auto o tassa di proprietà? Dato che questa voce d’entrata non sarà mai abolita perché non si pensa ad un suo inasprimento per colpire coloro che possiedono ingombranti SUV e fuoristrada dal costo d’acquisto di decine di migliaia di euro da devolvere all’affamata ANAS? Perché non si pensa ad un provvedimento come quello della più civile Svizzera che prevede un bollino annuo a pagamento che permette la libera circolazione su tutte le autostrade dello stato?
La verità è che se questo è ciò che qualche sconsiderato in camicia verde intende come primo passo del tanto decantato federalismo fiscale, forte del fatto che la Lombardia o il Veneto non hanno certo i problemi infrastrutturali presenti nel Mezzogiorno d’Italia, allora sarà il caso che getti la maschera e dica chiaramente che il suo concetto di Paese si ferma sulle rive del Po. Ma parimenti abbia almeno la dignità di non farsi usbergo delle menzogne di un premier screditato, che da una parte blandisce con false promesse e poi avalla la man bassa che si fa nel portafoglio dei cittadini con metodi molto più discutibili di quanto la chiarezza e l’onestà renderebbe inevitabili.

(nella foto, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno
)