martedì, luglio 26, 2011

L’ipocrisia dei formalismi

Martedì, 26 luglio 2011
Viviamo in tempi di crisi planetaria, che non è solo di natura economica, ma, ahimè, anche culturale e di valori. Che sia il trascorso benessere e, dunque, una certa mollezza dei costumi ad aver lasciato in eredità una riforma dell’etica comune, non è di per sé rilevante: certi processi umani di portata collettiva non sono soggetti a mutamento correttivo coercitivo - e, dunque, non è agevole pensare di recuperare in qualche modo. Rappresentano semmai un’evoluzione della modalità interattiva del vivere comune, dei processi relazionali tra gli individui, tendenti, in fondo, a semplificare i rapporti interpersonali, attraverso un adattamento alle necessità di meccanismi di vita che spingono all’essenzialità, alla velocizzazione dei messaggi, a scambi che puntano “al sodo” delle ragioni per le quali i rapporti di comunicazione si motivano.
Quest’ambiente interelazionale umano, naturalmente, nel suo esplicitarsi non è esente da distorsioni plateali, in quanto le variabili che entrano i gioco – livello personale di educazione, cultura, modelli comportamentali dei piccoli gruppi, radicazione dei sistemi di valori individuali, in altri termini ciò che i sociologi definiscono sottocultura – in un mondo decisamente più aperto e più trasversale, finiscono per influenzare, come schegge impazzite che si muovono in tutte le direzioni, i rapporti tra gli individui, con il risultato di scardinare le regole in essere e determinare una sorta di caos nel quale è abbattuto ogni formalismo.
E’ un esempio di questo processo inarrestabile il continuo mutamento del linguaggio dei giovani, sempre più teso alla creazioni di neologismi sparagnini per definire cose, comportamenti e situazioni, che nel linguaggio convenzionale hanno molto spesso necessità di ricorrere a perifrasi o descrizioni elaborate, per questa ragione meno immediate e incisive, e che sovente dopo un periodo di rodaggio finiscono per divenire patrimonio generale e arricchimento delle lingua.
Di questa trasformazione fa parte la prorompente diffusione del tu nella gestione dei rapporti interpersonali anche tra sconosciuti, diffusione che ha soppiantato l’anacronistico voi e il codificato lei quale pronome di cortesia verso soggetti ai quali è dovuto un senso di rispetto spesso solo formale.
Beppe Severgnini e Vittorio Messori, entrambi giornalisti del Corriere della Sera, da tempo hanno intrapreso una sorta di battaglia contro quello che, a loro avviso, costituisce un «fastidio per l’insopportabile dilagare del "tu" sempre e comunque», che nella loro interpretazione assumerebbe un significato «prepotente e confidenziale».
La questione, per quanto apparentemente accademica, non è di secondaria importanza, poiché al dibattito soggiace una concezione dei rapporti umani non solo improntati ad un formalismo assai dubbio, ma ad un concetto di rispetto dell’altrui persona che, a ben analizzare, risiede più in un fatto di forma che di sostanza.
Prescindendo da ciò che sono i protocolli e le etichette di natura squisitamente ufficiale, dove il lei assume un significato non tanto di ostentato rispetto, quanto di implicito riconoscimento del ruolo esercitato dall’interlocutore – si pensi ai rapporti diplomatici e di natura istituzionale – non v’è alcun dubbio che nella vita quotidiana non è certo l’utilizzo di una forma pronominale più diretta che rivela il rispetto verso l’interlocutore. La prassi politica dell’ultimo quindicennio, improntata ad ogni sorta d’insulto e di vilipendio dell’avversario vero e presunto, è una conferma che il lei è una modalità assolutamente priva di ogni congiunzione con il rispetto dell’interlocutore. Semmai è forma attraverso la quale marcare ulteriormente le distanze ed esprimere il proprio disprezzo verso un soggetto nei confronti del quale non si nutre alcuna stima, sino a configurare una sorta di ipocrita simulazione di considerazione, tradita dal contenuto stesso del processo d’interazione verbale.
Ciò non significa che, sull’altro versante, non si configurino abusi altrettanto deprecabili. Il tu rivolto a soggetti ritenuti implicitamente inferiori, come gli immigrati o le persone in qualche maniera umili o collaboratori e dipendenti, è altrettanto spia di un malessere culturale che non trova giustificazione alcuna.
Né la difesa del tu può intendersi quale manifestazione di ideologie fraternizzanti e anticlassiste, come vorrebbe insinuare Messori, il quale sostiene che «chi è ancora impregnato di spirito sessantottardo replicherà che questo fa parte del classismo da abbattere per una società più giusta». E’ semmai vero che l’utilizzo di forme decisamente più “confidenziali” come il tu tendono a rendere i rapporti tra gli individui più egualitari e meno “sovrastrutturati”, visto che non è certo l’impiego di un pronome che determina la “rilevanza” sociale di un soggetto nei confronti di un altro. Così appare del tutto spropositato e fuorviante che Missori, nel tentativo di conferire ancore più spessore alla sua teoria, arrivi persino a sostenere che l’impiego di forme pronominali informali rappresenti una sorta di nostalgia totalitaria: «Ogni totalitarismo impone la «fraternità» a colpi di «tu» obbligatorio. Dunque, non è questione solo di gusti o di galateo: l’impegno per salvare il «lei» (o, per chi preferisca, come al Sud, il «voi») è forse un piccolo ma significativo impegno per la libertà». Questo abbarbicarsi a forme in via d’estinzione per rivolgersi al proprio interlocutore rivelano, piuttosto, un’intrinseca debolezza dell’autostima, ben foraggiata da un lei senza significato e contenuto.
Evidentemente in questa società a corto di valori e in drammatico calo di rispetto, quello vero, verso il prossimo, qualcuno è convinto che la salvezza sia da ricercare nella riedizione della distanza formale: certamente sarà più rispettoso affermare “lei è un cornuto!”, piuttosto che a quel cornuto premettere un irriverente tu.

(nella foto, Beppe Severgnini, giornalista del Corriere della Sera e promotore della campagna per il recupero del lei)

lunedì, luglio 25, 2011

Questione etica: ma ne esiste una nel PdL?

Lunedì, 25 luglio 2011
Finalmente c’è qualcuno che confessa il proprio disagio, l’imbarazzo di sedere in un partito che ha fatto carta straccia del senso dell’equità e dell’interpretazione dei bisogni dei cittadini, della speranza e della fiducia che i cittadini riversano nella parte politica che hanno scelto. Insomma, un crollo verticale del senso etico che unisce elettore ed eletto e che rappresenta il punto di congiunzione tra il paese reale e quello legale.
A parlarne e ad ammettere questo grave scollamento è Letizia Moratti, ex sindaco di Milano, battuta alle recenti elezioni amministrativa da Domenico Pisapia poco meno di due mesi or sono e oggi in piena crisi di identità con gli amici di partito, quel PdL che, pur di minimizzare la batosta elettorale, non ha esitato ad addossarle ogni responsabilità della débâcle.
Eppure Letizia Moratti, nel fare le sue valutazioni, non riprende i temi di una campagna elettorale disastrosa, ma fa riferimento alle scelte improvvide del governo delle ultime settimane, quelle scelte che, a suo giudizio, non fanno che confermare come il PdL e il suo alleato, la Lega di Bossi, abbiano smarrito del tutto il senso etico della buona amministrazione e delle giustizia sociale. Così ce n’è per tutti. Per Tremonti, autore di una manovra rigorosa e che ha sì ricevuto l’approvazione della UE «Ma non risponde alla domanda, che sale dal Paese, di una nuova etica politica. Non si possono chiedere ai cittadini sacrifici durissimi, senza fare sacrifici a propria volta. Non si possono tassare i pensionati, senza tagliare i costi della politica: gli emolumenti dei parlamentari, ma soprattutto le inefficienze della macchina amministrativa dello Stato, che costituiscono il maggior impedimento allo sviluppo del Paese.» - afferma Moratti senza mezzi termini e puntando dritta al cuore della questione - «Questo mi induce oggi a riflettere sulla scelta che ho fatto due anni fa di entrare nel Pdl. Avverto un disagio profondo: non so più se la mia idea di politica, di una politica eticamente fondata, corrisponda ancora alla politica che pare aver smarrito il significato vero di servizio ai cittadini».
Quello di Letizia Moratti è uno sfogo, ma allo steso tempo un accorato appello ad un partito che sembra definitivamente sprofondato nella logica di un conservatorismo utilitaristico, «nella tenaglia tra una politica egoista, che difende privilegi e poteri, e una politica demagogica che cavalca il vento dell'opinione pubblica ma non affronta i nodi del sistema», e che coinvolge con diverse responsabilità tutto il quadro politico nazionale, da destra a sinistra.
Un’evidenza di questa generalizzata caduta di valori è nelle scelte opportunistiche di un parlamento che ha smarrito persino il senso il senso della logica: «Per chiedere i sacrifici ai cittadini occorrono consenso e credibilità. Rinviando i tagli della politica, non si hanno né l'uno, né l'altra. Se anche tutti i parlamentari si riducessero lo stipendio del 10 per cento, avvicinandosi alle medie europee, sarebbe un fatto poco più che simbolico. Bisogna agire su proposte di riforma molto più forti, che devono essere realizzate subito. La drastica riduzione, se non abolizione, delle Province, difese anche dal Pd, affezionato a privilegi e clientele. Il rilancio del progetto delle città metropolitane, cui all'Anci avevamo lavorato con il ministro Maroni. Il federalismo fiscale, con il meccanismo del fabbisogno standard, che introdurrebbe principi di maggiore qualità e minori costi nei servizi ai cittadini. Sulla sussidiarietà, sul trasferimento di funzioni ai privati, lavorano il governo britannico, quello tedesco, persino Obama. E il nostro? Tra il '92 e il 2000, con i governi Amato, Ciampi, Prodi, D'Alema, i costi della macchina amministrativa erano scesi di due punti di Pil. Segno che riformare è possibile».
Ma dove il governo attuale e la sua coalizione sembrano aver smarrito ogni senso di etica sociale è nella questione morale, che da sempre è uno dei problemi più gravi della nostra democrazia, un fattore che appare sempre più endemico alla natura della politica italiana e che sembra sempre più difficile sradicare.
Alfano, nominato qualche settimana fa segretario del partito, ha parlato al momento della sua investitura di “partito degli onesti”, dando per implicita la necessità di procedere con un opera di profonda pulizia nei gangli del PdL, quantunque l’operazione più che difficoltosa appaia quasi disperata: chi mai avrà la forza politica di liberarsi di fardelli come Cosentino, Verdini, Dell’Utri, per non parlare degli inquisiti dell’ultim’ora come Milanese o Papa o lo stesso premier, che sino ad oggi ha ritenuto di poter esorcizzare con l’opinione pubblica i suoi guai giudiziari gridando costantemente all’assalto di fantomatiche toghe rosse a suo danno? A questo proposito proprio l’atteggiamento tenuto nei confronti di Papa in parlamento, nella seduta per deliberarne l’arresto richiesto dai magistrati, è la prova provata dell’inestricabile e insanabile dicotomia tra il predicare e il razzolare radicata nel partito e che costituisce un ostacolo inespugnabile verso la rifondazione etica e morale del PdL.
Ma di questo Letizia Moratti non parla. Anzi, si guarda bene dall’esprimere un giudizio che, ancorché impegnativo sul piano politico, potrebbe rappresentare il check-out da una formazione che, per scelta del suo leader, è interamente sbilanciata in attacchi senza quartiere alla legalità ed alle istituzioni che la rappresentano e ne difendono le fondamenta. Così è stato per Gianfranco Fini, che in quanto a peso all’interno del PdL ha avuto un ruolo ben più rilevante di quello di Moratti. Dunque, astenersi da giudizi sgradevoli alla leadership o dall’assumere posizioni nette è un elemento di cautela: «Sarebbe ingiusto, prematuro, non corretto dare giudizi su chi si accinge a operare in un ruolo delicato. Massima apertura e rispetto. Ma il Pdl deve tornare alle radici. Alle forze del Partito popolare europeo. All'idea di libertà, di responsabilità individuale. Io seguirò con attenzione il nuovo cammino del partito. E ne trarrò le conseguenze».
Ma parlare di etica al PdL si ha l’impressione che equivalga al bestemmiare in chiesa. Questo è, infatti, ciò che emerge dalle dichiarazioni dei vari notabili del partito, evidentemente stizziti dalle dichiarazioni “coraggiose” di Moratti. «Sostituiremo il nome del gruppo Pdl per Letizia Moratti in Pdl», afferma Carlo Masseroli, capogruppo del partito di Berlusconi in Consiglio comunale, a cui fa eco Maurizio Lupi: «Il primo senso etico della politica è comprendere che bisogna lavorare al servizio del bene comune e assumersi in prima persona le proprie responsabilità. Oggi, la vera sfida è, partendo dalla sconfitta elettorale, di assumersi le proprie responsabilità e testimoniare che nel Pdl una politica del genere si può realizzare», che poi conclude: «Non è giusto mettersi fuori dal gioco, sfruttando il vento dell'antipolitica e facendo l'allenatore della Nazionale. Alla Moratti faccio un invito: si sporchi le mani insieme a noi. Lei ha capito benissimo quanti errori si possono fare governando. La stessa cosa accade nel governo nazionale. E quindi la sua esperienza è utile al Pdl. La forza dei nostri valori non viene messa in discussione. Gli errori servono per correggersi, anche se si perde una città come Milano». Aggiunge Giulio Gallera, consigliere del Pdl in consiglio comunale: «Stupisce la presa di distanze dal Pdl. Soprattutto accomunare nel bene e nel male governi di centrodestra e centrosinistra. Il Pdl è l'unica forza che ha fatto delle vere riforme. Sono d'accordo invece sul fatto che sia mancato del coraggio in questa manovra. Ci aspettavamo delle misure diverse». Come dire che non esiste apoditticamente una questione etica o morale quando si osano declamare le qualità del nemico. Amen!

martedì, luglio 19, 2011

Servitori dello stato o della casta?

Martedì, 19 luglio 2011
Come i lupi perdono il pelo ma non il vizio. L’ipocrisia del potere non ha limite e così la casta continua imperterrita ad ostentare i propri privilegi, incurante dello sdegno popolare montante e della rabbia che giorno dopo giorno assale i cittadini sempre più vessati.
Il sepolcro imbiancato di turno è questa volta niente meno che Giuseppe Pisanu, presidente della commissione parlamentare Antimafia, che venerdì 15 decide di tornare da Roma nella sua Sardegna, a bordo di un volo di linea per Alghero.
L’onorevole viaggia in compagnia della moglie ed è seduto nelle prime file e, all’atterraggio dell’aereo, il comandante del volo blocca i passeggeri, in attesa che la scorta di Pisanu salga a bordo a prendergli il bagaglio a mano, una piccola borsa e uno zainetto, evidentemente troppo pesanti per le braccia del parlamentare. Sulla pista ad attendere Pisanu alcuni ufficiali dei carabinieri in alta uniforme, più altri militari e poliziotti. In tutto almeno una decina di persone. Un’accoglienza da visita di Stato: peccato che l’onorevole Pisanu non fosse in visita ufficiale. Stava semplicemente rientrando a casa, un viaggio privato, con moglie al seguito, come migliaia di cittadini.
Fin qui la cronaca, il racconto che TGCOM fa della vicenda, ponendosi il giusto interrogativo se la visita privata di un parlamentare, per quanto con un ruolo di un certo peso, giustifichi la necessità di schierare un drappello di militari delle forze dell’ordine in alta uniforme e se i costi di quest’accoglienza, ovviamente a carico della collettività, siano ammissibili con le naturali esigenze di sicurezza da garantire ad un rappresentante delle istituzioni. «Il fatto che proprio quel giorno fosse entrata in vigore la manovra finanziaria che ha chiesto lacrime e sangue ai cittadini, lasciando inalterati i privilegi della casta, ha reso per i passeggeri del volo Roma-Alghero ancora più insopportabile la vista degli alti ufficiali, delle loro decorazioni e della scorta dedita a reggere la borsa alla moglie di Pisanu.» - sottolinea impietosamente TGCOM - «Sull’aereo molti leggevano i giornali cercando di capire quanto sarebbero costate alle loro tasche le misure appena approvate. E forse per questo qualcuno non s’è trattenuto dal gridare un “si vergogni”, mentre l’onorevole Pisanu se ne andava via con il costoso seguito e la gentile consorte, per ironia della sorte avvolta in una pashmina tricolore. Povera Italia.»
L’onorevole Pisanu ha comunque sentito il dovere di replicare alla denuncia del TGCOM con una nota che, nella sostanza, nulla toglie all’inopportunità di allestire uno spettacolo così poco edificante in occasione di un viaggio privato: «In relazione alla notizia data dal TGCOM alle ore 11.44 di oggi, desidero precisare quanto segue: per ragioni di salute mancavo dalla Sardegna da oltre un mese. Al mio arrivo venerdì scorso sul volo di linea, sono venuti a salutarmi, certamente di loro spontanea volontà, alcuni componenti delle forze dell’ordine. Chi mi conosce sa che con loro intrattengo rapporti eccellenti. Quanto alla mia sobrietà basta guardare l’attività della Commissione Antimafia che ho l’onore di presiedere: si vedrà facilmente che c’è più lavoro e meno spese, compreso l’azzeramento di quelle di rappresentanza».
E che l’onorevole Pisanu ci faccia così fessi da non doverci chiedere se i componenti delle forse dell’ordine venuti di loro “spontanea volontà” abbiano sentito il dovere di richiedere un permesso sul lavoro ai rispettivi superiori, pagando quindi di tasca loro il simpatico gesto di affettuosa accoglienza, è francamente cosa che ci indigna ancor di più. Né, tantomeno, rileva che il politico sardo precisi che con loro intrattenga “rapporti eccellenti”, tali da giustificare l’evidente e indebito utilizzo del tempo, regolarmente retribuito per dare la caccia ai malfattori, per allestire un comitato di ricevimento.
Evidentemente e al di là della comprensibile gratificazione per una concreta prova d’affetto dimostratagli da amici e conoscenti, Pisanu sottovaluta che, agli occhi del contribuente che paga, quei militari sono primariamente al servizio dello stato e non a quello del potere: se così non fosse chiunque avrebbe il diritto di chiedere al poliziotto o al carabiniere di turno, presente in tutti gli aeroporti della Penisola, di trasportargli il bagaglio o d’organizzargli un comitato di ricevimento per ogni viaggio che effettua. Infine, non interessa affatto che il nostro parlamentare, presidente dell’Antimafia, abbia ridotto le spese in budget alla sua commissione, non fosse perché questo era suo dovere da tempo, sussistendone le condizioni, e considerando che non si può arrogantemente chiedere solo ai cittadini di tirare la cinghia e dal proprio lato continuare imperterriti a scialacquare come se niente fosse.
La verità triste è che tutti son pronti a gridare alla necessità di imporre sacrifici agli altri e trovano sempre la giustificazione per il mantenimento della propria condizione di privilegio, anche la più smaccata e ingiustificabile.
Sul fronte opposto, non c’è certo da stupirsi se l’imbarbarimento della cultura e dei valori, peraltro avvenuto in un terreno di coltura assai prolifico nel nostro Paese, abbia consacrato la convinzione che certi funzionari pubblici nello svolgimento dei loro compiti siano più al servizio del potere che a quello dello stato.

(nella foto, Beppe Pisanu, presidente della cossissione Antimafia)

domenica, luglio 17, 2011

Casta ignobile nemica del popolo

Domenica, 17 luglio 2011
Scrivono gli storici: “Durante i regni di Luigi XV e Luigi XVI (tra l’inizio e la fine del 1700, ndr) diversi ministri, Jacques Necker in primis, cercarono di risanare la situazione economica della Francia. Essi si dedicarono principalmente alla modifica del sistema tributario, in modo da renderlo più equo ed uniforme, ma non vi riuscirono, in quanto tali iniziative incontrarono una forte opposizione da parte di nobiltà e clero. Il 19 febbraio 1781 Necker rese pubblico il bilancio dello Stato, il quale percepiva 503 milioni di livre (moneta francese sino al 1795, ndr) di entrate contro 629 milioni di spese; il debito pubblico ammontava a 318 milioni, l'equivalente alla metà delle spese. Un dato che scandalizzò fortemente l'opinione pubblica fu la spesa personale sostenuta dalla corte, pari a 38 milioni per feste ed appannaggi per i cortigiani – nobili e clero rappresentavano al tempo appena il 2% della popolazione transalpina - in un periodo di fame e miseria per la quasi totalità della popolazione francese. Charles Alexandre de Calonne, ministro delle Finanze dal 1783, intraprese una politica volta a convincere i potenziali creditori che la Francia godeva di un'ottima solidità finanziaria. Nel breve termine sperava in una dimostrazione di supporto da parte dell'Assemblea dei Notabili, che avrebbe permesso di ottenere dei prestiti con cui far fronte alle spese. In seguito, con uno studio dettagliato della situazione finanziaria, si rese conto che la sua politica economica non era sostenibile e indicò il bisogno di fare delle importanti riforme. In particolare propose un codice tributario uniforme per le proprietà terriere, con il quale tutti sarebbero stati tassati senza eccezioni, nobiltà e clero compresi. Quando Calonne, il 22 febbraio 1787, espose la necessità di attuare la riforma proposta, l'Assemblea dei Notabili, formata principalmente da una nobiltà benestante non intenzionati a pagare nuove imposte, rifiutò di accettare le sue soluzioni. Nel frattempo le finanze francesi erano alla bancarotta: i prestiti ammontavano a 1.646 milioni di livre e c'era un deficit annuale di 46 milioni.
Luigi XVI, capendo che Calonne non era in grado di gestire la situazione, il 1º maggio 1787 lo sostituì con il suo principale critico, il presidente dell'Assemblea dei Notabili e leader dell'opposizione, Étienne-Charles de Loménie de Brienne, arcivescovo di Tolosa. Brienne tentò di far approvare le riforme proposte da Calonne, ma queste incontrarono nuovamente una forte opposizione soprattutto dal Parlamento di Parigi (organo giudiziario con funzioni di controllo sulla legittimità degli atti ma privo di funzioni politiche). Successivi tentativi di modifica al sistema tributario provocarono un'ulteriore massiccia resistenza dei gruppi benestanti, che portò al ritiro dei prestiti di breve durata. In quel momento questi prestiti davano ossigeno e vita all'economia dello Stato francese ed il loro venir meno provocò una situazione di bancarotta nazionale.
Si cominciava a diffondere l'idea che solo un organo rappresentativo di tutta la Nazione, come gli Stati Generali, avrebbe potuto votare l'applicazione di nuove riforme. Il 18 dicembre 1787 Luigi XVI promise di convocarli entro cinque anni.
Nel maggio del 1788 a Grenoble le proteste delle famiglie, toccate profondamente dalla crisi economica, aumentarono notevolmente. L'esercito fu obbligato ad intervenire il 7 giugno, venendo accolto da tegole lanciate dai cittadini saliti sui tetti. Conseguentemente a questo avvenimento, il 21 luglio un'assemblea formata da nobiltà, clero e terzo stato si riunì al Castello di Vizille (vicino a Grenoble), dove decise di mettere in atto lo sciopero delle imposte. Incapace di ristabilire l'ordine, Luigi XVI l'8 agosto annunciò la convocazione degli Stati Generali per l’anno successivo, il 5 maggio 1789. Il 25 agosto Brienne rinunciò all'incarico di Ministro delle Finanze e al suo posto venne richiamato Necker.
La convocazione degli Stati Generali non produsse alcun effetto nella risoluzione dei problemi della Francia. Anzi quella riunione fu l’inizio della fine della monarchia assoluta: il 14 luglio 1789 dopo alcune settimane di disordini montanti, scoppiò un’insurrezione che, nel tentativo di procurare armi alla popolazione scesa per le strade, portò alla presa della Bastiglia, ritenuto il luogo in cui sarebbe stato possibile rifornirsi anche di munizioni”.
Questi avvenimenti, noti a universalmente, per quanto lontani nel tempo sembrano oggi ritornati di drammatica attualità. Basti pensare alla situazione di dell’Italia e delle recentissime misura assunte dalla maggioranza di centro-destra. Un Italia stremata da una crisi apparentemente irrisolvibile e da una casta politica che per mitigare gli effetti di quella crisi non trova di meglio che surclassare di tasse, gabelle, imposte, accise, ticket e quant’altro di vessatorio è immaginabile una popolazione trascinata da disoccupazione, inflazione e oneri allucinanti in uno stato d’indigenza senza precedenti.
Tutto questo nell’indifferenza più assoluta di una banda di ignobili politicanti che, come la nobiltà ai tempi di Luigi XVI, pensa solo a scaricare il costo della crisi senza ammettere un solo sacrificio per se stessa, una qualche piccola rinuncia ai mille privilegi che possa dare al popolo il segno che nell’ora dell’emergenza tutti concorrono al risanamento dello stato.
Davanti a tanto disprezzo per i cittadini c’è da sperare che presto si prenda coscienza di uno stato di cose giunto ormai ad un livello insopportabile, che deve condurre senza indugio a liberarsi con ogni mezzo di queste orride mignatte che succhiano il sangue della gente senza tregua e senza pietà, abbandonandosi ad ogni ignobile misfatto pur di appagare i propri desideri e garantire la propria posizione di privilegio.
Non può più consentirsi nella nostra epoca la perpetuazione di sistemi che consentono a pochi di vivere nell’agio e nella mollezza garantita e a tantissimi di non arrivare a fine mese. Una classe politica che assume assurdi comportamenti di questa natura è nemica del popolo è va azzerata con qualunque mezzo.

(nella foto, immagini dei disordini scoppiati in Grecia in seguito ai provvedimenti anticrisi assunti dal governo)

martedì, luglio 12, 2011

I signor “nessuno” e la deriva del potere

Martedì, 12 luglio 2011
Perdere, per un uomo che è persino avvezzo a truccare le carte pur di vincere, non è cosa facile da digerire. E che in questa sconfitta, peraltro milionaria, abbia scatenato la solita muta di quadrupedi feroci e sanguinari per attaccare i giudici e la sentenza di condanna che ai danni di Berlusconi hanno emesso è cosa del tutto comprensibile per quanto non giustificabile. 560 milioni di euro sono tanti e rischierebbero di compromettere la stabilità di qualunque azienda florida e di grandi dimensioni. Ma non si può trascurare che il condannato è il presidente del consiglio, quindi un soggetto che dovrebbe brillare per rispetto delle istituzioni e delle loro volontà e che la condanna arriva a ragione ad oltre vent’anni dalla consumazione di un reato di corruzione conclamata che non può essere bonificato a nessuno.
Ma il nostro personaggio ci ha abituato, anche se non piegato, ad un comportamento al di fuori dalla regole. Anzi, è il personaggio in sé che è da sempre al di fuori da ogni regola, se non quella che ha arrogantemente imposto alla comunità per salvaguardare esclusivamente gli sporchi interessi personali e quelli della sua cricca, assai massiccia, di affaristi senza scrupoli di cui per inclinazione e per necessità si circonda. E allora, anziché prendere atto di quanto gli abbia arriso la fortuna limitandogli i danni al solo patrimonio e non anche a misure di restrizione della libertà personale, preannuncia per bocca dei suoi cortigiani misure di interdizione straordinarie all’esecuzione della sentenza dei giudici di Milano.
Verdini, Dell’Utri, Scajola, Romano, Bertolaso, Previti, Cosentino, giusto per citare alcuni nomi presenti nella memoria collettiva recente – fare l’elenco completo richiederebbe un volume grande come la guida del telefono di una grande città – sono alcuni dei personaggi che lo hanno accompagnato nell’ormai lunga esperienza di imprenditore-politico che certamente possono vantare intrecci interessati, grazie ai quali lui ne ha ricavato vantaggi ed allo stesso tempo ha consentito a quei soggetti di consolidare la personale posizione di potere o di fare il loro ingresso nel ristrettissimo club dei neo-potenti, tra l’altro beneficiari di meccanismi di impunità e di tutela.
A questa schiera va poi sommata quella dei “signor nessuno”, quella di coloro per lungo tempo della loro vita sono stati personaggi a dir poco anonimi, ma che grazie alla disponibilità a mettersi al servizio del potente di turno, si sono ritrovati ad abbracciare una nuova carriera parlamentare fatta di privilegi, di ricchi stipendi e d’un potere inimmaginabile: un esercito di Carneadi arrampicatori pronti a tutto, perché coscienti di ritornare anonimi alla scomparsa eventuale del loro mentore.
Ecco così gli Scilipoti, i Brambilla, i Bergamini, i Santanché, i Minetti, i Micciché e via via i tanti insediati a forza nella politica, negli enti pubblici, nei consigli d’amministrazione di aziende a partecipazione statale e ovunque ci fosse potere da amministrare, nel più rigoroso rispetto della regola machiavelliana secondo la quale loro sono tutto grazie a lui e niente senza di lui. Costoro sono coloro che sbraitano a voce più stridula nella difesa di colui che nei fatti è divenuto il vero e indiscusso padrone della loro esistenza e della loro emersione sociale, e pensare di schiodarli dalle posizioni conquistate al tramonto inevitabile che presto o tardi colpirà anche il Cavaliere è cosa assai ardua.
Silvio Berlusconi, tra le tante innovazioni che ha introdotto con la sua discesa in campo, ha anche il “merito” di aver dato un senso compiuto a quel concetto anglosassone di spoiling system che è regola nei ricambi di amministrazione d’oltre oceano: i nuovi governi insediano nelle posizioni chiave dell’amministrazione statale tecnici di loro fiducia per garantirsi l’esecuzione fedele delle loro deliberazioni.
Nel caso italiano il sistema ha più il sapore della pizza e degli spaghetti, considerato che la scelta di questi obbedienti funzionari non avviene sulla base delle sole competenze tecniche dei nominati – spesso il requisito è solo accessorio ed in quanto all'obbedienza sarebbe più adeguato parlare di addomesticamento, - ma in virtù del più becero clientelismo e dell’indiscussa fedeltà dei soggetti prescelti: la RAI della misteriosa “struttura delta” o l’organizzazione della Protezione Civile, per citare alcuni esempi, ne sono la prova più evidente. Ma di questo metodo pazzesco non è indenne il parlamento, quell’ente legislativo sovrano nel quale in forza di una legge elettorale demenziale e oltraggiosa si accede esclusivamente per nomina dei leader di partito, in barba alla più elementare forma di democrazia che vorrebbe i parlamentari eletti uno per uno dal popolo.
Anche in quel consesso orde di lecchini, miserabili accattoni di laute prebende, tirapiedi, complici di atti delinquenziali dei leader che li nominano ed altro residuo d’umanità putrida, si stravaccano sui banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama non per svolgere un mandato parlamentare, ma per difendere con ogni arma possibile il loro dante causa incuranti della miseria morale che manifestano quando, chiamati ad esprimersi su reati commessi da qualche loro collega, – ma il concetto è di complicità – fanno muro contro il corso della giustizia, contro ogni evidenza di colpevolezza, arrivando persino a fingere di credere che una squallida entraineuse sia effettivamente nipote di un capo di stato estero, pur di salvarlo. Costoro non si battono per un ideale, per una causa nobile, che sono incapaci di nutrire, ma combattono senza quartiere esclusivamente per salvare il bengodi in cui sguazzano, il benessere scippato ai cittadini, atterriti dall’idea di ritornare al marciapiede dal quale sono stati prelevati e ricominciare una vita grama fatta di anonimato e di normalità.
In questa situazione cancrenosa persino lo sdegno manifesto non ha più considerazione, non ha alcun diritto di cittadinanza, come se la dissolutezza da basso impero che ha colpito il Paese sia da ritenere il new deal di successo di questo nuovo millennio. E i pochi che denunciano o reclamano un ritorno alla legalità perduta sono meritevoli solo di qualche “metodo Boffo” con cui metterli a tacere additandoli al pubblico ludibrio: è il metodo a cui ci aveva abituato l’Unione Sovietica di Breznev o di Andropov, con il quale il dissenso veniva criminalizzato ed i suoi autori inviati coattivamente in campi di rieducazione per malati di mente.
Un editoriale di Massimo Giannini su la Repubblica di oggi fa il punto della situazione, un punto nel quale appare nella sua drammaticità lo stato comatoso in cui versa quest’Italia del malaffare diffuso, dei "signor nessuno" al servizio di un principe corrotto e al capolinea: «il presidente del Consiglio italiano non conta più nulla, ed è ormai di fatto "commissariato" dalle cancellerie d'oltre frontiera.» – scrive Giannini a proposito dello stato dell’economia nazionale e delle preoccupazioni che attanagliano l’Europa per il futuro dell’Italia e le misure che devono essere assunte per variare la rotta - «Il dramma è che nell'abisso rischia di finire non solo il Cavaliere, ma l'intera nazione. È un pericolo che va scongiurato. Le opposizioni si dimostrino all'altezza. Questa manovra deve passare in Parlamento il più presto possibile, per mettere in sicurezza l'impegno collettivo sul pareggio di bilancio. Ma un minuto dopo Berlusconi deve andare a casa. È ora di separare, finalmente, la biografia del Cavaliere da quella della nazione».

(nella foto, Deborah Bergamini, parlamentare in quota al PdL con trascorsi in RAI, nella quale era stata inserita da Silvio Berlusconi nel 2002 e su cui s'indaga a proposito dell'operato della "struttura delta")

sabato, luglio 09, 2011

Non sempre ride la moglie del ladro

Sabato, 9 luglio 2011
E’ stato un boomerang, un boomerang lanciato lontano e che dopo quattro lustri è ritornato indietro nelle mani del lanciatore, che non aspettandosi questo ritorno dopo così tanto tempo non si era preparato ad afferrarlo e se l’è visto schiantarsi sulla fronte, con danni incredibili.
E’ la storia del lodo Mondadori, quel lodo che ha mandato in gattabuia Previti, Metta, Acampora e Pacifico, il gruppetto di delinquenti accordatosi a suon di mazzette miliardarie per favorire Silvio Berlusconi contro Carlo De Benedetti nella ormai arcinota vicenda della compravendita della casa editoriale di Segrate. L’unico che non ha provato il sollazzo ineguagliabile del sole a scacchi è stato proprio il Cavaliere, dante causa dell’intera operazione truffaldina ai danni di De Benedetti, perché beneficiario di una miracolosa prescrizione per i reati imputatigli, ma che dalla vicenda, almeno sul piano economico, ne esce con le ossa completamente rotte, dato che dovrà versare immediatamente all’avversario la somma da capogiro di 560 milioni di euro a titolo di risarcimento dei danni procuratigli, interessi compresi.
E che “l’innocente” Cavaliere, nonché presidente del consiglio di questo Paese di poteri corrotti e di cittadini a stragrande maggioranza boccaloni, fosse in qualche misura cosciente che nella vicenda giudiziaria la sorte non gli fosse più favorevole s’è capito quando, con mossa a dir poco sconsiderata, ha persino tentato di inserire nella finanziaria di Tremonti un codicillo che avrebbe dovuto consentirgli di dilazionare il pagamento della somma da risarcire all’eventuale sentenza della Cassazione, abusando per interesse privato in maniera plateale della sua posizione di capo del governo.
Adesso dovrà pagare, salatissimo, ma senza indugi quanto la sentenza ha disposto, sentenza che peraltro ha tenuto a precisare che la condanna al risarcimento è la conseguenza della tentata corruzione ordita dallo stesso Berlusconi ai danni del rivale De Benedetti ed eseguita nel suo interesse dal drappello di delinquenti capeggiato dal suo stesso avvocato, Cesare Previti.
«È una sentenza che sgomenta e lascia senza parole», ha affermato il presidente di Fininvest Marina Berlusconi, nella lunga dichiarazione dopo la sentenza del Lodo Mondadori, che con piglio arrogante pari a quello del più illustre genitore non ha voluto perdere l’occasione per esprimere il proprio giudizio su una vicenda nella quale il suo silenzio sarebbe stato molto apprezzato. «È una sentenza che rappresenta l'ennesimo scandaloso episodio di una forsennata aggressione che viene portata avanti da anni contro mio padre con tutti i mezzi e su tutti i fronti, compreso quello imprenditoriale ed economico», ha dichiarato Marina Berlusconi, trascurando il particolare non secondario che i giudici che hanno emesso il verdetto non hanno trascurato di sottolineare come le responsabilità dirette di Silvio Berlusconi nell’intera vicenda sono assolutamente evidenti e documentate. Dopo aver parlato di «attacco» da parte della magistratura milanese in particolare e del gruppo editoriale De Benedetti, il presidente Fininvest afferma che il risarcimento da 560 milioni di euro è «una somma spropositata, addirittura doppia rispetto al valore della nostra partecipazione in Mondadori», tacendo il fatto che al tempo del lodo incriminato la CIR di De Benedetti fu costretta a conguagliare in denaro sonante al suo illustre genitore ben 365 miliardi di lire . «Neppure un euro è dovuto da parte nostra, siamo di fronte ad un esproprio che non trova alcun fondamento nella realtà dei fatti né nelle regole del diritto. Già in queste ore i nostri legali cominceranno a studiare il ricorso in Cassazione», conclude Marina Berlusconi, che del diritto, nella più coerente delle tradizioni di famiglia, deve avere una concezione assai confusa anche se, si spera, non altrettanto spericolata del padre.
Naturalmente, diversa la posizione della CIR, che per bocca dell’avvocato Roppa rileva che «si registra il passaggio della sentenza dove si riconosce che, corrompendo il giudice Metta, Fininvest tolse a CIR non la semplice chance di vincere nel 1991 la causa sul controllo del gruppo Mondadori-Espresso, ma la privò senz’altro di una vittoria che senza la corruzione giudiziaria sarebbe stata certa». La nota dei legali CIR sottolinea inoltre che «il contenzioso giudiziario sul Lodo Mondadori, relativo a fatti avvenuti oltre venti anni fa, riguarda una storia imprenditoriale ed è completamente estraneo all’attualità politica», per cui nulla può adombrarsi quale forsennata aggressione ai danni del Berlusconi-politico.
Ettore Rosato, esponente dell'Ufficio di presidenza del Gruppo del Pd alla Camera, commenta le dichiarazioni di Marina Berlusconi: «Era scontata la discesa in campo, con toni isterici, degli esponenti del Pdl a difesa dell'azienda del loro capo, anche se non è affatto giustificata perché le sentenze si rispettano. Preoccupano molto, invece, le dichiarazioni della stessa famiglia Berlusconi che sfiorano l'eversione e si pongono pericolosamente fuori dalla legalità».
Non mancano infine le solite cialtronate dei lecchini di turno, che, al di là d’ogni senso di rispetto per le risultanze di un procedimento e d’una sentenza, ovviamente non gradita, ma pur sempre un giudizio di un organo istituzionalmente preposto a dirimere le controversie tra cittadini, non ha fatto mistero della propria partigianeria: «La sentenza di oggi è l'ennesimo atto di una trama criminale di natura politico-giudiziaria ordita contro la discesa in campo di Silvio Berlusconi.» - ha dichiarato in uno sperabile eccesso di farneticazione Giorgio Stracquadanio, parlamentare del PdL e noto scendiletto del Cavaliere di Arcore, - «È evidente a tutti che lo scopo di un manipolo di magistrati felloni e golpisti - che si annida nel palazzo di giustizia di Milano e gode di complicità a tutti i livelli politici, imprenditoriali e istituzionali - è il massacro politico, imprenditoriale e fisico del presidente del Consiglio». La vicenda, per Stracquadanio, «dimostra che il vero modo con cui si comprano sentenze favorevoli a un gruppo di potere è quello di assecondare, con un sapiente uso dei mezzi di comunicazione di massa, il disegno politico della magistratura militante».
E c’è da augurarsi che una buona volta i magistrati così apostrofati prendano l’iniziativa di perseguire lo sconsiderato parlamentare del PdL, uno che appartiene alla schiera di coloro che hanno vinto la lotteria senza averne mai comprato il biglietto, al quale, se va consentito di esprimere il proprio parere e il proprio dissenso, non può esser permesso di confondere i metodi che si usano nel suo partito per gli stessi che vengono applicati dai magistrati nell’emettere le sentenze.

(nella foto, Marina Berlusconi, presidente Fininvest)

giovedì, luglio 07, 2011

Politica: uno sporco affare personale

Giovedì, 7 luglio 2011
Mentre ci si lecca le ferite prodotte da una finanziaria di proporzioni enormi, ci si chiede quali alternative avesse il Paese per fronteggiare gli ostacoli che si frappongono al pareggio di bilancio imposto dall’Europa e all’azzeramento di un deficit che, con il suo 119%, ha raggiunto proporzioni inaccettabili.
La manovra varata da Tremonti, basata dichiaratamente sulla riduzione della spesa pubblica e il contenimento degli sprechi, ha avuto ancora una volta il risultato di colpire le classi medie e le categorie più povere, manifestandosi come una vera e propria patrimoniale sui redditi più bassi da lavoro e da pensione, che lascia indenni i grandi patrimoni e le rendite finanziarie.
Cò che ci preme evidenziare qui non è tanto la ricaduta che il provvedimento Tremonti avrà sulla tenuta dei redditi delle famiglie, le cui conseguenze sono all’ordine del giorno del dibattito mediatico e politico in corso, quanto ciò che si sarebbe potuto fare in alternativa se avesse prevalso il buon senso gestionale e la classe dirigente al potere non avesse ancora una volta dimostrato di preferire alle stangate-scorciatoia una riflessione più attenta e ponderata.
Non va dimenticato che uno degli impegni assunti dalla coalizione PdL-Lega in fase elettorale era stato quello di abolire le Provincie, enti manifestamente inutili e parassitari che costano ai cittadini oltre 5 miliardi di euro all’anno e che rappresentano nella loro inutilità metastasi mortali nel sistema di gestione politico-territoriale dell’Italia: 110 apparati con tanto di struttura d’organico, consigli politici e poteri di condizionamento della gestione territoriale, che confliggono molto spesso con i poteri dei comuni e con i criteri di gestione delle risorse locali.
Appena 48 ore or sono una mozione dell’IdV sull’abolizione di questi enti è stata bocciata in parlamento grazie all’astensione del PD e l’ostruzione di parte del PdL e della Lega, che con l’occasione sembrano aver inaugurato una nuova maggioranza trasversale volta ad ostacolare nei fatti quel processo di modernizzazione e moralizzazione della politica tanto reclamato a chiacchiere, facendo cadere la proposta di Di Pietro, votata dal cosiddetto terzo polo, nell’archivio delle cose razionali ma impossibili da realizzare.
Eppure 5 miliardi avrebbero potuto rappresentare un buon viatico verso il risanamento dei conti e un alleggerimento non indifferente dei sacrifici richiesti ai cittadini. Ma d’altra parte da un parlamento infarcito di demagoghi e ipocriti opportunisti, che appena qualche settimana fa s’è aumentato nel silenzio più assoluto l’indennità parlamentare della modica cifra di 1.350 euro mensili, mentre insulta i pensionati imponendo loro scippi sulle già magre pensioni in nome dei sacrifici comuni per il risanamento, cosa si poteva pretendere?
Il quadro vero è quello di un’esigenza complessiva di rifondazione del governo della cosa pubblica, che non può più sopportare la presenza di una casta verminosa che infetta i gangli della vita pubblica e vive a spese di quei cittadini ai quali impone condizioni miserabili. Regioni, Provincie, Comuni, Consigli di Zona e aziende pubbliche, oltre che istituzioni centrali dello stato, sono il rifugium peccatori di una politica invasiva, che pensa a se stessa e prolifera posizioni di sottogoverno esclusivamente per garantire stipendi e privilegi ad un’organizzazione di parassiti ora in posti di visibilità ora trombati e, dunque, bisognosi di un parcheggio garantito nel quale potersi alimentare a sbafo dei cittadini comuni, in attesa o nella speranza di riconquistare qualche posizione di maggiore prestigio e a più alta remunerazione.
Questa finanziaria, se mai ve ne fosse stato bisogno, è stata la dimostrazione di una volontà di perpetuare il sistema del parassitismo e del privilegio. Ne è spia l’accantonamento a data da destinarsi delle misure, pur dichiarate nella finanziaria monstre di Tremonti, di tagliare i costi della politica, sotto forma di azzeramento di auto blu, molteplicità di incarichi remunerati, soppressione di privilegi vari e inconfessabili, come i ricchissimi assegni di pensione per aver assolto un solo incarico parlamentare. Senza trascurare la demagogica presentazione prima dell'amaro bocconne della finanziaria di una fantomatica riforma fiscale, che probabilmente mai vedrà la luce.
Dunque un trionfo di interessi particolari, interessi talmente forti da far perdere ai protagonisti il minimo senso di decenza e di dignità. Ineressi che animano una vera e propria lobby trasversale che coinvolge tutte le componenti politiche. E' molto facile per chi di fondo guarda solo al proprio interesse in barba alla missione pubblica che assolve intervenire per fare ordine nei conti pubblici con tagli ai fondi per l’assistenza sanitaria, con l’imposizione di ticket sulle prestazioni di pronto soccorso, con il taglio delle rivalutazioni delle pensioni dall’erosione inflattiva, con l’aumento delle tasse per l’istruzione, con il congelamento degli stipendi dei pubblici dipendenti, - solo per citare alcuni dei provvedimenti canaglia, - piuttosto che declinare qualcuno dei tanti privilegi di cui gode. E non ci s’illuda, d'altra parte, che provvedimenti di questa natura abbiano una qualche influenza sui componenti della casta nella loro qualità di cittadini qualunque, poiché questi “signori” (qui il termine è un manifesto abuso) nella maggior parte dei casi non subiscono alcun danno da misure destinate a ricadere esclusivamente sulla testa dei comuni mortali: la loro sanità è coperta da polizze d'assicurazione, i loro stipendi sono decisi autoreferenzialmente in piena autonomia, le loro pensioni sono ben al riparo, a spese della collettività.
Viviamo in un’epoca di egoismi esasperati, nella quale ognuno pensa esclusivamente a se stesso e per far ciò, con l’arroganza proveniente dal potere che gli attribuisce la carica che occupa, non disdegna di abbandonarsi a pratiche vessatorie del cittadino pur di non compromettere il proprio privilegio. E’ paradossalmente una situazione simile a quella in cui sguazzava la nobiltà francese all’alba della presa della Bastiglia, nella convinzione che in tempi moderni il ricorso ai moti di piazza contro una classe dirigente nel suo complesso, che ha assunto a regola di governo il disprezzo verso il popolo che rappresenta, mai più possa realizzarsi. Ovviamente questa classe dirigente non solo dimentica che l’eccesso di pressione alla corda determina presto o tardi la sua rottura, ma sottovaluta l’effetto emulazione di quanto sta accadendo nello scenario mediterraneo, che non consente di escludere alcun evento: quando entra in gioco la stessa capacità di continuare a condurre un’esistenza minimamente dignitosa, cadono le remore e le inibizioni e la massa diviene improvvisamente cieca. Allora non c’è più tempo per la cernita tra colpevoli e innocenti, ma c’è solo lo spazio per l’odio di popolo e la giustizia sommaria.

(nella foto, Domenico Scilipoti, parlamentare divenuto celebre per il suo discusso passaggio dall'IdV al PdL alla vigilia del voto di fiducia al governo Berlusconi il 14 dicembre 2011)

lunedì, luglio 04, 2011

Bastardi dentro!

Lunedì, 4 giugno 2011
Complimenti!, sarebbe il caso di dire agli autori della manovra economica che a breve approderà in parlamento e sulla quale, a scanso di equivoci e con mossa di eccelsa democrazia, sarà posta la fiducia.
Una manovra da 47 miliardi spalmata su un triennio e non a caso “leggera” nel 2012/2013, - sino alla scadenza del mandato elettorale dei mentecatti che ci governano, - che ha il “pregio” di anticipare al 2011/2012 tutte le misure residuali rispetto al peso complessivo ma peggiori per le categorie già ampiamente vessate dalla crisi economica, lavoratori dipendenti e pensionati, per le quali il governo in carica non perde occasione per dar sfogo alle sue inclinazioni persecutorie e di volontà di marginalizzazione sociale.
Si comincia dall’aumento delle accise sui carburanti, per un totale di ben 6 centesimi di incremento per ogni litro di benzina o gasolio, che avrà l’effetto di far lievitare il costo dei trasporti delle merci e l’incremento dei prezzi dei beni di prima necessità. Irrilevante l’effetto dei rincari di questi beni sulle classi più abbienti, che sconteranno gli incrementi sui prezzi della produzione o sulle tariffe professionali e sui costi dei servizi che producono a danno degli utilizzatori: da che mondo è mondo il costo dell’inflazione è sempre stato scaricato sui percettori di reddito fisso a tutto vantaggio di industriali e professionisti e percettori di rendite.
Contestualmente comincia a dare i suoi frutti il federalismo farsa approvato alcuni mesi or sono, grazie al quale ben 55 comuni, tra i quali Brescia e Venezia, hanno provveduto ad incrementare le addizionali sull’Irpef. Senza considerare gli aumenti decisi da un terzo delle provincie italiane, - quegli enti parassiti che qualche demagogo a corto d’idee periodicamente promette d’abolire, – delle addizionali sulle assicurazioni auto, che dopo l’ultimo ritocco del 3,5% rappresentano una gabella del 16% sul totale. Si attende - a giorni - solo il decreto attuativo per far partire gli aumenti della base imponibile dell'Ipt, l'imposta sui passaggi di proprietà, che potrà essere elevata del 30 per cento e sarà legata alla potenza fiscale. Ed è solo l'inizio della danza, perché i rincari potranno essere reiterati dal 1° gennaio del 2012.
E ancora: dal primo gennaio del prossimo anno tornerà il ticket di 10 euro sulla diagnostica e sulla specialistica, mentre i "codici bianchi" al pronto soccorso pagheranno 25 euro. Ovviamente il balzello non potrà che colpire le categorie più bisognose, visto che i più abbienti continueranno ad usufruire di un’assistenza sanitaria d’élite, a pagamento come prima, quindi in totale assenza di ricadute derivanti dal provvedimento in discussione. La stessa sbandierata tassa sulle auto più potenti, in omaggio al clientelismo politico di parte, è stata ridimensionata, ma altri aumenti pendono sugli automobilisti se passerà la contrastata norma sul "pedaggiamento" dei tratti stradali Anas come il Gra, la Salerno-Reggio o la Catania-Palermo. Brutte sorprese, inoltre, per i risparmiatori e coloro che hanno un dossier titoli: schivato all'ultimo momento il ritorno del fissato bollato su ogni transazione, arriva però l'aumento del bollo sui dossier titoli, che viene più che triplicato e passa a 120 euro da subito e a 380 euro a regime.
Ma la norma più abietta rimane quella sull’adeguamento delle pensioni alla variazione del costo della vita, che andrà a limare le già limitate risorse della maggior parte degli assegni di quiescenza più bassi: qualche iena, come il famigerato Sallusti ha avuto il vergognoso coraggio di scrivere sul suo miserabile foglio che è scandaloso protestare per un taglio mensile di appena cinque-dieci euro, dimenticando quanto siano rilevanti somme di questa portata per pensioni di 476 euro mensili.
Nulla invece sembra sarà fatto per il taglio dei costi della politica, trattandosi di misure sbandierate e subito rimandate a data da destinarsi, visto che incidono sui privilegi della casta. E così le auto blu continueranno a circolare a spese dei cittadini sino a quando non sarà il momento di rottamarle, – cosa che sarà probabilmente molto diluita nel tempo, pur se implicherà ingenti costi di manutenzione e revisione, - considerato che la loro sostituzione dovrebbe avvenire con modelli più economici e di cilindrata molto più contenuta.
Lo stesso taglio dell’imposizione fiscale, promesso e presentato nelle grandi linee, ma prontamente rimandato a data da destinarsi, con la modulazione con la quale è stato concepito, finirà per regalare un abbondante abbuono ai redditi più elevati e qualche manciata di spiccioli ai redditi sino a 30 mila euro, che riguardano oltre il 60% dei cittadini.
Che dire? Da una classe politica fatta sostanzialmente da bastardi dentro non ci si può attendere giustizia sociale e attenzione alle preoccupazioni vere dei cittadini.
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Nota aggiuntiva. Mentre stavamo per pubblicare abbiamo appreso che all’ultimo momento è stata inserita nel decreto una norma che prevederebbe la dilazione alla sentenza della Cassazione del pagamento delle somme superiori a 20 milioni di euro, in seguito a condanna in processo civile. Naturalmente, attesa la sentenza sul lodo Mondadori per la prossima settimana, che implicherebbe in caso di condanna di Berlusconi il pagamento di ben 750 milioni di euro a favore di Carlo De Benedetti, non si può non sdegnarsi di un provvedimento così palesemente pro-Cavaliere: chi non prova voltastomaco per le azioni smaccatamente di parte di questo governo è in assoluta malafede. Chissà come Umberto Bossi la racconterà ai suoi padani.