giovedì, ottobre 25, 2007

Il gioco "Le elezioni" dagli Annali di Tacito


Mercoledì, 24 ottobre 2007
Narrano le cronache dell’epoca che un tempo era in voga uno gioco di società chiamato Le elezioni. Il gioco, avvincente al punto da essere divenuto nel tempo talmente popolare da coinvolgere comunità intere, era basato su un meccanismo assai semplice per chi vi partecipava da giocatore, mentre aveva regole assai più complesse per chi gestiva il banco. I giocatori, infatti, erano chiamati ad apporre una croce su una lista di simboli variopinti ed accattivanti, - coloro che avevano maggiore familiarità con le regole potevano persino scrivere un nome, - dopo di ché non avevano che da attendere che i croupier contassero le croci per proclamare i vincitori del gioco. Ai banchieri toccava la parte più difficoltosa, poiché non solo avevano il compito di preparare la lista dei concorrenti, ma dovevano vigilare affinché i vincitori rispettassero le regole da loro imposte, pena l’esclusione dalla riffa alla tornata successiva.
Il bello del gioco stava nel fatto che, una volta tanto, i giocatori non erano mossi da inconfessabili mire o interessi personali, - il compilatore della schedina nulla aveva da intascare personalmente - ma erano esclusivamente presi dalla frenesia del gioco in sé, che, nei fatti, prevedeva il conferimento di un premio a qualcun altro e non a loro: come l’incoronazione di una miss, eletta grazie al televoto degli ascoltatori.
E il gioco assunse talmente una valenza maniacale che ben presto riffe similari vennero allestite a livello comunale, provinciale regionale e continentale, con il risultato che a questo tripudio di popolo era possibile assistere anche due o tre volte in un solo anno; senza contare quelle organizzate da sindacati, scuole e persino condomini, sull’onda dell’emozione che erano in grado di suscitare. E questa febbre contagiò anche i territori barbari, sì da aver notizia che Gallia e Pannonia avevano preso ben presto a praticare l’esotico gioco.
Si racconta di gente che rinunciò alla gita fuori porta con la famigliola, il cui uso era già in voga al tempo, per compilare la schedina, o di lunghe code umane alle ricevitorie in attesa del turno per poter imbucare la propria.
I vincitori di questa kermesse godevano di un pacchetto di benefici di tutto rispetto, che forse era l’aspetto che più appagava l’animus del giocatore, che andavano da un appannaggio reale all’automobile con tanto di autista in uniforme, ad un assistente personale mal pagato addetto al trasporto del suo bagaglio, alla gratuita circolazione sui mezzi pubblici di ogni specie e genere, ad un ufficio di rappresentanza nella capitale (in realtà un budoir elegantissimo in cui ricevere gli amici) e mille altre cose, non ultima l’automatica iscrizione ad un club esclusivissimo, dove si poteva gozzovigliare, tagliarsi i capelli al prezzo di una mancia, ottenere inviti gratuiti a spettacoli teatrali e circensi oltre a disbrigare celermente le noiose pratiche burocratiche che affliggono i comuni mortali in pochi minuti, con sede negli storici palazzi romani Chigi, Madama e Montecitorio.
A questi signori, in contropartita al carnet prima sintetizzato, non si chiedeva che di rendersi disponibili per convegni, trasmissioni televisive, foto per giornali e riviste, tagli inaugurali di nastri ed altre faticose amenità, per le quali era comprensibilmente richiesta la presenza di un volto noto e vincente, che desse lustro all’iniziativa o rendesse più credibile l’evento.
Per quanto allo sguardo dell’incauto la vita di questi personaggi potesse apparire agiata e fortunata, in realtà, questi vivevano durante il periodo della loro investitura una vita d’inferno, sempre presi in impegni ufficiali di rappresentanza, che implicavano altresì adeguate spese per abbigliamento e maquillage vari, tali da rendere persino difficoltosa la conduzione di un normale menage familiare. Né mancano gli episodi a conferma di questa dorata ma triste esistenza: qualcuno finito in ospedale causa l’eccesso di performance sessuali richiestegli da svariate giovani partner attratte dal mito dell’uomo di successo; qualcun altro che si sveglia in una camera d’albergo in compagnia di due signorine con cui era stato costretto ad intrattenersi contemporaneamente, di cui una passata a miglior vita - non ci dice Tacito se per l’eccesso dell’ardore amatorio del nostro o per aver abusato di qualche stimolante per tenergli testa. - Un altro ancora uso a farsi intervistare da dei banali travestiti, per tenersi in esercizio nei quotidiani rapporti con i mass media, come ebbe a dichiarare; parecchi abituali frequentatori di ritrovi notturni sino alle prime ore del mattino, con l’unico obiettivo di potersi far vedere e toccare dagli avventori, significative rappresentanze del popolo dei giocatori.
Senza contare quanti passarono seri guai per essere stati sorpresi con bustarelle e contanti nel taschino della giacca o nella biancheria, frutto di innocentissimi segni di ammirazione e riconoscenza di fans irriducibili, in sincera pena per il bilancio economico del loro preferito. A nulla valse in qualche caso giurare sul proprio immacolato onore che di quelle regalie nulla si sapeva e che, comunque, sarebbero certamente andate in beneficenza, magari a favore della Società del Golf di Torlecchio o dello Yachting di Plaja Ventresca, così bisognosi di sostegno nell’opera diocesana svolta a favore della comunità.
Sopra di loro poi vi erano i banchieri, coloro che gestivano il banco. Questi erano le vere menti grigie del gioco. Stacanovisti della riffa, organizzavano le giocate, sceglievano i partecipanti, dettavano le regole di comportamento e decidevano di comune accordo, quando non ritenevano non fosse più possibile giungere alla conclusione naturale del periodo fissato per il godimento delle guarentigie dei vincitori, l’avvio di una nuova tornata di giochi. A loro era delegato il potere di indicare i nomi dei partecipanti e l’assunzione di provvedimenti disciplinari a carico di chi non rispettasse le regole stabilite, nonché l’esclusione dalla successiva competizione di coloro che si fossero resi autori, a loro insindacabile giudizio, di gravi atti di indisciplina. I banchieri, veri boss del gioco, grazie al prestigio particolare godevano anche di un seguito, cui era delegato il compito di allontanare accattoni e questuanti, ammorbidire esuberanti manifestazioni d’affetto di terzi e similari. Questo seguito, allestito con figuri che sembravano prelevati dal mitico Mi16 britannico, talvolta potevano divenire avanguardia, allorquando, nel raro concedersi alle masse, servisse a preannunciare l’imminente arrivo dell’eminenza grigia e scoraggiare quanti avessero avuto intenzione di manifestarsi come detto prima.Ma, narrano ancora gli storici, come ogni gioco anche questo fu destinato al tramonto ed intorno al primo secolo del terzo millennio, cadde gradualmente in disuso sino a scomparire del tutto. Si dice che l’origine della sua archiviazione fu dovuta al calo progressivo di interesse dei giocatori, vessati dal costo crescente delle schedine e dall’onerosità oltre ogni decenza del mantenimento dei vincitori; ma, soprattutto, dal fatto che nella ripetizione delle estrazioni le facce erano sempre le stesse, sebbene ve ne fosse qualcuna che aveva cambiato boss e posizione. Ciò aveva finito per rendere noiose le trasmissioni televisive, appestate dai sorrisi dei soliti noti intenti a recitare litanie trite e ritrite, ed inviso l’acquisto di giornali e riviste, nei quali, se non fosse stato per la data a denunciarne l’attualità, vi erano a ciclo sempre le stesse notizie: bastava oramai comprarne uno e sfogliarlo di tanto in tanto per sapere le notizie del giorno.
(nella foto: una ricevitoria in cui si imbucavano le schedine)

venerdì, ottobre 19, 2007

CGIL-FIOM – La falsa guerra della bandiera.


Venerdì, 19 ottobre 2007
Epifani è stato chiaro: nessuna bandiera con il logo CGIL potrà sventolare alla manifestazione del 20 ottobre organizzata dalla sinistra – ormai non c’è più alcun bisogno di aggettivare il PRC e il PdCI come radicale, dato che il trasformismo dei DS e dell’Ulivo, confluiti nel nuovo PD, ha creato nei fatti una cosa politica di centro, che nulla ha che fare con le radici della sinistra tradizionale.
Alla manifestazione, organizzata per contestare le recenti intese tra Governo e parti sociali sul welfare, ha aderito tra gli altri la FIOM, comprensibilmente delusa non solo dal voto dei lavoratori al referendum, ma da sempre in dichiarato dissenso con le scelte imposte da Epifani a tutta la CGIL nella notte del 23 luglio scorso.
Nella logica della democrazia le decisioni della maggioranza non possono che avere il sopravvento; tuttavia vale il principio di rispetto della minoranza, con la quale si ha il dovere di confrontarsi e di appianare i dissensi: l’assenza di questi meccanismi, - che certamente non devono svilire il principio della supremazia della volontà dei più, - costituisce per qualunque maggioranza un vulnus al diritto di dissenso ed un pericolosissimo indicatore di derive autoritarie, che nulla hanno in comune con la democraticità medesima.
D’altra parte, nel parlare di dissenso della FIOM al protocollo sul welfare non si fa riferimento ad una piccola organizzazione di lavoratori ribelli, ma ad una componente sindacale estremamente significativa e pesante all’interno della CGIL, che ha espresso un dissenso pari al 20% degli iscritti recatisi al voto. Questo dato, pertanto, non può lasciare indifferenti; né autorizza i vincitori del referendum a tacciare di massimalismo velleitario una minoranza che, nei numeri, non appare poi così tale.
Per inciso, sarebbe curioso sentire il parere del leader appena eletto del nuovo PD sulla questione, che abbiamo già avuto modo di ricordare come abbia impostato la sua campagna elettorale su slogan come ricerca del consenso e confronto dialettico. Ciò non significa che sia preferibile un sistema in cui si perpetui lo stallo e l’assenza delle decisioni. Ma l’eccesso di decisionismo, - che ha radici lontane e pare abbia ormai infettato il nostro sistema politico e sociale, - produce in chi lo subisce rancori che durano nel tempo, difficilmente cancellabili, ai quali seguirà prima o poi la presentazione di un conto, il cui costo sarà sostenuto dalle categorie già deboli della collettività.
La situazione sindacale in essere sembra ben riflettere lo scontro in atto tra la sinistra e gli ex DS, convertiti al neocentrismo opportunistico. In verità questo antagonismo tra le due anime del maggior sindacato operaista del nostro Paese è sempre esistito e, nel tempo, si è assistito alla periodica fuoruscita di frange di contestazione dall’organizzazione, con nascita di nuove sigle sindacali. Questo antagonismo, rappresentato dall’ala possibilista, maggioritaria, da una parte, e dall’ala intransigente dall’altra, - nota con il l’etichetta di terza componente e di cui Giorgio Cremaschi è il leader più rappresentativo, - ha costituito il vero motore riformista della CGIL, che nella FIOM ha visto la punta più avanzata della rivendicazione. I movimenti politici di riferimento di queste anime sindacali sono state il PCI e l’ultra sinistra, di cui hanno subito le evoluzioni e la storia politica. Il lento e progressivo revisionismo del PCI, attraverso la Quercia, il PDS, i DS e l’attuale approdo al PD ha certamente aumentato le distanze tra le due anime, non solo sul piano dell’ideologia, ma anche su quello più tangibile della prassi, determinando un conflitto alla ricerca di un’egemonia, che perdura e al presente si è fatto ancora più aspro.
In questo scenario, senza vincitori e vinti, i veri perdenti sono stati i lavoratori attivi e quelli che si sono affacciati per la prima volta al mercato del lavoro. I primi hanno subito un significativo peggioramento delle loro condizioni economiche, nel senso che gli incrementi salariali che hanno ottenuto sono stati spesso largamente sotto il livello dell’inflazione reale o comunque erosi dalla micidiale voracità di una macchina fiscale che, attraverso la progressività impositiva, ha azzerato i benefici di quegli incrementi, peggiorando le loro condizioni effettive di vita. I secondi sono stati invece vittime immolate sull’altare di un modernismo tanto vuoto quanto crudele, che ha imposto l’introduzione di meccanismi di cinico ed ignobile sfruttamento, spacciato per flessibilità e risposta efficace al processo di globalizzazione dell’economia e della concorrenza.
Di fronte a queste complesse problematiche sociali, divenute la vera emergenza del nostro tempo e denunciate persino dai vertici della Chiesa cattolica come sintomo epocale della caduta del senso etico e della dignità umane, lo scontro all’interno del sindacato esce dall’alveo naturale e si trasferisce nella società civile, dove assume un significato rinnovato di vera e propria lotta di classe tra privilegiati ed emarginati, lotta nella quale la diatriba sull’uso di una bandiera non è che ridicola e mistificante; così come è mistificante l’aggressione incalzante degli opportunisti convertiti al neocentrismo e delle loro stampelle ai residui di quella sinistra vera, che tenta in ogni modo di opporsi a quel che giorno dopo giorno si concretizza come un imbarbarimento delle condizioni di vita di milioni di persone senza futuro e relegate ai margini della società.
Se è vero che il comunismo è morto, con tutte le sue forme di ideologismo autoreferenziale e con le distorsioni rappresentate da classi dirigenti autocratiche, tanto egemoniche quanto distanti dall’essenza vera della democrazia, rimane di grande attualità il tema di come e quali meccanismi individuare affinché non si generino eserciti industriali di riserva costituiti da nuovi diseredati, attraverso i quali il post-capitalismo globale si garantisce l’incessante lievitazione dei profitti.
Una società giusta è quella nella quale ai cittadini vengono garantiti i diritti costituzionali, primo fra tutti quello al lavoro e ad un’esistenza dignitosa così lontana dall’effettiva percezione che se ne ricava ad una sommaria osservazione dei fatti di casa nostra. La mancanza di una coscienza civile e l’ostentata cecità nel prendere atto di queste emergenze, rende la guerra per le bandiere ridicola e volgare, oltre a mettere a nudo i veri valori delle sedicenti maggioranze progressiste e riformiste: la guerra di posizione per la conservazione di poltrone e privilegi in barba alla conclamata miopia della gente.
C’è da augurarsi che la prevista manifestazione del 20 prossimo registri una massiccia partecipazione, magari senza bandiere, dato che non sono quelle a contare quando si intende esprimere un malessere sociale vero e sussistente: la democrazia e la battaglia per la supremazia dei valori sono fatte di partecipazione ostinata e di battaglie dalle quali, mal che vada, non è possibile perdere più di quanto non si sia già perso, - per quanto si comprenda come la delusione radicata in anni di costante tradimento delle attese abbia generato una tendenza a chiudersi in un privato in cui non v’è più spazio per la speranza. Per quanto risulti amaro doverlo ammettere, è l’antipolitica così di moda, generataci dallo squallore delle azioni di chi ci governa, che rinforza la convinzione in chi decide che, in fondo e al di là del rimbrotto momentaneo, si è disposti a tollerare qualunque cosa.


(nella foto: Rinaldini, segretario dei metalmeccanici FIOM)

venerdì, ottobre 12, 2007

Veltroni e la fiaba di Cappuccetto Rosso


Venerdì, 12 ottobre 2007
La grande kermesse è pronta. Domenica 14 si apriranno i seggi per le primarie del nuovo Partito Democratico, in cui confluiranno Democratici di Sinistra, Margherita e Ulivo, dando vita ad una nuova formazione politica, che, per bocca dei suoi candidati leader, dovrà essere “un partito popolare che faccia riscoprire la passione politica, un partito radicato nel territorio per promuovere una nuova classe dirigente”.
Fin qui niente di strano, se non fosse che la promessa nuova classe dirigente sarà costituita dai soliti riciclati provenienti dalle precedenti formazioni politiche, dei quali è legittimo temere perderanno il pelo, ma certamente non il vizio: vi immaginate i D’Alema, Fassino, Rutelli che escono di scena per lasciare posto “ad una nuova classe dirigente” in palese discontinuità con il loro modo di intendere la politica? Senza voler assumere posizioni precostituite o voler fare il processo alle intenzioni, - solo perché qualche annetto d’esperienza sulle spalle riteniamo d’averlo, - preferiamo giudicare dai fatti e non dalle affermazioni di principio di cui son tutti maestri. Pertanto, dato che i candidati sono già stati designati e non ci pare che per il loro trascorso siano in grado di assicurare che alle parole seguirà la concretizzazione delle promesse, non parteciperemo alla reclamizzata festa, non fosse perché si possa dire poi che c’eravamo e, dunque, abbiamo avuto ciò che ci siamo meritati.
D’altra parte, se anziché Letta o Veltroni o Bindi avessimo potuto avere qualche ignoto Falsaperla o Vinciguerra da votare, forse il quadro sarebbe stato più convincente, ma, alle condizioni date, i sospetti sono d’obbligo.
Sia bene inteso, non che le novità nei pretendenti alla leadership del PD non ci siano. A sentire Veltroni, - che comunque ci sembra il più accreditato alla vittoria finale, - si ha la sensazione di aver davanti una persona diversa da quella conosciuta, quanto meno allevato ad una tradizione politica che nulla a che fare con la vecchia Quercia e, quel che più conta, non ha nulla in comune con quei Salvi, Mussi, D’Alema con i quali ha percorso un lungo tragitto della sua carriera. Il Nostro, quasi fosse venuto fuori dalla Scuola Catechista del Divino Amore, ostenta un possibilismo, un ecumenismo, una pacatezza, un buonismo talmente improbabili da renderlo talora addirittura comico, oltre che diverso dal passato. Non che stupisca che i vecchi slogan, come quelli della lotta di classe e della supremazia del proletariato siano stati messi in soffitta e la tuta di Cipputi sia stata sostituita da uno smagliante doppiopetto con ancora attaccato il cartellino: anche la politica si adegua all’evoluzione del sociale e nell’epoca corrente risulterebbe assai stonato parlare di proletariato e classi sociali, anche se il cavalier Berlusconi, notoriamente amante dell’archeologia, non perde occasione per ostentare cultura e mette in guardia la sua audience dai comunisti che continuano a mangiare i bambini.
Il buon Veltroni, - che deve aver maturato idea che la real politik non garantisce più il successo, - denuncia nei suoi discorsi d’investitura i mali della società e ne individua le soluzioni in ramoscelli d’ulivo, strette di mano, abbracci solidali e quant’altro faccia perno su una tradizione di stampo cattosocialista, che, francamente, commuove ma non attacca. Stupisce che nel suo programma d’azione non abbia previsto interventi di psicoterapia o di gesthalt per reprobi e refrattari, dato che la legittima “imposizione” di misure correttive degli squilibri sociali cronici ed insanabili del nostro Paese non sembra faccia più parte del suo dizionario.
Così affermazioni che qualificano in nuovo PD “incontro di tradizioni, per cui la nostra laicità non rinuncia al valore dell’ispirazione religiosa, ma la vive come garanzia di libertà, dialogo, ascolto. In questo senso auspichiamo attenzione verso i valori del volontariato e nei confronti di uno stato sociale inclusivo e solidale” trovano spazio accanto a con “la nascita di questo partito siamo ancora qui a testimoniare il nostro impegno di democratici e di cristiani. Vogliamo essere anche noi, donne e uomini di orientamento cattolico democratico, a raccogliere la sfida, consapevoli che l’attuale sistema politico italiano, imperniato sul bipolarismo, impone scelte chiare, moderne e coraggiose”, che se agli occhi di un lettore sprovveduto appaiono quantomeno di logica palesemente zoppicante, rivelano ad una più attenta analisi della retorica l’evidente tentativo di mettere insieme valori e sentimenti di laicità tollerante, che difficilmente si sposano con il privilegio di un orientamento religioso a scapito di altre confessioni. Evidentemente, come si suole dire, fa musica fare perno anche sui sentimenti dominanti nel contesto sociale di riferimento, sull’impalpabile immaginario, per cui se da un lato ci si professa laici convinti e dall’altro cristiani, sia chiaro che si troverà comunque spazio all’interno del PD. Per contro, si desumerebbe che musulmani, buddhisti e quant’altro, nel nuovo movimento politico non sembra avranno diritto di cittadinanza, salvo probabili ripensamenti lungo la strada.
Che mentre Veltroni reciti la peana del volemose bene alcune schegge impazzite della sua compagine politica razzolino maldestramente, si stima non infici la qualità del suo messaggio di fratellanza universale. Domenici e Cioni, rispettivamente sindaco di Firenze ed assessore alla sicurezza di quel comune, nonché compagni di partito del Nostro predicatore mormone, si scagliano a suon di codice penale contro i lavavetri, alla faccia del buonismo e della tolleranza: sarà bene che Veltroni suggerisca loro magari di trovare a questa gente un lavoretto più dignitoso per campare, dato che non ci risulta ci sia qualcuno la cui massima aspirazione nella vita sia quella di fare quel mestiere, se non per disperazione. Così i conti tornerebbero e, una volta tanto, le parole sarebbero corroborate da atti concreti di buona volontà.
Veltroni non trascura anche i giovani, che, sebbene già da parecchi anni nell’approcciare il mondo del lavoro ricevano sistematici calcioni lì dove non batte il sole, sotto gli occhi indifferenti di governi che blaterano promesse d’intervento e non muovono un dito, rappresentano in ogni caso la futura base elettorale del Paese. A loro ha promesso lavoro, salari equi, pensioni dignitose, attraverso un opera politica di riforme graduali e condivise: poco importa che questa gradualità possa tradursi in lustri d’attesa e che la condivisione sia concetto utopico quanto vuoto. Dato che prosaicamente confidiamo nella bontà del tempo dalle condizioni meteorologiche del mattino, non ci pare gli amici di Veltroni abbiano sino ad oggi fatto qualcosa per diradare le nubi che ammantano il cielo.
All’acme della sua ispirazione profetica, il Veltroni ha anche inviato una lettera ai giovani, - sarebbe il caso di dire ai teen ager, visto che è stata indirizzata ai sedicenni, - invitandoli a partecipare al kermesse, considerato che il nuovo partito nasce anche per gestire le loro speranze. Ovviamente l’iniziativa non è stata molto felice, dovendosi registrare animate manifestazioni di protesta dei giovani delle elementari e delle materne, che si son sentiti ingiustamente esclusi.
La letteratura sulle iniziative di Veltroni nella sua corsa alla guida del nascente PD è decisamente massiccia e commentarne i passaggi in questa sede sarebbe cosa assai ardua. Ciò che ci pare comunque più conti è questa evidenza di approccio buonista, che francamente appare melenso ed ingannevole, non fosse per la presenza nella nostra sociaetà di rendite di posizione e sacche di comprensibile resistenza al cambiamento, verso le quali, il semplice buonismo, si paleserà come un’aspirina per l’ammalato di tumore. Il Paese ha bisogno di una politica forte ed incisiva, capace di scelte non solo coraggiose ma anche impopolari e, se necessario, forzose, che siano in grado di cancellare la sacca di povertà in cui versano milioni di cittadini grazie alle politiche scellerate ed opportunistiche perpetrate in oltre 60 anni di sedicente democrazia, e di delineare una maggiore equità di opportunità alla collettività, attraverso una scuola più qualificata e più qualificante rispetto al mondo del lavoro, una sanità più assistenziale e meno sprecona, un sistema pensionistico più dignitoso, condizioni di lavoro più tutelate e con azzeramento delle morti bianche e dello sfruttamento del lavoro nero, un sistema fiscale meno vessatorio, una trasparenza ed onestà della politica che sia da vero esempio ai cittadini. Di fronte a queste vere e proprie emergenze, il buonismo, ancorché espediente elettorale, è puro cabaret o, per dirla come lo stesso Veltroni avrebbe ammesso qualche anno fa, oppio per il popolo.
Nella favola di Cappuccetto Rosso, la bimbetta che andò a trovar la nonna si rese conto di essere davanti al lupo cattivo solo alla fine della storia. Domenica 14 si rimanga in casa, che causa l’inquinamento e le mutate condizioni climatico-ambientali i lupi ormai circolano anche per borghi e città.

giovedì, ottobre 11, 2007

L’autogol del sì


Giovedì, 11 ottobre 2007
Alla fine la farsa del welfare si è conclusa: hanno vinto i sì ed ha trionfato la democrazia. Non che avessero vinto i no non ci sarebbe stato un trionfo di democrazia, ma chi avrebbe mai avuto il coraggio di raccontare a D’Alema, Fassino, Rutelli, Bonino, Dini e così via, che da sempre sono convinti di incarnare l’essenza della democrazia, che questa volta avevano cannato? Quindi risultato giusto e, soprattutto, nuovo vigore alle esibizioni di democraticità prossime venture dei nostri paladini. Noi dissentiamo, ma è noto che in democrazia il dissenso, quando è minoranza, conta assolutamente nulla
Sia bene inteso, non è andato tutto liscio come ci si era augurato. Nelle grandi fabbriche, Fiat, Iveco, Riello, il no è stato schiacciante e sarà interessante cercarne di capire il significato, sebbene sia fuor di dubbio che chi lavora nella grande fabbrica sopporti uno stress sicuramente maggiore di chi opera in piccole realtà più a misura d’uomo, dove i rapporti personali sono forti e possono rendere la vita lavorativa meno alienante. Che i lavoratori dei grandi comparti abbiano detto no alla riforma delle pensioni inventata da questo governo spergiuro, riforma che – non ci stancheremo mai di gridarlo – è fortemente peggiorativa della già maligna Maroni, è pertanto comprensibile, dato che vedono allontanarsi nel tempo la possibilità di mettersi definitivamente a riposo, lontano dalla fabbrica disumana a godersi la pensione. Né va trascurato che la vittoria dei no si registra principalmente nel comparto metalmeccanico, che tradizionalmente è quello in cui le condizioni di lavoro sono più dure.
A fianco di queste seriose considerazioni, tuttavia, il referendum sul welfare riserva qualche comica sorpresa. I dipendenti del call center Wind, infatti, da sempre imbottiti di esemplari di quel precariato giovanile tanto deprecato, avrebbero scelto per il sì. Il che fa ritenere che, a parte i Tafazzi, autolesionisti che è possibile reperire in ogni aggregazione umana, questi giovani sfruttati alla stregua dei neri nei campi di cotone dell’800, senza uno straccio di futuro, pagati pochi euro come le colf extra comunitarie, poco abbiano effettivamente capito dei tanto decantati provvedimenti previsti a correzione della loro contrattualistica lavorativa inserita nel famigerato protocollo sul welfare. Non ci stupiremmo a questo punto se qualche giovanotto impiegato in queste realtà fosse uso rimborsare i quattro spiccioli percepiti all’azienda che gli dà lavoro, dato che la riconoscenza non è mai troppa.
Considerazioni molto simili debbono desumersi per il gregge dei lavoratori veri, che ordinatamente ha eseguito gli ordini dei boss sindacali ed ha votato sì, nonostante la fregatura evidente alle loro illusioni. C’è da aspettarsi da questi eroi della patria, che magari in una notte hanno subito la rapina di parte dei loro risparmi dal conto corrente per decreto del signor Amato, allora Ministro delle Finanze ed oggi Ministro degli Interni; che sempre per decreto dovettero pagare una demenziale tassa sul medico di famiglia o che dovettero pagare l’altrettanto allucinante tassa per l’Europa; che oggi siano fieri di devolvere al risanamento di questo stato vampiro una quota ben più rilevante: parte della loro vita, che avrebbero potuto impiegare alla cura degli hobby o ad altre meritate amenità, invece che continuare a lavorare per rimpinzare con i propri contributi il fondo pensioni INPS; per avere, tra l’altro, quando lo stato riterrà finalmente lecito, una pensione limata anche dalla revisione dei coefficienti.
Ma cosa occorre per scuotere le coscienze e far sì che la gente apre finalmente gli occhi? Ma non ci si rende ancora conto di essere in mano ad una classe politica, senza distinzione di colore, che tratta i cittadini come fossero asini cui far tirar la macina? Ma si ha contezza degli spregiudicati privilegi che godono questi sfruttatori dell’ignoranza e della pavidità collettiva? A cosa hanno rinunciato, loro, a fronte dei sacrifici immani cui hanno costretto i cittadini con questo grottesco provvedimento sul welfare?C’è qualcuno che se la senta di continuare a pagare una tessera sindacale dopo che i loro boss hanno svenduto i lavoratori come il biblico Esaù per un probabile piatto di lenticchie?
Sono quesiti ai quali non ci si attende una risposta, ma che varrebbe la pena porsi per dare senso alle scelte che si fanno, a volte in modo troppo affrettato. Non s’è mai visto un condannato a morte comprare la corda al proprio boia e andare pure fiero del suo gesto.

martedì, ottobre 09, 2007

Il suk della politica, tra pentiti e dissociati


Martedì, 9 ottobre 2007
Se l’avesse saputo prima, Grillo avrebbe rimandato sicuramente il suo Vaffanculo Day, almeno avrebbe recuperato un altro esponente della coerenza alla sua lunga lista di notabili meritevoli di menzione. Già, perché solo stamani, secondo un’ANSA pervenuta alcuni minuti or sono, il buon Marco Pannella, decano della politica italiana e padre di mille battaglie di progresso, alcune buone ed alcune meno, qualcuna fortunata e qualcun'altra di sorte avversa, avrebbe appena dichiarato che con la caduta del governo Prodi, finalmente, gli Italiani si riprenderebbero la libertà.
Ora, se non avesse fatto il nome di Prodi, sarebbe rimasto il dubbio che poteva riferirsi ad un governo qualsiasi, anche se avere un governo non significhi automaticamente dover risultare privi di libertà. Né è pensabile si riferisse al primo governo Prodi, alla cui caduta seguì quello di Baffino-D’Alema, che non diede agli Italiani più libertà di quanto ne avessero goduto sotto l’egida del Professore di Bologna.
Allora la boutade non può che riferirsi al governo corrente, che, chissà per quale ragione, allo storico leader radicale deve stare stretto e dargli la personale certezza che in qualche modo lo abbia privato della libertà. E’ altrettanto assodato che non è chiaro sapere a quale libertà si riferisca, dato che a parlare, parla, a scioperare, se ritiene di individuare qualche nobile proposito da rivendicare, sciopera, e in più vanta un Ministro nell’assise governativa, l’onnipresente signora Bonino, che dovrebbe offrirgli qualche garanzia di controllo diretto della democraticità dell’esecutivo e del sistema, garanzia che nel primo governo Prodi non godeva, dato che stava con la parrocchia opposta. Se poi alludesse alla libertà di farsi i fattacci suoi, non crediamo possa avere nulla da recriminare, dato che la sua compagna d’avventura, dallo scranno del governo e lui dalla piazza, non hanno mai nascosto l’avversione dei radicali per il rispetto di alcuni passaggi del programma elettorale, che pure avevano firmato in sede di costituzione della coalizione, come il capitolo scalone pensionistico, anche se rimane il dubbio che nessuno abbia spiegato con sufficiente chiarezza ai due personaggi politici che l’abbattimento di questa barriera architettonica virtuale non avrebbe compromesso la pensione alla quale hanno ormai pieno diritto, vista la rispettiva età anagrafica. Semmai, incidentalmente, li avrebbe fatti apparire un po’ meno tromboni ed antipatici a quelli che, grazie anche alla loro incomprensibile ostinazione, hanno dovuto subire la beffa di scalini e quote dalla promessa riforma-farsa della Maroni.
Dunque, mistero. Nello stesso tempo il governo, che ben poco ha fatto di meritevole al di là dei lamenti di Pannella, si consuma in una interminabile agonia di scontri fratricidi, colpi di mano di singoli ministri, dichiarazioni contraddittorie, dissensi privati e pubbliche ritrattazioni e così via, mentre il volto paffuto di padre Barnum-Prodi ci dispensa soporiferi messaggi di concordia e rinnovata armonia.
In attesa di capire quale sia la libertà alla quale agogni il pluridecorato habituè di scioperi di fame e sete, gli Italiani si dibattono sempre più sconcertati e affranti in questa Repubblica gerontocratica, nella quale lo schioppato Padoa Schioppa, con onor del nome, si dichiara innamorato delle tasse o insulta coloro che non riescono ad affrancarsi dalle famiglie d’origine definendoli bamboccio; Dini, che con appannaggio pensionistico da sultano del Brunei, grazie alla carriera nel porto franco della Banca d’Italia, tuona contro le incivili pensioni di operai e impiegati; il Cavalier Banana, che sogna una Paperopoli, con tanto di Bassotti e commissario Basettoni e nel frattempo ha assunto a proprio servizio anche Amelia la fattucchiera che ammalia; il senatur Bossi, che con grande rispetto e riconoscenza per lo Stato che dà mangiare a lui e famiglia, ad una signora che durante un suo comizio a Venezia aveva esposto il tricolore, si rivolse invitandola a “metterlo nel cesso!”; Cossiga, benemerito Presidente della Repubblica, che dalla TV di stato definì Gava, ministro di un suo governo, “Boss, figlio di boss!”: Fini, che pur se più giovane dei precedenti sembra avviato, anche a detta dei suoi colonnelli, sul viale di una nota patologia senile quando nei panni del mitico Luigi XIV all’acme del delirio afferma “l’ètat c’est moi,” e quindi che non voterà mai una legge elettorale che ripristini la preferenza, - come dire, che il giudizio del popolo non conta un accidente; - Veltroni, che in pieno understament usa un nome d’arte, dato che fa De Amicis di famiglia, che sembra uscito dalle pagine del libro Cuore ed invischia in un improbabile e melenso buonismo a cui non credono neanche i bimbi della materna di Passirano Marmorito e reclama nella liste del PD niente meno che quella signora Lario, consorte di Berlusconi.
L’elenco potrebbe continuare, con il rischio di annoiare chi legge o di tenergli eccessivamente vivo il ricordo di cose che sicuramente preferirebbe dimenticare, quantunque e per non fare il gioco di chi poi ti dà poi del qualunquista, sol perché dichiari di non poterne più di questa replica della piazza di Marrakesh, con tanto di incantatori di serpenti, venditori di cianfrusaglia, lestofanti, sbirri travestiti da accattoni ed accattoni travestiti da sbirri, sciamani e giocolieri, sia bene dare contezza di ricordare molto bene la putrida palude nella quale ci muoviamo a fatica ogni giorno. E se poi con un tocco di fantasia tipicamente italica in questo suk di casa nostra siamo riusciti ad aggiungere ai classici figuranti marocchini anche pentiti e dissidenti lo zoo non potrà che guadagnarne merito.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,” recitava il Divino Poeta, “nave sanza nocchiero in gran tempesta, non donna di province ma bordello!”.

Legge e giustizia. Paradossi a confronto


Martedì, 9 ottobre 2007

Scott Masters, un quarantunenne di Farmington nel Missouri rischia sino a trent’anni di carcere per aver rubato una ciambella in un supermarket. Ne dà notizia l’ANSA stamani, senza commento alcuno, quantunque qualsiasi lettore a leggere una notizia del genere di commenti possa farne tanti, che spazino dalla demenzialità al rigore del sistema giudiziario americano, dal buonismo di casa nostra agli eccessi degli altri Paesi.
Certamente se l’incredibile notizia non fosse di per sé tragica, visto che per una stupida ciambella c’è qualcuno che rischia di vedere il sole a scacchi per parecchi anni, non potrebbe che sollevare ilarità, specialmente se confrontata con le cose italiane dove una pena del genere difficilmente viene irrogata persino ad un omicida. Poi, con tutti i ladri che abbiamo impuniti in giro, e non quelli di automobili o di piccoli beni materiali similari, ma di pubblico denaro – evasori, tangentisti, distrattori di fondi comunitari e così via – senza contare i falsificatori di bilanci, gli agiotatori, gli spacciatori di assegni a vuoto, che magari operano con gestione di denaro privato, ma comunque ingannano fraudolentemente il prossimo, c’è da credere che le dotazioni per la costruzione di nuove carceri dovrebbe assorbire una buona percentuale del bilancio dello stato, che in fatto di edilizia residenziale per mascalzoni e affini registra una cronica insufficienza.
Fatto è che in seguito alle disavventure del signor Masters, parecchi Americani, stanchi di questa giustizia esagerata, che sebbene sia abbastanza vero che in quel grande Paese non guarda in faccia a nessuno, ma che non può pretendere di applicare lo stesso metro nel punire uno spacciatore o un ladro di diamanti ed un occasionale ladro di merendine, – lo sfortunato cleptomane sembra essere incensurato, - hanno deciso che forse è il caso di prendere in seria considerazione l’eventualità di emigrare da quella che da sempre è stata decantata come la Terra delle opportunità e dei grandi sogni verso paesi forse un po’ più approssimativi, ma decisamente più equi e tolleranti.
Nelle prossime ore il nostro presidente del Consiglio, - padre Barnum-Prodi, - sarà ospite di Bush per una serie di colloqui. C’è da credere il buon Romano, mosso da condivisibile compassione per il caso del signor Masters, offrirà la disponibilità delle nostre Amate Sponde ad accogliere una buona dose del flusso migratorio che dagli USA sembra prepararsi, dato che siamo talmente abituati a furfanterie di ben altro livello che, casi come quello in questione, non troverebbero risalto persino nella cronaca locale dell’ultimo giornaletto di provincia. Il nostro è un Paese nel quale gli artefici di Tangentopoli, le vicende di qualche costruttore senza scrupoli, gli intrighi dei cosiddetti “furbi del quartierino”, le oscure manovre di banchieri ed assicuratori per il controllo della BNL, il calcio truccato, la svendita a prezzi più che ridicoli di case di proprietà di enti pubblici a politici e sodali, le intercettazioni telefoniche con finalità ricattatorie di migliai di cittadini ignari e quanto altro possa tornare alla memoria, sono passate per birichinate o al più bravate goliardiche, visto che la gran parte dei suoi autori è in totale libertà e, come si suole dire, se la gode alla grande. Questa disponibilità italiana, d’altra parte, non potrebbe che contraccambiare quella che il suolo americano riserbò agli inizi del secolo scorso a tanti nostri connazionali, che lì si recarono a far fortuna. Connazionali onesti e desiderosi di costruirsi una vita operosamente. Ma non va taciuto che nel pacco c’era anche qualche Capone, Costello, Bonanno, Di Maggio, Luciano che non si comportarono certo da stinchi di santo, - certo, sempre secondo l’eccessiva legislazione americana, dato che in Italia tanti loro nipotini continuano le discolerie con un occhio a metà tra l’indifferente e il tollerante.
La cultura dominante ci ha trasmesso dell’America l’immagine di un Paese libero, prospero, ma, allo stesso tempo, un po’ bizzarro e sovente eccessivo; in ogni caso, un Paese in cui le regole e le conseguenze delle loro infrazioni hanno un maggiore grado di certezza, sebbene – ed è qui il caso dirlo - le ciambelle non vengano sempre con il buco. L’Italia, invece, sedicente culla del diritto e nel quale di buco non se ne fallisce uno, brilla nel dare esempio di una legge e una giustizia che difficilmente ammettono di conoscersi nonostante consti siano parenti stretti. E così il principio la legge è uguale per tutti è solo uno slogan a futura memoria, come ebbe a dire un insigne giurista, visto che il signor Tutti non s’è mai visto nell’aula di un tribunale.

venerdì, ottobre 05, 2007

Santoro ed il Beato Mastella


Venerdì, 5 ottobre 2007
Non c’è più religione e non c’è più rispetto. Ormai tutti si prendono gioco di questa povera classe politica, - i Mandarini, come preferiamo chiamarli, come i grandi dignitari del fu Celeste Impero, - fatta di stacanovisti dediti al lavoro 24 ore al giorno, festivi compresi. Che poi, come i comuni mortali e senza esagerare, dato che anche loro vivono di modesto stipendiuccio, se si concedono una gita fuori porta, magari approfittando del passaggio in aereo offerto da un amico, - ché tanto l’aereo è vuoto e deve andare lo stesso, - allora scattino le critiche della gente, degli invidiosi e degli ingrati, fomentati da una razza cialtrona come quella dei giornalisti, che non perdono occasione per sbattere il mostro in prima pagina, ci pare onestamente fuori luogo.
Ma non bastava Grillo, quel mentecatto che si spaccia per comico, che preso ultimamente da delirio di onnipotenza invade le pubbliche piazze seguito da uno stuolo di matti come lui e comincia a sfanculeggiare questi novelli eroi del nostro tempo, senza pudore e senza che uno spauracchio di magistrato alzi il dito per rammentare che non si dicono le parolacce e, men che meno, se rivolte all’offesa dell’onorabilità dell’altrui persona.
Adesso, colmo dei colmi, ci si mette anche la televisione di stato, libera e indipendente, da sempre garanzia di indiscussa obiettività, ad intaccare l’onore ed il prestigio di questi santuomini, il cui vero ed unico torto è quello di essersi assunti il fardello dei mali di questo ingrato Paese per cercare di ridargli dignità.
Ieri, per esempio, c’è stato un certo signor Santoro che nel corso di una trasmissione su quella libera ed indipendente televisione di stato di cui si diceva prima, non ha fatto che mettere in cattiva luce uno degli uomini più prossimi alla santità del nostro panorama parlamentare, quel Clemente Mastella ministro della giustizia che, ultimamente pur di soddisfare la sua passione per le corse automobilistiche, pare si sia recato a Monza per l’annuale appuntamento con il Gran Premio d’Italia in compagnia di parenti in autostop, pur di non dar spago a commenti malevoli qualora avesse utilizzato un qualche mezzo a carico del pubblico bilancio al quale, lui sostiene, avrebbe diritto in ragione dell’incarico di governo.
Il Santoro, dimentico delle punizioni inflittegli giustamente dal Presidente del Consiglio del precedente Governo a causa delle sue innate intemperanze verbali, dimostrando un’irriconoscenza esemplare verso la parte politica che lo aveva difeso a gran voce al tempo in cui era stato allontanato dalla RAI, cosa si inventa? Ma una trasmissione di critica cruenta ai danni proprio del Beato Mastella, colpevole di aver disposto ai danni di un certo De Magistris, giudice di Catanzaro, un’inchiesta disciplinare con tanto di deferimento al CSM, a cui compete allontanarlo da quella sede. Non sappiamo cosa effettivamente abbia fatto questo reprobo nell’esercizio delle sue funzioni. Certo è che se un ministro della Repubblica decide di intervenire, peraltro così pesantemente, avrà le sue buone ragioni e nessun pennaiolo di turno si può permettere di mettere in discussione il suo operato: un tempo vigeva il detto “parola di re”, oggi che siamo in democrazia giustamente vi si è sostituito quello di “parola di ministro”. E che ministro!, “che da trent’anni fa politica”, come s’è affrettato a dichiarare con condividibile sdegno, “ vivendo anche la stagione del terrorismo e non ha mai fatto schifezze o ha scheletri nell’armadio”.
Ovviamente, le dichiarazione del Beato Mastella hanno per contrapposizione messo in luce quelle che debbono essere le segrete debolezze di Santoro, che la stagione del terrorismo l’ha vissuta in culla, che risulterebbe dedito a schifezze innominabili ed abbia avuto addirittura una proposta per interpretare il film Il collezionista d’ossi, data la quantità impensabile di scheletri rinvenuti negli armadi di casa sua.
Ci auguriamo che con la consueta obiettività e trasparenza, senza contare il radicato rispetto per la critica e la libertà di parola, venga caldeggiata dal Ministro un’indagine della magistratura, cui sta a capo, a carico del ribaldo, affinché finalmente gli Italiani sappiano senza ombra di dubbio con chi hanno a che fare quando pigiano il tasto del telecomando.
Degna di notazione del Beato Mastella è infine la profezia che ha rilasciato a margine del suo sdegnato quanto pacato intervento teso a ristabilire la verità dei fatti: “in tempi di antipolitica, come all'epoca della gioiosa macchina da guerra di Occhetto, finisce per vincere Berlusconi”, che ci pare il classico tiè, incarta e porta a casa rivolto agli alleati colpevoli di non aver proferito verbo a sua difesa.
Questa profezia nella sua sapiente implicazione ci ha involontariamente svelato un altro mistero della politica nostrana: vincono i comici e coloro che ne sono bersaglio, non le persone serie e schive al ridicolo collettivo. Peccato che quest’illuminazione non sia stata seguita da un’altrettante illuminante spiegazioni sulle ragioni di questo successo che, permanendo il mistero, a nostro avviso ci sentiremmo di spiegare come segue: sarà perché la gente è stanca dei tanti tromboni stonati che propinano fantastiche versioni sul trapasso di Cristo, secondo le quali sarebbe morto di freddo e non a causa delle ferite; oppure perché cambiano i gusti e, se proprio bisogna piegarsi a pratiche sodomitiche, tanto vale farlo ridendoci sopra?
Attendiamo indicazioni dal ministro.
(nella foto: il Beato Clemente Mastella in abiti da pellegrino, intento a consumare un parco pasto)

mercoledì, ottobre 03, 2007

Anche il Quirinale alle prese con il taglio delle spese


Mercoledì, 3 ottobre 2007
A qualcuno che ci chiedeva cosa pensiamo del fatto che il Presidente della Repubblica non abbia ancora preso posizione nei confronti di in un Governo e di un’opposizione, che, giorno dopo giorno, sembra facciano a gara nel dare sconveniente spettacolo di se stessi, l’uno con le continue risse al proprio interno su tutto e di più, gli altri con la martellante quanto monotona campagna di denigrazione e di dissenso nei confronti dell’operato del primo: entrambi con scarsissimi risultati nel dare concrete risposte ai reali problemi del Paese, non abbiamo saputo dare una spiegazione certa.
Lungi da noi l’idea che l’Inquilino del Colle abbia esaurito la voglia di criticare le indegne gazzarre di una maggioranza, espressione dei giochi di partito e non di un programma, dove padre Barnum-Prodi con bonario faccione non fa che distribuire valium ai cittadini schifati, - non si capisce più se è un prete circense prestato alla politica o un circense politico che sta facendo al governo il seminario per diventare tale alla fine di quest’esperienza, - o che abbia dimenticato che i suoi scarsi poteri prevedono comunque l’invio di messaggi alle Camere, c’è venuto il dubbio che la forte attenzione alla riduzione dei costi dell’apparato politico debba considerarsi responsabile di questo incomprensibile silenzio.
Vuoi vedere che i tagli ai costi della politica hanno proprio colpito la dotazione di cancelleria del Quirinale, con buona pace di chi reclamava maggior rigore nelle spese?
Il buon Napolitano, uso servir tacendo quantunque non provenga dalla Benemerita, probabilmente preso dal comprensibile disagio di dover ammettere davanti alla nazione che le matite, se le vuole, deve portarsele da casa, preferisce non dire e non scrivere, in silente sofferenza, con quell’aplomb che da lui ci si deve attendere.
Eppure qualche settimana fa era sembrato sul punto di cedere al represso bisogno di dire la sua, quando dopo l’ennesima sfuriata dei soliti protagonisti del bar sport Forza Italia, ha dichiarato alla stampa che era un po’ stufo di farsi tirare per la giacchetta, magari con rischio di vedersela strappare da qualche energumeno insistente.
Beh, - abbiam pensato, - adesso scriverà e ne dirà quattro ai discolacci, che invece di fare i compiti per i quali sono stati smistati e mantenuti nelle case dello studente di Palazzo Chigi, Montecitorio, Palazzo Madama e così via, passano le loro giornate sul muretto a ridere e scherzare, raccontare barzellette, discuter di scemenze o montare risse da monelli per ingannare il tempo.
Certo c’è da dire che papà Napolitano, che virtualmente rappresenta tutti i cittadini – il virtuale è d’obbligo, visto che la maggior parte ci risulta esasperata ed incazzata nera per lo squallido spettacolo che offre la politica, ma lui non assume una posizione conseguente – sa di avere a che fare con una generazione di fancazzisti, la cui unica preoccupazione è quella di fare gli studenti di lungo corso, magari a vita, e farsi mantenere dalle famiglie, per cui come ogni buon padre di famiglia è costretto a passare da un atteggiamento ora indifferente ora burbero, nella speranza che i marmocchi impenitenti capiscano e si dirottino sulla retta via.
Purtroppo attendersi i miracoli in un’epoca di radicato laicismo come la nostra è puramente illusorio e presto o tardi il buon Vecchio dovrà rompere gli indugi e recarsi in cartoleria per acquistare quella matita di cui al Quirinale non si vede più traccia. Ci permettiamo di suggerirgli comunque che all’Ikea, con grande spreco di risorse economiche, le matite sono messe a disposizione della clientela, gratuitamente, anche se non ne danno una intera, ma appena un quarto, che basta per la vergatura del sospirato messaggio di diffida.
Forti di una lunga esperienza di vita, non ci illudiamo certo che l’attesa pergamena sortisca l’effetto di mortificare il comportamento degli incalliti fannulloni, ma siamo certi che una scossa alla loro tracotante sicurezza di perseverare nel bengodi è probabile l’assesti. Senza contare, che al peggio e per quanto possa esser doloroso per un genitore, può sempre decidere di sbattere fuori di casa gli inguaribili refrattari.
Nel prendere atto della limitatezza di poteri riconosciuti al Padre degli Italiani, con l’occasione ci parrebbe opportuno proporre che un’eventuale riforma del diritto di famiglia, - che prima o poi s’avrà da fare non foss’altro che per adeguarsi ai tempi, - preveda qualche prerogativa in più per i genitori; magari quello di assestare qualche sonoro scappellotto alla bisogna, dato che non sempre le parole lasciano il segno e sono incisive negli animi dei più inguaribili scapestrati, così ristabilendo quel dignitoso potere di educazione cui deve essere dotato ogni padre di famiglia.