lunedì, novembre 30, 2009

Figlio mio, lascia questo Paese

Lunedì, 30 novembre 2009
Pubblichiamo una lettera di Pier Luigi Celli (nella foto, ndr), già direttore generale della RAI e attuale direttore generale della Luiss, che, alla luce dele vicende in atto da tempo nel nostro paese, scrive una lettera pubblica al proprio figlio invitandolo a trarre le conclusioni circa la vivibilità della nostra Italia.
Sono ormai anni che diciamo che il nostro è un paese che ha raggiunto un intollerabile grado di invivibilità, tant'é che lo abbiamo difinito "un paese senza speranza". I giovani traggano le conclusioni dalla lettura serena di questa lettera, che è una sorta d'invito scritta da Celli, che sentiamo il dovere di pubblicare nel nostro blog e che ha la nostra totale condivisone.
"Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.
Puoi solo immaginare la sofferenza con cui ti dico queste cose e la preoccupazione per un futuro che finirà con lo spezzare le dolci consuetudini del nostro vivere uniti, come è avvenuto per tutti questi lunghi anni. Ma non posso, onestamente, nascondere quello che ho lungamente meditato. Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati, il sentimento degli amici da tenere insieme, buoni e meno buoni che siano. E, ancora, l'idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro che incontrerai. Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l'affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza. Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all'attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai. E' anche un Paese in cui, per viaggiare, devi augurarti che l'Alitalia non si metta in testa di fare l'azienda seria chiedendo ai suoi dipendenti il rispetto dell'orario, perché allora ti potrebbe capitare di vederti annullare ogni volo per giorni interi, passando il tuo tempo in attesa di una informazione (o di una scusa) che non arriverà. E d'altra parte, come potrebbe essere diversamente, se questo è l'unico Paese in cui una compagnia aerea di Stato, tecnicamente fallita per non aver saputo stare sul mercato, è stata privatizzata regalandole il Monopolio, e così costringendo i suoi vertici alla paralisi di fronte a dipendenti che non crederanno mai più di essere a rischio.
Credimi, se ti guardi intorno e se giri un po', non troverai molte ragioni per rincuorarti. Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato - per ragioni intuibili - con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility. Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni, in grado di spingerti a incarichi delicati, magari critici per i destini industriali del Paese. Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico. Potrei continuare all'infinito, annoiandoti e deprimendomi. Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell'estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati. Probabilmente non sarà tutto oro, questo no. Capiterà anche che, spesso, ti prenderà la nostalgia del tuo Paese e, mi auguro, anche dei tuoi vecchi. E tu cercherai di venirci a patti, per fare quello per cui ti sei preparato per anni. Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché. Adesso che ti ho detto quanto avrei voluto evitare con tutte le mie forze, io lo so, lo prevedo, quello che vorresti rispondermi. Ti conosco e ti voglio bene anche per questo. Mi dirai che è tutto vero, che le cose stanno proprio così, che anche a te fanno schifo, ma che tu, proprio per questo, non gliela darai vinta. Tutto qui. E non so, credimi, se preoccuparmi di più per questa tua ostinazione, o rallegrarmi per aver trovato il modo di non deludermi, assecondando le mie amarezze. Preparati comunque a soffrire.
Con affetto, tuo padre".

sabato, novembre 28, 2009

Dopo il no al fumo, vietato scaccolarsi al volante


Sabato, 28 novembre 2009
Ma va luarà, balabiot! Sarebbe il caso di rispondere a quella testa fine della Lega che, in vena di protagonismo, s’è inventata l’ennesima boutade contro i fumatori, una proposta di legge che dovrebbe rendere sanzionabile – cinque punti di patente e 250 euro di multa – l’uso della sigaretta durante la guida.
Evidentemente al promotore della proposta di legge, probabilmente non fumatore e al quale sfugge che i pericoli alla guida sono da attribuire a ben altri comportamenti scorretti da parte degli automobilisti, l’idea sarà sembrata un toccasana nella lotta a favore della riduzione degli incidenti stradali. Un po’ come l’idiota proposta, -purtroppo divenuta legge a tutti gli effetti, - di tal Nicolazzi, ex ministro della Repubblica, di limitare la velocità a 130 km orari sulle autostrade. Naturalmente quella degli altri, visto che lui fu sorpreso a sfrecciare allegramente a oltre 200 km orari in direzione di Borgomanero a qualche settimana dal varo ridicolo provvedimento.
Se il tapino anziché sfogare l’indole crociata contro le sigarette prestasse maggiore attenzione alle infrazioni ormai abituali di chi guida, - mancata segnalazione di cambio corsia o di direzione, sosta in doppia e tripla fila, occupazione caparbia della corsia centrale nei tratti autostradali a tre corsie, mancata precedenza agli incroci, regolare inutilizzo delle luci fuori dai centri abitati, indebita occupazione delle aree di sosta riservate agli invalidi, trasporto di animali in abitacolo senza l’utilizzo di sistemi d’isolamento, percorrenza delle corsie d’emergenza, uso degli abbaglianti in autostrada incrociando altri veicoli, e così via, - peraltro scarsamente rilevate e perseguite da chi è preposto alla vigilanza del traffico stradale, si renderebbe conto che il fumo è l’ultimo dei veri problemi ad incidere sull’infortunistica stradale.
Ma chi vive nell’agio e nelle mollezze del palazzo preferisce, pur di far parlare di sé, inventarsi argomenti di facile presa nell’immaginario collettivo, piuttosto che imporre e chiedere una vigorosa stretta nel rilascio delle patenti di guida, che autorizza di frequente incapaci di guidare persino una bicicletta e, dunque, killer al volante pericolosiper sé e per gli altri.
E’ evidente che le accresciute dimensioni del traffico e il dispensamento di patenti facili ha reso le condizioni della circolazione veicolare decisamene più pericolosa. Ma attribuire ad una sigaretta una pericolosità maggiore di quella che discende dalla ricerca di una stazione sull’autoradio o dall’inserimento di un cd in un lettore o alla sbirciata ad un navigatore, per esempio, francamente, se non fosse un tragico segnale della barbarie culturale che alligna tra i nostri rappresentanti in parlamento, non potrebbe che motivare uno scomposto scompisciamento d’ilarità.
Nello stesso tempo è sconvolgente dover constatare come tra i mille argomenti meritevoli di attenzione si individuino da parte di chi macina oltre 30.000 euro mensili di pubblico denaro sotto forma di appannaggio, contributi e tasse, balordaggini di questa fattura, che immediatamente divengono meritevoli di dibattito tra pro e contro e distolgono l’attenzione da temi più meritevoli d’approfondimento, - come l’infame proposta di legge di limitare il sussidio di cassa integrazione agli immigrati, quasi si trattasse di lavoratori e di esseri umani d’infimo rango e non avessero, invece, diritti analoghi a coloro con i quali lavorano accanto ma che recano “cittadino italiano” sul documento d’identità.
Non sappiamo la fine che sarà riservata alla questione. Certo è che un paese come il nostro, costretto a subire da mattino a sera e giorno dopo giorno un livello così mediocre di politica, non è più alla frutta, ma è già all’ora del the, almeno per chi se lo può permettere.Al prode leghista autore della proposta di legge, comunque, vorremmo suggerire un nuovo argomento su cui chiedere al parlamento di legiferare quando avrà finito d'occuparsi di sigarette e cicche. Chieda la promulgazione di una legge che inibisca di scaccolarsi alla guida, magari fermi ad un semaforo in attesa del verde, con sanzioni che prevedano l’immediato ritiro della patente e l’applicazione dell’art. 527 del codice penale, - atti osceni in luogo pubblico, - per i trasgressori, essendo questo un altro pericoloso vezzo diffuso tra gli automobilisti italiani. Questa incivile pratica di rilassante pulizia delle coane rende l’uso del volante assai precario, dato che costringe a guidare con una sola mano il trasgressore, e genera negli automobilisti astanti comprensibili convulsioni da conatini di vomito, che rendono la guida assai insicura.

lunedì, novembre 23, 2009

Il governo ordina: niente merenda sul lavoro


Lunedì, 23 novembre 2009
A tutti sarà capitato di sperimentare il famoso modo di dire s’è toccato il fondo! In realtà, è proprio quando si ritiene di aver toccato il fondo che ci si rende conto che, gratta e gratta, di fondo ce n’è ancora, e chissà quanto.
E’ quel che succede con il governo con i suoi vacui e litigiosi figuranti, che per ciò che fanno e dicono sembrano aver toccato il fondo, ma in realtà giorno dopo giorno ci fanno scoprire limiti che non immaginavamo affatto e che la dicono lunga sull’agonia che saremo ancora costretti a subire fino a quando un refolo di recuperata dignità non ci libererà di un’accozzaglia di spara cazzate priva del minimo pudore .
Così, dopo le risse chiozzotte tra un Brunetta indispettito dalle taccagnerie di Tremonti e la solita servitù di casa Berlusconi, pronta a scendere in campo in ogni circostanza per difendere il proprio padrone, le consuete e disgustose litanie di un premier disposto a vendere l’anima al demonio pur di non farsi processare, adesso scende nell’arena un altro personaggio di questa compagnia di commedianti dell’arte, tal Gianfranco Rotondi, già fondatore della nuova DC, che ha sempre taciuto e che avrebbe fatto bene a continuare a tacere, che si scaglia, - udite, udite!, - contro il malvezzo dei lavoratori di farsi uno spuntino per pranzo, così determinando con quell’abitudine un gravissimo pregiudizio alla produttività del lavoro.
«La pausa pranzo è un danno per il lavoro, ma anche per l'armonia della giornata. Non mi è mai piaciuta questa ritualità che blocca tutta l'Italia», ha sentenziato Rotondi, ministro per l'Attuazione del programma di governo, ospite del programma tv web KlausCondicio, che ha aggiunto: «Non possiamo imporre ai lavoratori quando mangiare, ma ho scoperto che le ore più produttive sono proprio quelle in cui ci si accinge a pranzare».
Non sappiamo in virtù di quale miracolosa folgorazione il ministro abbia tratto questa illuminante considerazione, anche se c’è da credere che nel rilasciare questa sentenza il dotto Rotondi deve aver sottovalutato che fare il ministro, con tutto ciò che ne consegue in termini d’orari, stress, fatica fisica, sia cosa ben diversa che fare il metalmeccanico, magari a turni, o l’addetto alla movimentazione bagagli in un aeroporto. Se poi invece con la boutade alludeva alla necessità che i lavoratori si caccino nel capoccione che è ora di dare un’altra stretta alla cintura, allora il ministro va ringraziato per la delicatezza del linguaggio e per l’eleganza dell’eufemismo, - così inusuale in un epoca in cui dare dello stronzo al prossimo è diventato vezzo generale.
«In Germania, ad esempio, per incentivare la produttività» – ha precisato Rotondi - «la pausa pranzo in alcuni posti di lavoro dura mezz'ora, mentre si estende a 45 minuti per chi lavora oltre le 9 ore. Tuttavia, secondo un recente sondaggio, un quarto dei tedeschi trascorre la propria pausa pranzo lavorando. Anche in Inghilterra molti dipendenti vi rinunciano o la riducono, sia nei minuti che nel numero di pause nel corso dell'intera settimana». Naturalmente sarebbe stato opportuno far notare all’illuminato ministro che in tempi non recenti, ma non per questo con abitudini non recuperabili, vi erano lavoratori impiegati nella coltivazione del cotone che non mangiavano affatto, né a pranzo né a cena, con il duplice vantaggio di realizzare una produttività invidiabile e un profitto marginale per i datori di lavoro a dir poco straordinario.
Alla stessa stregua e considerato che la musica sembra corrobori l’operosità, si potrebbe suggerire che negli stabilimenti Fiat, - giusto per fare un esempio, - l’abolizione della pausa pranzo potrebbe associarsi alla richiesta d’intonare qualche gospel, come ulteriore contributo alla produttività del lavoro. E visto che le idee non mancano, perché non abolire anche la doccia a fine lavoro? Si pensi al grande risparmio d’acqua calda e al calo dell’inquinamento indotto per produrla. D’altra parte un operaio rimane operaio e un buon olezzo di sudore non ne sminuirebbe né i meriti né il valore. Poi, affamato e puzzolente, restituirebbe al mondo il cliché con il quale la storia ce l’ha tramandato, mentre oggigiorno, impomatato e profumato, stentiamo a distinguerlo da un bancario o un operatore di borsa qualunque.
In ogni caso e comunque finisca questa nuova querelle, - quasi non ce ne fossero abbastanza coi tempi che corrono, - giusto per concludere con un proverbio, si potrebbe dire che è proprio vero che la madre degli stupidi è sempre incinta.

(nella foto, Gianfranco Rotondi, ministro per l'attuazione del programma)

giovedì, novembre 19, 2009

La qualità dei servizi della sesta potenza mondiale


Giovedì, 19 novembre 2009
E mentre i soliti sbruffoni di casa nostra si riempiono la bocca nel reclamizzare il sesto posto dell’Italia nella classifica delle potenze mondiali, naturalmente attribuendosi la paternità di quest’improbabile balzo in avanti mai dettagliatamente illustrato con dati di fatto convincenti, la Spagna in queste ore e la Finlandia qualche settimana fa annunciavano importanti iniziative in materia di servizi di connessione a banda larga su base universale, gli stessi servizi che nel nostro paese pavone sono stati bocciati la scorsa settimana dal CIPE per indisponibilità di fondi.
Qualcuno potrà sostenere che i 100MB previsti per tutti i cittadini finlandesi probabilmente sono un esagerazione per una realtà come la nostra dove moltissime comunità non sono raggiunte neanche dall’ADSL, ma non ritenere apprezzabile lo sforzo di Zapatero, che ha appena varato un piano di ammodernamento per garantire a tutti i cittadini almeno una connessione a 1MB, sarebbe un torto al buon senso.
In prima battuta, perché gli investimenti di questa natura sono sicuramente un significativo contributo al rilancio dell’economia, sotto forma di maggiore occupazione e sviluppo di nuovi servizi, con evidente valore aggiunto. Secondariamente, perché la connettività è sempre più in sé un servizio imprescindibile di modernità e di accelerazione di accesso ad altri servizi, che vanno dalla telefonia all’e-commerce, dall’informazione alla gestione quotidiana dei rapporti con banche, assicurazioni, stato e quant’altro. Ed è innegabile che questo processo equivale alla rivoluzione generatasi con l’elettricità, considerato che consente standosene comodamente a casa propria in poltrona ad usufruire ormai anche di servizi essenziali, come la telemedicina.
Nel nostro paese, invece, dove tutto è difficile e complicato, molto spesso dai bassi interessi della politica clientelare, queste innovazioni trovano strada in forte salita, vuoi per il perdurare di un monopolio imperfetto di Telecom nel sistema telefonico nazionale, - non certo scardinato nello zoccolo duro con la privatizzazione della vecchia SIP e dell’intero sistema delle telecomunicazioni, - vuoi per il vezzo assistenzialista delle compagnie operanti, che piangono costantemente miseria e chiedono che sia lo stato a sobbarcarsi i costi dell’ammodernamento della rete. Poco rileva scoprire, - con il senno di poi, se non del molto poi, - che il sistema tariffario italiano è tra i più speculativi d’Europa. Le tariffe praticate, infatti, sia nella telefonia mobile che nell’erogazione di servizi di connessione, risultano largamente al di sopra di quelle degli altri stati membri, ma poco si fa per imporre il rispetto di prezzi più accessibili e meno speculativi. Che inoltre a questi prezzi corrispondano servizi d’infimo ordine, non importa a nessuno e men che meno a quel fantasma dell’Autorità garante, che anziché l’utenza sembra stata creata appositamente per garantire i gestori di telefonia.
Eppure sarebbe molto facile individuare l’antidoto a questa situazione palesemente sconcia. Il baco sta nella presenza di posizione dominante della Telecom, proprietaria delle centrali di telefonia, che costituisce il vero e proprio collo di bottiglia nel processo di effettiva liberalizzazione del mercato. A mero promemoria basterà rammentare che questo gestore non solo impone un canone non giustificabile per il servizio erogato ad ogni singolo utente, ma denuncia ben 66,7 miliardi di utili (in calo del 3% rispetto all’anno 2008), che considera un risultato negativo al punto da azzerare ogni investimento non per ammodernamento ma persino per rendere minimamente decente il servizio che già dà. E chi avesse qualche dubbio per constatare la qualità da terzo mondo dei servizi Telecom abbia la compiacenza di recarsi a Serrate in Calabria o a Misilmeri in Sicilia o Bultei in Sardegna, giusto per indicare località a casaccio. Nel frattempo questa compagnia di poveracci (visto il magro livello degli utili registrati) ingannano sotto gli occhi dei Garanti della Pubblicità e delle Telecomunicazioni gli Italiani, spendendo la faccia del simpatico Abatantuono, a cui pagano qualche centinaio di milioni, per raccontare frottole sulle mirabolani prestazioni dell’ADSL a 7MB, se non addirittura a 20MB, alla portata di tutti.
Nel frattempo, mentre i treni tra Catania e Palermo impiegano oltre quattro ore per compiere i 196 km che separano i due capoluoghi, o un’ora e trenta per i 56 km tra Siracusa e Catania; mentre in qualche caso occorra ricorrere al piccione viaggiatore per comunicare, qualcuno pensa a faraonici progetti di ponti sullo stretto di Messina per collegare strade di borbonica memoria, perché anche attraverso queste ridicole ostentazioni di onnipotenza passa la gloria e la riconoscenza dei fessi.
In questa prospettiva ai cacciaballe dell’Italia sesta potenza mondiale bisognerebbe chiedere se nel reclamare la posizione in classifica hanno tenuto conto dello stato qualitativo dei servizi, del tasso di disoccupazione, della libertà di stampa, della corruzione politica e dei tanti malanni che affliggono il Belpaese, perché l’impressione è che se si tenesse conto anche di questi parametri forse saremmo al sesto posto, ma qualora nel leggere la classifica si cominciasse dal basso.

mercoledì, novembre 18, 2009

La disfatta della salute


Mercoledì, 18 novembre 2009
Ore 7:30 di un giorno qualunque di novembre. Il tempo è bello, nonostante sia autunno inoltrato, e il sole che illumina il parcheggio dell’ospedale di Avola lascia presagire una giornata calda, calda in tutti i sensi.
Il parcheggio è stracolmo di auto, nonostante l’ora mattiniera, e tutto lascia intuire che la coda agli sportelli di prenotazione di visite specialistiche ed analisi di laboratorio debba essere consistente.
Infatti, - roba da non credere ai propri occhi, - alle prenotazioni la folla è immensa, resa più numerosa di quanto non sia in realtà dalle ridotte dimensioni di quest’ospedale di provincia, già per altro nell’occhio del ciclone a causa dei tagli decisi dall’amministrazione regionale di Raffaele Lombardo, indebitata sino al collo per la spesa sanitaria.
Dopo una ventina di minuti di coda, tra spintoni e impazienti assistiti, è finalmente il nostro turno per il pagamento del ticket. Da qui passiamo ad una saletta di quindici metri quadri scarsi con due fori in una parete, su cui sta rispettivamente scritto “accettazione” e “ritiro esiti”, dai quali, tra un ondeggiare di teste e di braccia, non si vede anima viva. Nella saletta siamo circa una sessantina di persone, accalcate, pigiate come pesci in scatola, già sudaticce a causa del tempo clemente e della temperatura tropicale del condizionamento a manetta, tutte in attesa di farci registrare e poi poter accedere al laboratorio di analisi. Fuori dalla stanzetta, un drappello di ultimi arrivati spinge e sbraita nel tentativo di un impossibile accesso, forse convinto che così facendo l’angusto vano lieviti e riesca ad accogliere anche loro. In un angolo della stanzetta una macchinetta distributrice di bigliettini, sulla quale tutti tentano di avventarsi, con il risultato che chi è riuscito a conquistare il trofeo non riesce più a liberarsi dalla stretta della gente che assedia l’apparecchio e rimane imprigionato sventolando il bigliettino marca-turno come un inutile gagliardetto.
In un angolo, un vecchietto che piange sommessamente e che si lamenta, lui affetto da cancro e che a stento si regge in piedi, di doversi sottoporre a quest’umiliazione una volta al mese, ogni volta che deve effettuare gli esami di routine.
Alla fine della giornata si conteranno oltre 170 persone presentatesi al laboratorio d’analisi, con attesa media di circa due ore complessive per la trafila burocratica, il turno e circa tre minuti per il prelievo di sangue.
Di fronte a questi spettacoli, che non richiedono commento alcuno, c’è da chiedersi perché i laboratori e gli studi medici della struttura pubblica si siano ridotti in questa maniera.
La risposta è tragicamente agevole. La Regione Sicilia, che non brilla certa per efficienza e cristallina gestione, ha esaurito i fondi per i rimborsi ai centri convenzionati e il cittadino, se vuole evitare di pagare o usufruire della prestazione alle calende greche, deve ricorrere direttamente alla struttura ospedaliera, che, in tutta evidenza, è assolutamente impreparata per accogliere un flusso di assistiti così massiccio e improvviso.
Naturalmente questa situazione non è un caso isolato nel nostro paese, ma disgraziatamente è una regola oramai consolidata, che riguarda tutte le realtà e che discende da decenni di politica sanitaria pazzesca e clientelare, grazie alla quale, anziché potenziare i servizi pubblici, si è preferito incentivare le strutture private in regime di convenzione. Ciò ha determinato un enorme flusso di denaro verso i privati, sotto forma di rimborso prezzi crescenti delle prestazioni erogate, trascurando l’effetto calmierante sul prontuario prestazionale che sarebbe derivato dall’esecuzione in economia delle prestazioni medesime.
Oggi la spesa sanitaria ha raggiunto livelli di spesa insostenibile, con il risultato che le strutture convenzionate, in fortissimo ritardo di incassi dei rimborsi, o di fronte all’esaurimento dei budget di spesa regionali, attuano una sorta di sciopero bianco, consistente nella richiesta di pagamento all’utenza del corrispettivo per l’effettuazione di prestazioni immediate o il posticipo a tempi biblici della prestazione in regime convenzionale.
Come al solito a farne le spese è il cittadino, quello meno abbiente, che vede mortificato il diritto ad un’assistenza sanitaria efficiente e tempestiva, con buona pace per il tanto decantato diritto primario alla tutela della salute, e con l’obbligo a sottomettersi a pratiche prestazionali e burocratiche da terzo mondo.
Non c’è che dire. Nel pieno esordio del terzo millennio l’Italia conquista un altro sciagurato primato nella hit parade della vergogna, mentre come accade solitamente coloro che possono guardano con distacco alla problematica, tanto raramente avevano usufruito del servizio pubblico o della sanità convenzionata e questo degrado sicuramente non produrrà alcun effetto.
(nella foto, il complesso ospedaliero del G. De Maria di Avola)

lunedì, novembre 16, 2009

Messaggi ai sordi

Lunedì, 16 novembre 2009
«Ci si schieri liberamente a destra o a sinistra, quello che conta è il senso della nobiltà della politica, dei limiti anche nel ruolo alto e insostituibile della politica, la dedizione all'interesse generale, quel che più conta è la moralità della politica», ha detto il capo dello Stato ieri, inviando uno dei tanti messaggi che periodicamente riserva alla nazione.
Ancora qualche giorno fa, nel corso dell’inaugurazione della linea ad alta velocità tra Napoli e Roma, che riduce i tempi di collegamento tra la capitale e la città vesuviana a 70 minuti, aveva esaltato i significativi passi avanti nel processo di ammodernamento in corso nel paese.
Sarebbero messaggi di speranza e di elevato riconoscimento qualora il benemerito Presidente non avesse contezza della realtà del paese, della qualità della politica che lo circonda e delle camarille affaristiche che ammorbano la vita quotidiana.
Sicuramente l’ulteriore passo avanti nella realizzazione di una rete ferroviaria ad alta velocità merita il plauso dei cittadini e del Colle, che di quei cittadini e l’espressione di sintesi. Tuttavia, non possono tacersi i gravissimi ritardi con i quali si arriva al suo compimento e lo stato di profondo sottosviluppo in cui versa ancora l’intero Sud del paese, che effettivamente conferma come Cristo si sia fermato ad Eboli, - come recita un famoso romanzo di Carlo Levi. Sì, perché da Napoli a Reggio Calabria esiste ancora un collegamento autostradale da terzo mondo, i cui lavori d’ammodernamento languono, e in Sicilia per compiere il tragitto da Catania a Palermo (198 km), occorrono quasi 4 ore su gomma e quasi 5 ore su ferrovia. Tutto questo mentre più di qualche esaltato populista parla di ponti sullo stretto di Messina, che quando realizzato avrà il sapore di un grattacielo i pieno deserto.
Sul senso della nobiltà della politica, poi, è veramente il caso il stendere un velo pietoso, dato che parlare di nobiltà allo stuolo di Boscimani che infestano il Parlamento e le istituzioni del paese, francamene, non può che generare un mesto sorriso di compatimento per chi fa di queste affermazioni, quasi venisse occasionalmente da un altro mondo e non sapesse la qualità dei polli con i quali ha a che fare o non assistesse allo squallore quotidiano che ci riserva «la politica di destra e di sinistra».
Forse sarebbe il caso che chi fa da portavoce al Benemerito, prima di scrivergli i discorsi e di mettergli in bocca queste affermazioni un po’ ipocrite, facesse lui per primo una ricognizione a Montecitorio o una gitarella a Siracusa, - giusto per citare degli esempi, - e prendesse atto della presenza di qualche crapulone intento a mangiare mortadella nel tempio della politica, o dello stato ridicolo e vergognoso di quella che arrogantemente viene chiamata autostrada Siracusa-Rosolini, che definire un’infamia equivarrebbe a fare un complimento a chi l’ha realizzata ed alle istituzioni che hanno licenziato l’opera e pagato i lavori.
Dedicarsi interamente alla politica ha significato per un periodo non breve della nostra storia avere un forte senso della missione, spirito di servizio e sacrificio prima e al di là di ogni legittima ambizione personale, ha aggiunto Napolitano sempre in tema di politica, al quale deve essere sfuggito l’abbarbicamento alla poltrona di certi personaggi e l’esasperato tornaconto che ha motivato la cosiddetta discesa in campo di cero personaggi, di coloro che hanno scambiato la politica per un passaporto d’impunità e per la camera iperbarica delle loro malefatte.
Presidente, s’informi e s’aggiorni: questo che rappresenta non è un paese civile nel quale la politica onesta e sana, espressione della dedizione alla cosa pubblica, trova realizzazione, magari con il bisogno di qualche taratura periodica. Quello che rappresenta è un paese marcio, infettato dai mille interessi personali di chi lo governa e di chi lo ha governato; un paese bisognoso di rifondazione nel solo nella politica, ma soprattutto nella cultura dei suoi cittadini, abituati da decenni di malgoverno e di imbrogli a certificare per regola ogni abuso, malversazione, raccomandazione, particolarismo e quanto di più deleterio per la convivenza si possa immaginare.

sabato, novembre 14, 2009

Fango eravamo e fango restiamo


Sabato, 14 novembre 2009
Il copione è stato rispettato ancora una volta. Un nuovo disegno di legge sta per arrivare in parlamento e, com’era stato ampiamente preannunciato, ancora una volta dovrà tentare di salvare il presidente di questa sfasciata repubblica, al secolo Silvio Berlusconi da Arcore, dai processi che lo vedono imputato per reati vari noti al mondo intero.
Ciò che sconvolge in questa vicenda di squallore senza fine non è comunque la pervicacia con la quale l’interessato continua ad insistere nel tentativo. Non è il servilismo lecchino con il quale i suoi accoliti si prestano a questa grottesca farsa che ingessa il parlamento e la vita politica nella trattazione di argomenti che di parlamentare e di politico hanno ben poco. Non è la mancanza di dignità con la quale servi e galoppini prestano il proprio nome a disegni di legge incostituzionali e, di per sé stessi, eversivi delle regole democratiche. E’ l’indifferenza allucinante con la quale il popolo assiste inerte al massacro delle istituzioni e alla violenza che viene esercitata sulla Carta costituzionale, quella Carta che, se solo trovasse una minima percentuale delle attenzioni che vengono riservate alle mascalzonate commesse da chi governa, che pretende di uscirne indenne, consentirebbe a tanti di lavorare, di non essere discriminati in funzione del sesso o delle convinzioni religiose o della fede politica.
Ecco, il problema gravissimo di fronte al quale si trovano i cittadini non è più limitato alla recalcitranza di un presunto delinquente di sottoporsi al giudizio di un tribunale, ma nell’incapacità di dar fondo alla propria dignità d’individui e ricorrere alla giustizia sommaria per risolvere una questione che ormai è una mortale cancrena incombente nella loro esistenza quotidiana.
Siamo un paese con le pezze alle terga, in mano ad una banda di rissosi balordi che pensano solo a sé stessi e ai loro inconfessabili interessi. Balordi che hanno rubato, imbrogliato, malversato e hanno commesso sconcezze da galera per i comuni mortali, che reclamano impunità a guisa di appartenenti ad una casta intoccabile, insediatasi non per volontà, - ma sarebbe il caso di parlare d’insipienza, - degli elettori, ma per volere di un’entità divina, animata da malevolenza e disprezzo verso coloro che non occupano posti di comando.
In forza di questa predestinazione divina, a questo clan tutto è consentito: rubare, stuprare, praticare sodomia e meretricio, accompagnarsi a prostitute e travestiti, drogarsi, offendere nemici e avversari, spendere e spandere a piacimento il denaro sottratto dalle tasche di chi veramente lavora con tasse e balzelli e altri espedienti similari. Tutto ciò, che costituisce violazione delle regole della convivenza civile e, dunque, è sanzionato dalle leggi, trova applicazione solo nei confronti del cittadino comune, di quel miserabile cialtrone cui compete solo stilare una croce su un simbolo o un nome, quando la rappresentanza di questo potere assoluto decide sia giunto il momento di inscenare l’ennesima farsa e chiamare gli imbecilli alle urne.
Questi imbecilli non si comportano da cittadini, attenti e responsabili, oculati valutatori dell’operato della casta, ma da beoti lobotomizzati, da coglioni pronti a tracannare tutte le falsità e le idiozie sciorinate dal furbo di turno, ubriachi irresponsabili, che guardano solo all’immagine che vende il ciarlatano e non alla effettiva consistenza di ciò che ha fatto o che promette. Questi cittadini, considerati dal potere una sottospecie della razza umana, così comportandosi avallano ogni scelleratezza e nulla hanno il diritto di reclamare. Sono solo schiavi d’infimo rango, senza spina dorsale, che dimostrano d’amare di poter sguazzare nella melma della porcilaia in cui sono costretti dal potere. Zombie ripugnanti, capaci solo di cannibalizzarsi l’un l’altro, ma docili pecore al primo schiocco di frusta del domatore di turno.
E non v’è certo bisogno di scomodare i Vangeli, che ricordano come fango eravamo e fango ritorneremo, per tirare le somme. Ciò che dovrebbe contare non è ciò che fummo o ciò che saremo, quanto ciò che in questa vita effettivamente siamo. E’ un quadro desolante quello che risulta, capace di generare solo ribrezzo verso se stessi: che sofferenza doversi dichiarare Italiani!

mercoledì, novembre 04, 2009

I nuovi crociati

Mercoledì, 4 novembre 2009
Visto che mancavano argomenti su cui aprire un nuovo filone di dibattito politico, la sentenza della UE, che ha sancito che il crocefisso è “una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni”, è diventato il tema principale di confronto.
La disoccupazione, la miseria nella quale ci ha trascinato questo centro-destra incapace e arrogante, lo strangolamento dell’economia con i perversi meccanismi di credito, il peso della tassazione e tutti i grandi temi sui quali verrebbero fuori le insufficienze plateali di un governicchio di bulli (e pupe) non trovano spazio nelle cronache giornalistiche, né nei talk show diffusi come cloroformio su tutte le reti televisive del paese, nei quali schiere di idioti saccenti scatenano la critica e lo sdegno per eventi marginali della vita sociale e non proferiscono verbo sulle realmente questioni importanti per la vita dei cittadini.
Sicché il divieto di affiggere il crocefisso nelle scuole e negli uffici è diventato l’argomento del giorno, con tanto di crociati e benpensanti a dire la loro sul sopruso “culturale ed etico” perpetrato dall’UE alle tradizioni storiche del Belpaese.
Cosa possa centrare una decisione di civiltà della UE con le presente violazioni dell’etica e della cultura è difficile spiegarlo anche per gli indefessi difensori del crocefisso, che non si rendono conto che in un’epoca di convivenza multietnica ciascuno ha il diritto di professare la confessione che più lo aggrada, senza dover subire l’imposizione di una fede dominante e che, per essere professata, non ha certamente bisogno d’essere ostentata all’ufficio del catasto o al commissariato di polizia.
Né rendono più solida la teoria del crocefisso imposto nei luoghi pubblici le tesi di reciprocità invocate da qualche intellettualoide con la propensione all’accattonaggio culturale: che significato ha invocare un principio di reciprocità nei confronti dei popoli che professano diversa confessione? Sarebbe forse legittimo e plausibile rimuovere il crocefisso solo a condizione che i buddisti rimuovessero i simboli della loro religione? Cosa ci azzecca, - come saccentemente ha fatto un certo dottor professor Alessandro Meluzzi, specialista in psichiatria e psicologia nonché psicoterapeuta ed eminente salottiero delle reti Mediaset, - il paragone tra il crocefisso e la mezza luna turca?
Probabilmente, - e sperabilmente, - i detrattori della sentenza della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, alla quale si era rivolta una signora per ottenere la decisione di cui adesso si grida allo scandalo, omettono di porre attenzione a ciò che costituisce un principio fondamentale della laicità democratica, che cioè il mondo moderno impone una netta e in equivoca separazione tra stato e chiesa. Se così non fosse si realizzerebbe uno stato nel quale la commistione tra istituzioni e religione sarebbe soffocante e arretrerebbe la nazione a livello di un qualsiasi Iran, nel quale gli ayatollah dettano legge e impongono ai cittadini la supremazia della confessionalità e delle sue regole nel processo di normale convivenza civile.
D’altra parte, qualora fosse sostenibile un principio d’indottrinamento coatto dei cittadini nella nostra realtà, rappresentato dai simboli religiosi affissi in ogni dove, si commetterebbe una gravissima violazione dei principi di libertà riconosciuti dalla nostra Costituzione verso coloro che professano altra fede e potrebbero subire violenza dalla presenza imposta di simboli nei quali non si riconoscono.
Non mancano comunque le reazioni di eminenti esponenti del governo incarica alla sentenza della Corte europea. Per il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, «la presenza del crocifisso in classe non significa adesione al cattolicesimo, ma è un simbolo della nostra tradizione». Sulla stessa linea il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli e quello della Giustizia Angelino Alfano. E' critico persino il presidente della Camera Gianfranco Fini: «Mi auguro che la sentenza non venga salutata come giusta affermazione della laicità delle istituzioni, che è valore ben diverso dalla negazione, propria del laicismo più deteriore, del ruolo del Cristianesimo nella società e nella identità italiana».
E queste prese di posizione, queste sortite vacue e prive di fondamento, la dicono lunga su quanto sia perigliosa la via per la realizzazione della vera democrazia e, soprattutto, per l’effettiva concretizzazione dei principi di libertà che al fondamento della democrazia soggiacciono.
(nella foto, Alessandro Meluzzi, psichiatra, psicologo e psicoterapeuta ospite ricorrente del talk show Mediaset)

lunedì, novembre 02, 2009

Ti dò se me la dai


Lunedì, 2 novembre 2009
Elio Rossitto, docente di economia all’università di Catania, facoltà di Scienze Politiche, e docente al Kore di Enna, è nell’occhio del ciclone. Una storia di sesso tentato, - almeno stando alle accuse di una studentessa che frequentava i suoi corsi, - in cambio di un presunto favore al successivo esame di economia.
La storia è di quelle appetitose, dato che a Catania, a parte qualche scippo, una rapina episodica, qualche morto ammazzato nella guerra tra clan mafiosi, strade dissestate e cumuli di spazzatura qua e là, non succede granché. Allora la storia, un po’ boccaccesca e po’ comica, diventa subito cronaca e oggetto di animate discussioni e confronti nei bar, nelle strade, nei luoghi di lavoro e, ovviamente, in università, dove il professor Rossitto è personaggio assai noto non solo come docente, ma come ex consigliere di presidenti di Regione, Lombardo compreso, tant’è che alcuni anni or sono si trovò coinvolto in un caso di tangenti al punto da rischiare decisamente grosso.
Sebbene il caso in cui si vede coinvolto sia tutto da chiarire e, soprattutto, da dimostrare, in città non si parla d’altro, del professore con il vizietto del baratto, del docente stregato dalle sottane al punto da non farsi scrupolo dal mettere sul piatto, - ma sarebbe il caso di dire sul materasso, - promozioni facili e voti eccellenti a quante si rendevano o si sarebbero rese disponibili alle sue avance.
Certo, nella vicenda in corso sarà interessante capire la ragione per la quale la signorina che lo accusa abbia accondisceso all’incontro piccante e poi si sia rifiutata di giacere ai voleri dell’attempato professore. Parimenti non è chiara la ragione per la quale si sia presentata all’appuntamento in un motel di periferia scortata da una troupe televisiva, che avrebbe dovuto immortalare l’incontro.
Vendetta? Pentimento? Ricerca di notorietà? All’inchiesta l’ardua sentenza, poiché con i dati disponibili al momento è difficile propendere per un’ipotesi precisa. Lo stesso Rossitto continua a ripetere che s’è trattato di un tranello nel quale è ingenuamente caduto, pur non negando che nelle sue intenzioni ci fosse l’obiettivo di trascorrere qualche ora lieta con la studentessa e che la camera d’albergo prenotata non fosse propriamente il luogo nel quale s’impartiscono ripetizioni.
Peraltro il tapino, quasi a sostenere un’improbabile discolpa, continua a ripetere che tra lui e la giovanetta nulla v’è stato, essendosi trattenuti in quella che avrebbe dovuto essere un’alcova solo quattro minuti, a suo dire insufficienti per consumare il progettato congresso carnale, così trascurando l’importante particolare che, data la sua età, i tempi necessari avrebbero potuto persino risultare più contenuti. Dal suo canto, la giovane studentessa conferma sul fatto che nulla è accaduto, pertanto la rilevanza giudiziaria del caso è circoscritta all’ipotesi che l’incontro galeotto si sia realizzato solo in funzione delle promesse ricevute, cioè di superare a pieni voti l’esame in cambio della concessione delle proprie grazie, in coerenza con quel che sembra ormai un consolidato meccanismo trasversale di baratto, improntato al “ti-dò-se-me-la-dai”.E accanto metteteci ciò che volete: la materia, la candidatura, la promozione, il lavoro e via discorrendo.
Particolare non trascurabile è comunque l’assenza di qualsiasi esame in programma alla facoltà di Scienze Politiche di Catania per la materia insegnata da RossittoNel frattempo, mentre la vicenda si arricchisce di ulteriori particolari improbabili passando di bocca in bocca e si scaldano le assemblee studentesche, scese in campo per chiedere giustizia di un docente che, a quanto pare, di femmine ne avrebbe sciupato a iosa, il senato accademico e la magistratura cercano di trovare il bandolo della matassa. E chissà che alla fine non venga fuori anche il nome di qualche studentello, ché quando piove le lumache vengon fuori e, coi tempi che corrono, parrebbe strano che i vizietti del mostro di turno, nella loro tragica normalità, non abbiano qualcosa d’anormale.
(nella foto, la sede dell'Università di Catania)