mercoledì, dicembre 16, 2009

Il gioco al massacro della provocazione

Mercoledì, 16 dicembre 2009
In tutte le aggregazioni umane è sempre presente una fauna variegata, composta da intelligenze superiori, intelligenze normali, intelligenze sotto la norma e stupidità diffusa. Quest’ultima, come è facile constatare, è purtroppo rappresenta la maggioranza rispetto alle tipologie indicate in precedenza e costituisce un humus pericolosissimo nel quale può svilupparsi una violenza indotta, causata molto spesso all’esasperante modalità di chi è affetto da tale patologica limitatezza di istigare e provocare con atteggiamenti verbali e comportamentali gli interlocutori. Questa patologia è ovviamente presente anche in politica, dove schiere di sciocchi, stupidi, idioti e categorie affini affliggono la vita quotidiana e hanno gradatamente reso invivibile il clima sociale del paese.
Ma se a queste categorie disgraziate si associano i furbi mestatori, gli agitatori professionisti, quelli che lamentano inesistenti aggressioni, al solo scopo di giustificare la ragione per la quale girano armati di spranghe verbali per menare fendenti di inaudita cattiveria agli avversari, allora il gioco si fa veramente duro e il pericolo di derive violente assume molto più corpo.
Costoro escono al mattino da casa armati di poderose clave e menano fendenti da orbi a tutti coloro che incontrano sul loro cammino e, quando viene chiesto loro la ragione di tale atteggiamento, denunciano antichi quanto inesistenti motivi di provocazione subita a giustificazione del pestaggio sistematico che perpetrano ai danni altrui.
Queste categorie sono assai numerose tra le file degli addetti in servizio permanente del PdL, dove l’hobby dell’aggressione sistematica all’avversario è molto diffusa e, per certi versi, è divenuto strumento sistematico di confronto-scontro: si insultano gli avversari per provocarne una reazione che giustifichi una successiva aggressione, motivata da legittima difesa. Ovviamente v’è chi usa lo strumento in modo plateale se non maldestramente, ma v’è pure chi dell’uso del randello ha fatto un’arte vera e propria e lo manovra con tale maestria da fare invidia ad un pittore di talento.
A questi virtuosi della mazza appartiene Fabrizio Cicchitto, ex socialista dell’era craxiana, balzato come cavalletta sul carro berlusconiano al tramonto della stella del suo leader. A lui si debbono le affermazioni più forti e gli slogan più sanguinolenti e velenosi della campagna di propaganda di Forza Italia, ieri, e del PdL oggi, contro magistrati, media non addomesticati, istituzioni in dissenso con le linee imposte dalla maggioranza di governo, giornalisti non inclusi nel libro paga del potere dominante e così discorrendo. Ieri, per esempio, ha tuonato contro una presunta trimurti che, a suo giudizio, avrebbe grandi responsabilità morali nell’avere armato la mano del feritore di Berlusconi. «A condurre questa campagna» – ha asserito – «è un network composto dal gruppo editoriale “la Repubblica-L’Espresso”», - per intendersi, quello al quale il suo padrone deve un risarcimento di 780 milioni di euro in virtù di una sentenza di condanna connessa alla corruzione nella vicenda Mondadori, - «da quel mattinale delle Procure che è il Fatto, da una trasmissione di Santoro e da un terrorista mediatico di nome Travaglio, oltre che da alcuni pubblici ministeri, che hanno nelle mani processi tra i più delicati sul terreno del rapporto mafia-politica e che vanno in tv a demonizzare Berlusconi».
Se tutto questo non bastasse, l’intrepido pestatore calca ulteriormente la mano aggiungendo: «Capiamo come, dopo quello che è accaduto, ci sia chi ha la coscienza sporca e sia alla ricerca di un alibi e quindi di un altro bersaglio. Nessuna intimidazione e anche nessun “fuoco amico” ci chiuderà la bocca» – dice Cicchitto. - «Detto tutto questo, l'evocazione dell'attacco alla libertà di stampa [da parte de “la Repubblica”, ndr] è l'ennesima mistificazione: una catena editoriale sviluppa contro un leader politico una forsennata campagna di stampa, ma se qualcuno osa rispondere allora la medesima catena editoriale grida all'attentato alla libertà di stampa. Sulla base di questa logica “la Repubblica” ha licenza di attacco e coloro che sono oggetto di esso dovrebbero solo accettare, riverenti, insulti e scomuniche e poi ringraziare per l'onore ricevuto», e con queste conclusioni il prode alfiere delle ragioni di casa PdL motiva il proprio sconsiderato attacco a coloro che ritiene acerrimi nemici, con evidente indifferenza per l’appello a contenere i toni sia di Napolitano che dello steso Fini.
Che il personaggio Berlusconi, che adesso si vuol far passare per vittima non solo di un folle isolato, ma di una congiura ben orchestrata, abbia in passato affermato che per fare il magistrato bisogna essere malati di mente e dovrebbe essere prevista una periodica visita psichiatrica per gli appartenenti a questa funzione; che i membri della corte costituzionale emettono sentenze tese a ribaltare il voto popolare perché di sinistra; che il presidente Napolitano è stato membro del PCI e dei suoi derivati sino alla elezione a capo dello stato; che non bisogna dare lavoro a coloro che dissentono dalle posizioni del governo (nella fattispecie, pubblicità ai giornali non allineati, ndr); che le procure (ovviamente quelle che non si piegano al condizionamento del suo potere) sono covi di sovversivi di sinistra; è del tutto irrilevante. Il poveraccio s’è beccato una riproduzione del duomo di Milano sul grugno e, naturalmente secondo Cicchitto e tutto il clan del Cavaliere, il gesto non sarebbe da attribuire alle cazzate che va dicendo in giro da tempo, né alle minacce più o meno esplicite lanciate a destra e a manca all’intero spettro del dissenso, che potrebbero in qualche modo aver esasperato l’animo di qualche psicolabile, ma, - udite, udite!, - alla propaganda sovversiva di la Repubblica, di Santoro e di Travaglio. Non c’è che dire: se l’attentato al premier è avvenuto per mano di uno psicolabile, la teoria sui mandanti morali è parimenti da neurodeliri.
Non v’è dubbio alcuno che con queste follie e questi personaggi è difficile immaginare un progresso significativo verso la normalizzazione della vita politica e sociale del paese. Per certi versi, più che parlare di formule d’immunità più incisive per i parlamentari, sarebbe doveroso parlare di cancellazione di un assurdo privilegio di stampo feudale, in base al quale qualunque idiota ha diritto di sparare le minchiate che gli passano per il capoccione, certo della totale impunità.
Per quanto ci riguarda, riteniamo che un paese posizionato su un piano pericolosamente inclinato e dunque instabile, nel quale da troppo tempo si sta irresponsabilmente giocando una guerra di nervi e d’usura, non è consigliabile continuare in uno scontro che potrebbe rivelarsi preludio di ben altre conseguenze. Sarebbe invece opportuno tentare la strada di un ritrovato senso di civiltà di confronto nel rispetto delle diversità, poiché chi si espone o si fa autore di campagne di odio deve attendersi, prima o poi, una reazione esasperata di popolo, che non è pacifico debba manifestarsi solo con il lancio di santini di marmo.
(nella foto, Fabrizio Cicchitto)

martedì, dicembre 15, 2009

Il martirio del santo

Martedì, 15 dicembre 2009
Sebbene ci fosse d’aspettarsele e puntualmente siano arrivate, le polemiche sull’attentato a Silvio Berlusconi stanno occupando le sedi istituzionali e dei partiti oltre a monopolizzare le prime pagine dei giornali.
Mentre il Capo dello Stato ha ancora una volta dovuto richiamare tutti al rispetto della moderazione e a stemperare i toni in un clima politico sempre più esasperato, mentre in un valzer di sincero rammarico e affettata ipocrisia si susseguono le dichiarazioni di solidarietà al premier, - senza se e senza ma, come va ormai di moda, - si alzano i muri nei confronti di Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei Valori, che fuori dal coro ha avuto l’onestà intellettuale di indicare in Silvio Berlusconi medesimo il regista dell’esasperazione del clima politico, e di Rosy Bindi, presidente del PD, che ha sì espresso solidarietà al presidente del consiglio, ma lo ha pure esortato a non calcare la mano nella parte della vittima, sottintendendo con l’invito ciò che Di Pietro aveva detto con chiarezza.
Da qui, apriti cielo. I soliti squallidi apostoli del santo hanno immediatamente scatenato un canaio assordante nelle sedi di giornali, radio e televisioni, rammentando al mondo intero che quell’anima pia di Silvio non ha mai torto un capello a nessuno, non ha mai offeso nessuno e, soprattutto, non ha mai istigato né all’odio né alla sovversione dell’ordine costituito. Il suo rispetto per la magistratura, la corte costituzionale, la presidenza della repubblica, il parlamento e giù sino ai partiti, i sindacati, i giornali sono sempre stati esemplari, ma i suoi denigratori gli hanno affibbiato giudizi ed espressioni irripetibili, naturalmente perché hanno deliberatamente frainteso il senso vero del suo messaggio apostolico.
Silvio Berlusconi, da buon figlio d’arte, s’è comportato come un suo noto avo nel tempio: ha beccato qualche dissidente vero o qualche comunista presunto, - per lui non fa differenza, - e l’ha cacciato via o l’ha ricoperto d’improperi. Santoro, Biagi, Caselli, Ingroia, Spataro, Schultz, e la lista potrebbe continuare parecchio sono alcuni dei tanti nomi di provocatori veri che ha dovuto richiamare all’ordine e che hanno generato il degrado civile e morale che ha armato la mano di Massimo Tartaglia, il folle con l’hobby del lancio del duomo di Milano.
Della sua bontà infinità, della tolleranza al di sopra dell’umano limite, del rispetto degli altri sino a preferire il martirio che venirne meno, sono testimoni attendibili e sopra ogni sospetto gli apostoli Bonaiuti, il cui equilibrio e la misura non ha pari al mondo, Fede, raro esempio di obiettività da renderlo meritevole per la segnalazione al nobel per l’informazione, Capezzone, il cui verbo è sempre pieno di celeste comprensione per gli avversari, Belpietro e Feltri, gli umili predicatori senza macchia, Ghedini, il cui vero nome è Niccolò Adams ma non sarebbe capace di far male a una mosca, e così via fino a Schifani, Cicchitto, Scajola, Maroni e qualche adepto raccattato sulla via di Damasco.
Il malvagio Di Pietro e l’irriconoscente Bindi, - alla quale il caritatevole Silvio ebbe a dichiarare di apprezzarla più per la bellezza che per l’intelligenza, - sbagliano dunque quando accusano il premier di essersi cercato con i suoi comportamenti le reazioni odiose della gente. Soprattutto sbagliano a non tenere nella giusta considerazione che, nelle disgrazie, flautare solidarietà serve a suscitare apprezzamento, dato che l’ipocrisia è una delle qualità umane maggiormente diffuse. In ogni caso simulare questo sentimento non arreca alcun vantaggio all’avversario e, dunque, non impone alcun arretramento o abiura delle proprie convinzioni.
A nostro avviso, comunque, non v’è crimine o efferatezza umana che meriti una risposta violenta o il ricorso a pratiche di danno fisico. Primariamente perché pone offeso e offensore sullo stesso piano animalesco. Secondariamente perché anche i crimini più abietti sono oggetto di culto recondito da parte di qualcuno, che vede nel suo autore l’espressione catartica delle proprie pulsioni irrealizzate: colpire l’autore di questi crimini serve spesso ad aumentarne l’apprezzamento e a trasformarlo da carnefice in vittima disgraziata.
E allora, vadano al nostro presidente del consiglio i migliori auguri di una pronta guarigione e l’auspicio di rimettersi al lavoro con alacrità e serenità al più presto. Soprattutto a lui l’augurio di lunga vita di un governo che, quantunque lui sostenga con la modestia consueta, non ve ne sia pari negli ultimi 150 anni di storia italica, dobbiamo serenamente ammettere che era dai tempi dei mitici Salomone o Giustiniano che non se ne riscontrava nella storia dell’umanità uno altrettanto equo.
(nella foto, Rosy Bindi, il blasfemo presidente del PD)


lunedì, dicembre 14, 2009

Le radici dell’odio

Lunedì, 14 dicembre 2009
«Questo è il frutto di chi ha voluto seminare zizzania. Quasi me l'aspettavo...Tutti dovrebbero capire che non è possibile oltraggiare un presidente del Consiglio, questa è la difesa delle istituzioni». Così ha detto a caldo Silvio Berlusconi dopo l’aggressione subita alla conclusione del suo comizio milanese di ieri.
E che effettivamente la zizzania sia stata seminata, e in grandissima quantità, è fuori discussione, essendo ormai anni, dal lontano 1992, che in Italia sembra crescere più erba maligna che altro e, dunque, gli spargitori dei semi del male devono aver lavorato alacremente negli ultimi tre lustri.
Il problema allora non è tanto il prendere atto che zizzanie e gramigne lastricano le vie che percorriamo quotidianamente, quanto capire cosa è possibile fare, - sempre che esista un rimedio allo sfacelo delle istituzioni e della convivenza sociale irrimediabilmente compromessa, - magari individuando gli untori dell’odio che copre come una cappa il paese e cominciare a lavorare per avviare la necessaria inversione di tendenza.
Non v’è comunque dubbio alcuno che grandissima parte delle responsabilità del degrado generale in atto è da attribuire a Berlusconi e alle sue truppe d’assalto, le stesse che oggi gridano in coro all’attentato e che da sempre con i loro comportamenti, con i loro discorsi, con le invettive, con il disprezzo per avversari e dissidenti, hanno generato un clima da pre-guerra civile, che è difficile prevedere dove potrebbe portare, anche nulla di positivo si riesce a immaginare.
Il Cavaliere ferito, nell’orgoglio oltre che nel fisico, da uno squilibrato conclamato, che comunque sarà richiesto di spiegare i moventi del suo gesto idiota, - anche se qualche idiota del clan di parte lesa adombra l’esistenza di un complotto che avrebbe armato la mano sacrilega dell’autore dell’attentato, - in ogni caso non dovrebbe porsi la domanda sul perché del gesto, visto che parliamo di folli e che, se per una volta si mettessero da parte altezzosità e ipocrisia, in fondo di motivi per determinare un fatto come quello accaduto se ne possono trovare mille nell’operato di questa destra e del suo leader.
Questo sicuramente non giustifica un’azione incivile e criminale, ma bisogna avere l’onestà intellettuale per ammettere che qui, se c’è qualcuno che ha tirato la corda sino al pericolosissimo punto di rottura, parliamo di Silvio Berlusconi e il suo clan, che non passa giorno senza sbeffeggiare gli avversari, attaccare con volgarità verbale le istituzioni e minare nelle fondamenta la credibilità residua del paese. Se questa opera di gravissima istigazione è percepita, ancorché ammessa, allora non bisogna orsi retorici interrogativi sul perché accadano le cose. Semmai sarebbe opportuno ringraziare la propria buona stella per il fatto che nel le cose siano andate modo consuntivato e non abbiano dovuto registrare niente di più tragico sull’onda dell’esasperazione che grava nell’aria ormai da tempo.
Ribadiamo che questo non significa giustificare in qualunque maniera l’autore del gesto né il gesto in sé, ma nessuno può illudersi di scatenare campagne d’odio della portata di quelle che stiamo vivendo da anni e illudersi che mai vi sarà la reazione d’un pazzo o di qualche esasperato. Né negli Italiani risiede un desiderio di squadrismo così radicato come vorrebbe Berlusconi, quantunque l’asservimento al potere dominante e la predisposizione alla sodomia passiva siano tra le qualità più spiccate degli abitanti del Belpaese.
C’è da augurarsi che sulla scorta di questo episodio, - che peraltro costituisce una conferma definitiva della nudità del re e che, per questa ragione, potrebbe dare la stura a derive emulative, - sarebbe opportuno che premier e soci cambiassero registro e inaugurassero una stagione di maggiore decenza istituzionale e di rispetto dell’opposizione. Comunque nessuno deve sottovalutare la saggezza popolare che da sempre sostiene che deve pianger se stesso chi è causa del proprio male.

venerdì, dicembre 11, 2009

L’eversione strisciante del premier

Venerdì, 11 dicembre 2009
Nella giornata di ieri il signor Silvio berlusconi, presidente del consiglio dei ministri del governo italiano, nel corso di un intervento al congresso del PPE, commentando le recenti decisioni della Consulta che hanno annullato il lodo Alfano, grazie al quale aveva esperito l'ennesimo tentativo per rendersi immune dai processi che lo riguardano, ha proferito affermazioni che per la prima volta nella storia repubblicanna sovvertono l'ordine istituzionale e aprono una fase inedita nella quale le istituzioni medesime divengono fazioni politiche l'un contro l'altra schierata, a cui non si sottaggrono né la presidenza della repubblica né la Corte Costituzionale.
Le affermazioni sono di una gravità inaudita e, se non fossimo una democrazia solo sulla carta, dovrebbero implicare l'immediato deferimento del capo del governo al tribunale speciale per alto tradimento.
Pubblichiamo a questo proposito l'editoriale di Ezio Mauro, direttore de la Repubblica, che ben sintetizza la questione.
"Ieri è finita la lunga transizione italiana. Siamo entrati nello stato d’eccezione: ed è la prima volta, nella storia della nostra democrazia. Si apre una fase delicata e inedita, che chiude la seconda Repubblica su una prova di forza che non ha precedenti, e non riguarda i partiti ma direttamente le istituzioni. Silvio Berlusconi ha scelto una sede internazionale, il Congresso a Bonn del Partito Popolare Europeo, per attaccare la Costituzione italiana (annunciando l’intenzione di cambiarla) e per denunciare due organi supremi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, accusandoli di essere strumenti politici di parte, al servizio del “partito dei giudici della sinistra” che avrebbe “scatenato la caccia” contro il premier.
Il Presidente della Camera Fini ha voluto e saputo rispondere immediatamente a questo sfregio del sistema istituzionale italiano, ricordando a Berlusconi che la Costituzione fissa "forme e limiti" per l'esercizio della sovranità popolare, e lo ha invitato a correggere una falsa rappresentazione di ciò che accade nel nostro Paese. Poco dopo, lo stesso Capo dello Stato ha dovuto esprimere "profondo rammarico e preoccupazione" per il "violento attacco" del Presidente del Consiglio a fondamentali istituzioni repubblicane volute dalla Costituzione. Siamo dunque giunti al punto.
L'avventurismo subalterno del concerto giornalistico italiano aveva cercato per settimane di dissimulare la vera posta in gioco, nascondendo i mezzi e gli obiettivi del Cavaliere, fingendo che la repubblica fosse di fronte ad un passaggio ordinario e non straordinario, tentando addirittura di imprigionare il partito democratico nella ragnatela di una complicità gregaria a cui Bersani non ha mai nemmeno pensato. Ora il progetto è dichiarato. Da oggi siamo un Paese in cui il Capo del governo va all'opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane, nelle quali non si riconosce, dichiarandole strumento di un complotto politico ai suoi danni, concordato con la magistratura. È una denuncia di alto tradimento dei doveri costituzionali, fatta dal Capo del governo in carica contro la Consulta e contro il Presidente della Repubblica. Qualcosa che non avevamo mai visto, e a cui non pensavamo di dover assistere, pur pronti a tutto in questo sciagurato quindicennio. Tutto ciò accade per il sentimento da abusivo con cui il Primo Ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida. Lo domina un senso di alterità rispetto allo Stato, che pretende di comandare ma non sa rappresentare. Lo insegue il suo passato che gli presenta il conto di troppe disinvolture, di molti abusi, di qualche oscurità. Lo travolge la coscienza dell'avvitamento continuo della sua leadership politica, della maggioranza e del governo nell'ansia di un privilegio di salvaguardia da costruire comunque, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, trasformando il potere in abuso. La politica è cancellata: al suo posto entra in campo la forza, annunciata ieri virilmente dal palco internazionale dei popolari: "Dove si trova uno forte e duro, con le palle come Silvio Berlusconi?". La sfida è lanciata. E si sostanzia in tre parole: stato d'eccezione. Carl Schmitt diceva che "è sovrano chi decide nello stato d'eccezione", perché invece di essere garante dell'ordinamento, lo crea proprio in quel passaggio supremo realizzando il diritto, e ottenendo obbedienza. Qui stiamo: e non si può più fingere di non vederlo. Berlusconi si chiama fuori dalla Costituzione ("abbiamo una grande maggioranza, stiamo lavorando per cambiare questa situazione con la riforma costituzionale"), rende l'istituzione-governo avversaria delle istituzioni di garanzia, soprattutto crea nella materialità plateale del suo progetto un potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani, che si bilanciano tra di loro: la persona del Capo del governo, leader del popolo che lo sceglie nel voto e lo adora nei sondaggi, mentre gli trasferisce l'unzione suprema, permanente e inviolabile della sua sovranità. Siamo dunque alla vigilia di una forzatura annunciata in cui lo stato d'eccezione deve sanzionare il privilegio di un uomo, non più uguale agli altri cittadini perché in lui si trasfigura la ragion di Stato della volontà generale, che lo scioglie dal diritto comune. Si statuisca dunque per legge che il diritto non vale per Silvio Berlusconi, che il principio costituzionale di legalità è sospeso davanti al principio mistico di legittimità, che la giustizia si arresta davanti al suo soglio. La teoria politica dà un nome alle cose: l'assolutismo è il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento di poteri concorrenti, l'autoritarismo è il potere che non specifica e non riconosce i suoi limiti, il bonapartismo è il potere che istituzionalizza il carisma, la dittatura è il comando esercitato fuori da un quadro normativo. Avevamo avvertito da tempo che Berlusconi si preparava ad una soluzione definitiva del suo disordine politico-giudiziario-istituzionale. Come se dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolvibile, introiettala e costituzionalizzala; ne uscirai sfigurato ma pacificato, perché tutto a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza. I grandi camaleonti sono invece corsi in soccorso del premier, spiegando che non è così. Hanno ignorato l'ipotesi che pende davanti ai tribunali, e cioè che il premier possa aver commesso gravi reati prima di entrare in politica, e l'eventualità che come ogni cittadino debba renderne conto alla legge. Hanno innalzato la governabilità a principio supremo della democrazia, nella forma moderna della sovranità popolare da rispettare. Hanno così dato per scontato che il diritto e la legalità dovessero sospendersi per una sola persona: e sono passati ai suggerimenti affettuosi. Un nuovo lodo esclusivo. E intanto, nell'attesa, il processo breve. E magari, o insieme, il legittimo impedimento, possibilmente tombale. Qualsiasi misura va bene, purché raggiunga l'unico scopo: il salvacondotto, concepito non nell'interesse generale a cui i costituenti guardavano parlando di guarentigie e immunità, ma nell'esclusivo interesse del singolo. L'eccezione, appunto.
Ma una democrazia liberale si fonda sul voto e sul diritto, insieme. E il potere è legittimo, nello Stato moderno, quando poggia certo sul consenso, ma anche su una legge fondamentale che ne fissa natura, contorni, potestà e limiti. Il principio di sovranità va rispettato quanto e insieme al principio di legalità. Perché dovrebbe prevalere, arrestando il diritto davanti al potere, e non in virtù di una norma generale ma nella furia di una legge ad personam, che deve correre per arrivare allo scopo prima di una sentenza? Come non vedere in questo caso l'abuso del potere esecutivo, che usa il legislativo come scudo dal giudiziario? È interesse dello Stato, della comunità politica e dei cittadini che il premier legittimo governi: ma gli stessi soggetti hanno un uguale interesse all'accertamento della verità davanti ad un tribunale altrettanto legittimo, che formula un'ipotesi di reato. Forse qualcuno pensa che il Presidente del Consiglio non abbia i mezzi e i modi e la capacità per potersi difendere e far valere le sue ragioni in giudizio? E allora perché non lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche nel caso dell'uomo più potente d'Italia, ricongiungendo sovranità e legalità? L'eccezione a cui siamo di fronte ha una posta in gioco molto alta, ormai.
Qualcuno domani, messo fuori gioco da Napolitano e Fini, condannerà le parole di Berlusconi, ma ridurrà lo sfregio costituzionale del premier a una questione di toni, come se fosse un problema di galateo. Invece è un problema di equilibrio costituzionale, di forma stessa del sistema. Siamo davanti a un'istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente, perché Berlusconi di fatto minaccia elezioni-referendum su un cambio costituzionale tagliato su misura non solo sulla sua biografia, ma della sua anomalia. Per questo, com'è chiaro a chi ha a cuore la costituzione e la repubblica, bisogna dire no allo stato d'eccezione. E bisogna aver fiducia nella forza della democrazia. Che non si lascerà deformare, nemmeno nell'Italia di oggi."

(nella foto, Ezio Mauro, direttore di la Repubblica)

Quando la magistratura è sovversiva

Venerdì, 11 dicembre 2009
E chi lo sentirà Alfano! Sino a poche ore fa ha inveito contro quella categoria di fannulloni e mangiapane a tradimento dei magistrati, che preferiscono la tv alle aule dei tribunali e agli uffici loro assegnati, e che, persino quelle rare volte in cui fingono di lavorare, perdono tempo inventandosi minchiate allucinanti ai danni del nemico politico di turno.
Questa volta è proprio troppo, - dobbiamo convenire con il bravissimo ministro della giustizia Alfano, che sembrerà un preside burbero e puntiglioso, ma è del tutto vero che ha da gestire una scolaresca indisciplinata e svogliata e qualche canaglia refrattaria a ogni richiamo.
Si prenda a conferma di questa situazione di grande difficoltà di gestione della magistratura proprio dall’ultimo caso in ordine di tempo, quello che ha visto protagonista il sottosegretario all’economia Nicola Cosentino, avvocato di Caserta e, a detta di qualche velenosa malalingua, referente politico della famigerata cosca camorristica dei Casalesi. Delle indagini si è occupato un certo Giandomenico Lepore, procuratore a Napoli, che evidentemente accecato dall’odio atavico che contrappone magistratura e politica, ha costruito un castello di fantomatiche accuse ai danni del sottosegretario, in base al quale ha inviato alla Camera una richiesta di autorizzazione a procedere con tanto di provvedimento d’arresto.
Nella ricostruzione fantasiosa di Lepore si sosterrebbe che, o’Mericano, - questo sarebbe il pittoresco appellativo affibbiato dai Casalesi o’guaglione Nicola, - sarebbe il referente della cosca più sanguinaria e feroce dello scenario criminale campano, grazie agli intrecci costruiti negli anni tra la famiglia di Cosentino, in affari con gli Americani nel settore energetico, e imparentatasi con qualche esponente di spicco della cosca. Di queste accuse infamanti Cosentino si è sempre difeso con tutte le sue forze. Anzi ha persino denunciato un tentativo di metterlo in gravi difficoltà da parte delle opposizioni politiche e degli stessi amici di partito, gelosi del fortissimo potere acquisito a livello locale, - ben 137 sindaci e tre provincie conquistate grazie alla sua pastorale opera politica, - che avrebbe dovuto consentirgli di presentarsi quale candidato unico del PdL alle prossime elezioni per la conquista del governatorato campano.
Invece arriva un magistrato, magari aizzato da qualche «frocetto di Roma», - come Cosentino ebbe a qualificare il capogruppo alla Camera del PdL Italo Bocchino, che aveva espresso dubbi sulla sua candidatura alle elezioni campane, - che gli spedisce un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa per una questione di smaltimento rifiuti, che avrebbe visto favorite imprese legate ai Casalesi.
Naturalmente la Camera, - alla quale tocca decidere in merito alla richiesta della magistratura e che notoriamente non solo ha una indiscussa competenza in tema di indagini di polizia, ma, soprattutto, ha sempre dimostrato un’esemplare obiettività decisionale, non guardando in faccia a nessuno, come si suole dire, - s’è presa immediatamente in carico la pratica e, prima in Giunta per le autorizzazioni a procedere, poi in seduta ordinaria, ha respinto con 360 no e 226 si la richiesta della procura di Napoli, restituendo al malcapitato di turno l’aureola di sant’uomo che per qualche ora un gruppo di congiurati aveva tentato di strappargli.
Adesso toccherà al paziente e infaticabile Alfano prendere gli opportuni provvedimenti nei confronti di Lepore e il suo clan, che dopo la mancata autorizzazione ha dichiarato altezzoso: «Rispettiamo l'autonomia della Camera, ma le indagini continueranno». E a chi incalzandolo gli ha chiesto se questo no alla richiesta d'arresto di Cosentino, non rappresenti una sconfitta, Lepore ha risposto: «Assolutamente no. Non c'è alcun antagonismo con la Camera. Ognuno fa il proprio lavoro, e noi continueremo a fare il nostro», gettando così le premesse per generare nuovo scompiglio nella già turbolenta convivenza tra politica e giustizia.
A nostro avviso il bravo ministro, a parte inviare un’immediata quanto opportuna ispezione alla procura interessata, farebbe bene a richiedere al CSM di prendere al più presto in esame il caso in questione, per l’assunzione di adeguati provvedimenti di censura, se non addirittura di comprovata incompatibilità ambientale e conseguente trasferimento dell’indisciplinato.
Certo, ci rendiamo conto che rivolgersi al CSM per il ministro equivarrebbe al comportamento di un agnello che invoca l’intervento del lupo contro un altro lupo e, dunque, la cosa appare assai improbabile. Allo stesso tempo bisogna prendere atto della stanchezza dell’opinione pubblica, che non ne può più di questa quotidiana guerra tra politica e magistratura, che vede sistematicamente perdente la politica, la cui immagine è giorno dopo giorno ingiustamente squalificata e il cui lavoro di altissima ed esemplare dedizione è messo a repentaglio da bande di irrecuperabili fannulloni contro i quali non ha potuto alcunché persino il castigamatti Brunetta.
C’è da augurarsi, pertanto, che presto questo governo di uomini straordinari come quelli di un famoso film di successo attui quella riforma della giustizia tanto preannunciata quanto agognata dai cittadini, magari cancellando del tutto codici e processi, - che hanno dimostrato di servire a poco, - ritornando alle sane leggi del vecchio west, nel quale la giustizia era sommaria e immediata e non intasava i tribunali o foraggiava perditempo diditi a cercare e costruire prove di innocenza e colpevolezza. D’altra parte le politica così facendo finalmente non avrebbe nulla da temere: basterebbe dotare di kalashnikov o di altra ferraglia simile autisti e guardaspalle per prevenire l’insania di nemici e oppositori e salvaguardare la propria incolumità.
(nella foto, Nicola Cosentino, sottosegretario all'economia per il quale è stata negata l'autorizzazione a procedere)


giovedì, dicembre 10, 2009

Il disperato e i finti (?) tonti

Giovedì, 10 dicembre 2009
L’articolo 3 della Carta Costituzionale della Repubblica recita al primo comma “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Questo enunciato avrebbe dovuto essere più che sufficiente per smorzare ogni velleità a quanti, - avvocati, docenti di materie giuridiche, luminari del diritto (sic!), sino a saccenti, giullari, comici e musicati, - si sono sbizzarriti nell’ultimo decennio nel disperato tentativo di rendere immune da processo e da eventuale galera il cittadino Silvio Berlusconi da Arcore. Le manovre di questi aedi dell’impunità sono cominciate con il caso del signor Cesare Previti da Roma, conclamato complice del signor Berlusconi, che nonostante i tentativi funamboleschi degli scribi impiegati nella stesura di fantasiosi testi di legge, alla fine s’è fatto qualche giorno di gattabuia e poi è finito nelle mani dei servizi sociali per un’operazione d’improbabile recupero alternativa al carcere.
Nonostante il plateale fallimento, i tentativi di inserire una qualche norma per mondare il signor Berlusconi, - nel frattempo ringalluzzito dalla nuova investitura popolare alla guida del governo, - non si sono arrestati. Anzi, sull’onda rinvigorita della baldanza e dell’arrogante convinzione di poter perpetrare scempio dell’ordine costituito, i seguaci e i lacchè del soggetto in questione, - peraltro ormai sputtanato, e con lui l’Italia intera, a livello internazionale per la tigna con la quale insiste nel suo proposito, - hanno partorito prima un lodo, detto Alfano dal suo fiero propositore, che dans l’éspace d’un matin è stato bocciato tra mille polemiche dalla Corte Costituzionale e poi una nuova proposta con la quale qualunque indagine non seguita da processo concluso nei due anni successivi dal suo avvio rende imperseguibile l’indagato. Ovviamente, la proposta prevede una serie di distinguo che non riguardano il personaggio per la quale è stata pensata, ma che paradossalmente dovrebbero conferirle una parvenza di serietà e applicabilità a pochi e individuati casi.
Tutto ciò avrebbe anche un senso qualora in prima istanza non ci trovassimo nel paese in cui siamo, afflitto da una strategica lentezza della giustizia, grazie alla quale la prescrizione è una regola abbastanza diffusa e ineluttabile per la maggior parte dei processi. In questa prospettiva, pretendere con una legge salva premier che i processi debbano essere istruiti e conclusi in un paio d’anni è semplicemente una buffonata e, la diffusa conoscenza di questa regola, rende la proposta un’assoluta stupidaggine.
Secondariamente, aver escluso dal beneficio i soggetti recidivi, i processi d’appello ed alcuni reati comunque ininfluenti per il signor Berlusconi – immigrazione clandestina, terrorismo, ecc., - ma comunque zuppa per i biscottini della Lega, ha determinato l’insorgenza di una nuova palese violazione del principio d’eguaglianza tutelato dall’articolo 3 della Carta Costituzionale.
In terza e ultima istanza il sospetto che i soggetti, - non solo nel significato di personaggi, ma altresì di assoggettati, - di cui il signor Berlusconi si circonda siano reduci da un corso accelerato di diritto e dottrine giuridiche al CEPU, nella circostanza, è definitivamente rimosso per divenire incontrovertibile certezza, poiché solo un digiuno di legge avrebbe potuto partorire un’idiozia come quella in questione senza farsi sfiorare dal dubbio che difficilmente avrebbe superato indenne un esame sommario di legittimità costituzionale.
Di fronte a questa situazione, a giustificazione della gretta ignoranza dei proponenti, non vale certamente il pressing esercitato dal potenziale beneficiario del provvedimento, al quale la sensazione di calore alle terga sicuramente continua a giocare bruttissimi scherzi ogni giorno che passa. Nello steso tempo, la tesi della stoltezza dei proponenti appare forse un po’ troppo scolastica e semplice, avendo contezza di trovarci d’innanzi ad un drappello di furbi di più cotte ai quali difficilmente sfugge il senso della scellerata figura che rischiano di fare nei confronti della pubblica opinione sostenendo proposte come quella in disamina.
Allora è molto più probabile che le minchiate, - per dirla con il termine sdoganato dalla stampa pubblicitaria di casa Berlusconi, - le abbia sostenute proprio il previsto beneficiario e i lacchè, anziché metterlo in guardia, abbiano furbescamente acconsentito a preparargli la pietanza, consapevoli delle proteste degli avversari e degli esiti negativi dell’analisi preventiva di legittimità, al solo scopo di infliggere un ulteriore colpo mortale all’appannata immagine di un uomo disperato che appare sempre più alla deriva politica e dell’intelletto.
Non è facile presagire cosà accadrà alla complessa questione e, dunque, quale mai saranno le conclusioni che potrà trarne Berlusconi e il suo sgangherato governo. Certo sembra che difficilmente il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, cui spetta la promulgazione delle leggi dello stato, apporrà la propria firma su un provvedimento che puzza di illegittimità più di quanto non lo facesse il famigerato lodo Alfano. E un ulteriore errore del Presidente questa volta difficilmente potrebbe venir perdonato e interpretato dall’opinione pubblica come il tentativo di smorzare le durissime polemiche in atto nella vita politica.

(nella foto, una seduta del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha già rilasciato un parere di incostituzionalità sulla proposta di processo breve in discussione alla Camera)

mercoledì, dicembre 09, 2009

Latitanti come lepri alle corse dei cani

Mercoledì, 9 dicembre 2009
Questa storia della lotta alla mafia, - con tanto di arresti eccellenti, pentiti che parlano a ruota libera, autocelebrazioni del governo e dei suoi ministri e via discorrendo, - man mano che passano le ore somiglia sempre più alla tecnica utilizzata nelle corse dei cani: una lepre, - finta in quel caso, - sguinzagliata ad arte e sulla quale si avventa la muta rabbiosa.
Così, mentre tal Spatuzza, - preceduto da roventi polemiche anche dentro la coalizione al governo, - parla di presunti intrecci tra mafia e imprenditoria del nord nelle stragi del ’93 e coinvolge in questo intreccio Berlusconi e Dell’Utri; mentre si preannuncia la deposizione prossima di Filippo Graviano, boss di spicco dell’onorata società per il quale prestava servizio Spatuzza, che dovrebbe arricchire di ulteriori particolari la questione dl coinvolgimento del premier e del suo fido braccio destro, ecco che in una settimana si fa l’en plein di latitanti importanti, - Gianni Nicchi, Gaetano Fidanzati e Raffaele Arzu, - quasi a rendere più che legittima l’autodifesa degli interessati.
Naturalmente, nessuno dei vanitosi autocelebranti ammette che il governo c’entra nella questione degli arresti come i cavoli si addicono alla merenda, considerato che neppure il più idiota degli Italiani immaginerebbe mai Maroni o Alfano e persino Berlusconi a bordo di una volante a compiere di persona azioni di ordine pubblico di qualunque natura. Ma la spocchia esige il suo copione e così gli sboroni di turno, Maroni e Alfano, fanno sapere ai cittadini che questo governo potrà vantare record da libro dei guinness, avendo «realizzato negli ultimi diciannove mesi un numero di arresti che segna un incremento del 100% rispetto ai diciannove mesi precedenti», - nei quali, ovviamente, non era al governo la coalizione attuale: come dire, gli altri si facevano le pippe mentre noi facciamo i fatti. Un altro record sarebbe rappresentato dai ben 645 detenuti sottoposti al 41 bis, di cui «in 580 giorni di Governo il sottoscritto ne ha firmato 168», ha dichiarato il ministro della giustizia Angelino Alfano. Non un accenno al fatto che gli arresti sono stati compiuti dagli organi investigativi preposti, i cui uomini, grazie ai tagli alla sicurezza operati da questo governo d’ipocriti, hanno dovuto anticipare le spese per l’acquisto del carburante per le auto di servizio, senza le quali non ci sarebbero stati né arresti né pompose conferenze stampa di vanitosi sedicenti persecutori della mafia e del crimine.
Anzi, il ministro Alfano, - che notoriamente brilla per modestia e basso profilo, - ha approfittato dell’occasione per inviare l’ennesimo sibilo velenoso alla volta dei magistrati, ai quali ha rammentato che «la mafia si può combattere senza andare in tv o a fare convegni. Lavorando di più in Procura e senza le luci delle telecamere si arresta qualche latitante in più, quindi con qualche convegno in meno e qualche latitante assicurato alla giustizia si fa il bene del Paese». Il messaggio sottintendeva che ad occupare lo spazio offerto dalle telecamere c’è apposta lui e i suoi colleghi, ai quali è delegato il compito di tentare il quotidiano lavaggio del cervello di sciocchi e boccaloni che stanno a sentire.
La cosa che par strana, - ed è qui che ritorna la questione delle corse dei cani, - è che a nessuno sia venuto in mente di porre la domanda più ovvia e autorizzata dalle parole di questi benemeriti tutori putativi della legge : ma il fatto che i latitanti siano oggi pizzicati, mentre ieri continuavano a fare gli uccelli di bosco, è dipeso forse dal fatto che qualcuno dava ordine di non cercarli o magari li ospitava a casa propria, - come faceva il signor Berlusconi in persona, - mentre oggi si sono date disposizioni per avviarne la ricerca; oppure questi signori latitanti erano tali solo per modo di dire e, sapendo benissimo dov’erano, oggi sono stati usati come le famose lepri, sì da potersi far vanto del loro arresto?
La domanda è più che legittima, vista la tempestività con la quale si effettuano degli arresti di personaggi pericolosissimi e da tempo introvabili non appena le minchiate, - come le hanno definite i volantini promozionali della premiata fattoria Berlusconi, Il Giornale e Libero, - di tal Spatuzza adombrano un ruolo stragista del premier e del suo braccio destro.
Questi rigurgiti d’efficienza suonano sinceramente sospetti e autorizzano la richiesta di ben altri elementi di conferma del dichiarato impegno di lotta alla mafia e al crimine in generale. E a questo proposito si potrebbe suggerire che il premier in persona, una buona volta, si faccia processare, qualora intenda dare la prova più convincente non solo di essere innocente e, dunque, di non avere nulla da temere, ma che la lotta per l’affermazione del principio universale di giustizia non può lasciare zone d’ombra e, men che meno, avvalersi di medievali leggi di autoassoluzione per chi governa.
Fin quando questo salto di qualità non sarà compiuto e non cesseranno gli attacchi sconsiderati alla magistratura, - che va riformata escludendo dai suoi ranghi gli incapaci e gli infingardi che con la loro insipienza hanno permesso il radicamento di pratiche come quelle di cui è accusato il premier, - ci si potrà sgolare a qualificare come minchiate le rivelazioni di un delinquente abituale, ma rimane il sospetto che, sotto sotto gatta ci covi, dato che, a 20 anni dalla sua costituzione, non è lecito sapere persino qual è la composizione della proprietà Fininvest, che non ci sarebbe problemi a dichiarare se forse non ci fosse qualcosa da nascondere.
(nella foto, Gianni Nicchi, l'ultimo dei grandi mafiosi arrestati in questi giorni)

martedì, dicembre 08, 2009

Porci senza ali

Martedì, 8 dicembre 2009
Quantunque la politica al di là delle apparenze sia sempre stata un pratica umana fatta di sordide lotte, un’arte nella quale consumare vendette e ricatti contro nemici dichiarati e amici insospettabili, almeno su un aspetto aveva mantenuto nel tempo un elemento di connotazione preciso: una sorta di rispetto formale verso l’avversario, rappresentato da un linguaggio raramente scurrile e offensivo. A questo elemento caratterizzante, si è sempre associato un palese rispetto assoluto verso le istituzioni, - magistratura, presidenza della repubblica, presidenze di camera e senato, chiesa, ecc. - raramente venuto meno, nonostante non siano mancate le occasioni di diatriba e di dissenso.
Nella politica attuale, quella alla quale ci hanno abituato i parvenu appropriatisi dello scenario dell’ultimo quindicennio, l’approccio è mutato e dalla politica del velluto si è passati alla politica del bassofondo, a quella dell’insulto, della scurrilità, della minaccia, a quella che non ha più alcun rispetto né per la dignità personale né per le istituzioni.
E’ la politica dei guappi, degli spacconi, dei bulli di periferia, degli emarginati sociali, che per affermare il proprio potere e il proprio prestigio ritengono di dover ricorrere ad ogni tipo di violenza, verbale e forse anche fisica, dato che all’invettiva fanno seguire sovente la minaccia. Si assiste così al trionfo di un rinnovato squadrismo di triste memoria, dal quale emergono intrecci pericolosi e inconfessabili tra potere politico e potere malavitoso, in un continuum solidale, alleati in un tragico patto di reciproco sostegno per il governo del sistema a danno della collettività, che non solo assiste inerte allo scempio, ma è persino incapace di cogliere il senso del patto scellerato e le sue conseguenze.
Sembrerebbe la concretizzazione di una politica in stile Porci con le ali, per il linguaggio triviale ed esplicito cui si abbandona senza pudore. In realtà qui non c’è un movimento di pensiero teso a ribaltare archetipi e categorie storiche decisamente desuete, ma un nichilismo senza speranza e, soprattutto, senza un’alternativa, che punta solo ad affermare se stesso come sede di un potere assoluto, cui è consentito non solo distruggere l’avversario o chiunque appaia tale, ma altresì imporre stile di vita, metodi di sopravvivenza, etica e morale, in una combinazione trash del tutto inedita. E’ un clan di porci senza ali, convinto di detenere potere di vita e di morte dei cittadini; di porsi al di sopra della legge e del giudizio degli uomini; di poter commettere impunemente qualunque crimine, anche il più efferato, esente da conseguenze; di poter scegliere tra i propri compagni di viaggio anche spietati assassini, - da loro definiti, senza minimo rispetto persino per se stessi, “eroi”; - di poter manipolare a proprio piacimento la legge non solo degli uomini, ma anche di Dio.
Così persino la chiesa e i suoi uomini possono incorrere nella loro animalesca persecuzione, allor quando questa mostri di non volersi omologare nel privilegiare gli argomenti delle loro campagne violente e razziste, mentre un’intera generazione di servi della legge, - che in verità non ha mai brillato per vera obiettività e trasparente capacità di amministrare con equità il proprio ufficio, - viene offesa e vilipesa e persino sospettata di prezzolare i rari intrepidi che osano denunciare i crimini di chi governa, quasi che le evidenti nudità del re siano folli visioni o sapienti costruzioni computerizzate.
Qualcuno ebbe già a denunciare che quello in essere è la traduzione nei fatti del disegno di tale Licio Gelli, disegno che prevedeva l’aggiogamento dell’intera società e l’asservimento totale dei cittadini ad un potere assoluto. In realtà ciò che preoccupa non è l’aderenza della realtà al modello teorico di questo o quel criminale golpista, quanto l’inerzia con la quale un popolo subisce le angherie di una sparuta minoranza che ha occupato il potere, spacciando quest’occupazione per effettiva scelta popolare, e ha infettato i gangli vitali della democrazia e della convivenza sociale. Spaventa l’opera titanica di ricostruzione che sarà necessario avviare allorché questo corrotto clan affaristico comunque verrà falciato dalla riguadagnata presa di coscienza popolare: l’opera di distruzione dei valori e dei principi di civile convivenza è tale da richiedere moltissimi anni prima che il paese possa riacquisire una propria dignità morale e un’immagine internazionale di credibilità.
Nel frattempo, continuiamo questo mesto cammino di stenti e di frustrazioni, nell’attesa che la storia compia il suo tempo e ci liberi di quanto peggio sia mai capitato a questo disgraziato paese dalla sua ultracentenaria unità.

lunedì, dicembre 07, 2009

Le leccate al potere

Lunedì, 7 dicembre 2009
Quella odierna per il popolo meneghino è una data importante, infatti a Milano oggi si celebra la festa del patrono, Sant’Ambrogio, contraddistinta da importanti appuntamenti legati all’evento: l’annuale prima della Scala e l’assegnazione degli Ambrogini d’Oro, il tutto nella cornice della tradizionale fiera degli O’Bei, O’Bei, il mercatino natalizio della città lombarda.
L’Ambrogino d’Oro, in particolare, consiste nel conferimento di una medaglia d’oro o in un attestato di civica benemerenza, - rispettivamente, 30 medaglie 40 attestati annui, - a cittadini o associazioni che si siano particolarmente distinti nel corso dell’anno precedente nei vari settori delle attività umane (arte, scienze, civismo, solidarietà, ecc.), scelti ad insindacabile giudizio dall’ufficio di presidenza del consiglio comunale tra quanti ritenuti potenzialmente meritevoli.
E fin qui non vi sarebbe niente da eccepire, considerato che si potrà non essere d’accordo sui nomi proposti al riconoscimento o su quelli degli esclusi, ma difficilmente è capitato che il riconoscimento sia stato conferito a persona comunque priva di merito.
Certo, se l’esclusione è motivata da ragioni che esulano la semplice graduazione del merito e scivolano su motivi d’opportunità politica, allora la questione assume tutt’altra connotazione, per divenire un’occasione di meschine vendette politiche o di squallido lecchinaggio, vergognosi sentimenti ai quali non sembra indenne la decantata città della madunina e del panetun. Chi non ricorda, infatti, le volgari speculazioni sul nome di Enzo Biagi, escluso lo scorso anno dal conferimento della medaglia alla memoria per il solo fatto di non comparire tra i reggipila del signor Berlusconi e di cui ci occupammo a suo tempo?
Alla stessa maniera quest’anno tra i premiati figura il nome di una manager potentissima, che risponde al nome di Marina Berlusconi, le cui qualità valutate dall’obiettivo giudizio dell’ufficio di presidenza del comune ci sembrano più di natura anagrafica che non documentate da quella dirompente imprenditorialità, effettivo requisito dell’interessata.
Né il sospetto che il riconoscimento a Marina sia il classico colpo di lingua alle terga del signor Berlusconi viene meno per il fatto che in passato qualche Ambrogino sia andato a personaggi come Dario Fo o Natalia Aspesi, che tradizionalmente non hanno avuto grandi sintonie con le locali amministrazioni milanesi. A nostro avviso, Marina Berlusconi è un’emerita signora nessuno, piazzata lì dove si trova e circondata dal fior fiore di una strapagata consulenza, solo per il fatto d’esser figlia del padrone, che guarda caso, per gestire il proprio tornaconto, s’è dato alla politica e, per evitare la platealità del conflitto d’interessi, ha dovuto affidare a “terzi” l’azienda di famiglia. Questa è cosa che, da che mondo è mondo, è stata fatta in ogni epoca e in ogni dinastia che si rispetti. L’hanno fatta in casa Pesenti, Bonomi, De Benedetti, Agnelli, Ligresti e così via e i risultati talvolta hanno confermato la bontà della scelta, mentre talora l’hanno smentita, ma da qui a concludere che il solo portare un nome fosse di per sé titolo di garanzia di capacità oltre la media e, pertanto, presupposto per conferire premi e cotillon è aspetto che ha coinvolto esclusivamente il solito giro di lacchè di cui i potenti amano circondarsi.
E se le argomentazioni a sostegno della tesi che questi Ambrogino sono oramai divenuti strumento nepotistico e clientelare per ingraziarsi il potente di turno o per conferire riconoscimenti a personaggi che hanno brillato nelle campagne in difesa degli interessi di quello stesso potente non fossero convincenti, vale la pena segnalare che tra i beneficiati dell’onorificenza, oltre alla predetta figlia d’arte, figurano tal Maurizio Belpietro e tal Mario Calabresi, rispettivamente direttore di Libero e de La Stampa, che sul piano strettamente professionale non ci pare abbiano meritato più di quanto fosse dovuto al grande Biagi.
La verità e che nella circostanza di lacchè ce n’erano da vendere, essendo il comune di Milano in mano ad una coalizione PdL-Lega, con tanto di signora Letizia Moratti, - già fallimentare ministro della pubblica istruzione del primo governo Berlusconi, - a rappresentare la città. Con questi presupposti, rifiutare un atto d’omaggio al principale, beatificandogli la figlia e promuovendo faziosi mestieranti a geni del giornalismo, così facendo perno sull’arcinoto sciovinismo del Cavalier Viagra, è stato quasi un colpo da maestri. Questi lacchè, magari, non avranno l’alito buono quando apriranno bocca, ma se non altro con queste iniziative si sono garantiti una certa riconoscenza da parte del superbo di Arcore e, con questa, un posticino all’ombra assicurato al prossimo giro elettorale o alla prossima distribuzione di prebende.
(nella foto, Marina Berlusconi)