sabato, febbraio 27, 2010

Mahmud Ahmadinejad Berlusconi

Sabato, 27 febbraio 2010
Dopo l’ennesimo l'attacco ai giudici, che il premier ha definito «talebani», insorge l'opposizione. Duro il segretario del Pd, Pierluigi Bersani. «Penso» - ha detto - «quello che pensa una persona normale. Ormai siamo alle sparate, si sragiona. E' preoccupante, sono frasi inaccettabili. Dire che ormai ci siamo abituati, non è possibile» - ha aggiunto Bersani - «perché quelle di Berlusconi restano frasi inaccettabili. Credo che veramente gli italiani debbano cominciare a pensare come andare oltre questa fase. Noi non possiamo essere tutti i giorni dentro a questa vicenda. Abbiamo un sacco di problemi, siamo davanti a fabbriche che chiudono. Non possiamo parlare sempre di Berlusconi e delle sue beghe con la giustizia. E questa» - ha ripetuto il segretario Pd - «è una responsabilità che lui porta: mettere sempre al centro se stesso e le sue questioni». Bersani ha ricordato che «c'è un appuntamento elettorale. Non chiedo che il governo venga mandato a casa, ma chiedo che i cittadini mandino una letterina al governo per dire basta, cerchiamo di occuparci dei problemi nostri».
Ancor più allarmato l'Idv, che parla per bocca del suo portavoce Leoluca Orlando. «Non possiamo accettare» - dice - «che i magistrati che amministrano la giustizia in nome del popolo italiano siano offesi solo perché svolgono con onestà il proprio dovere. Ci rivolgiamo al presidente della Repubblica, nella sua veste di garante della costituzione e dell'equilibrio dei poteri, nonché di presidente del consiglio superiore della magistratura, affinché difenda l'onorabilità delle toghe. Siamo al golpe» - avverte il portavoce di Idv - «ad opera di un politico corruttore a capo di una banda di lestofanti e di rappresentanti nelle istituzioni di mafia, camorra e 'ndrangheta. Della banda di talebani fanno parte i corrotti, i corruttori, coloro che ridevano nel letto durante il terremoto dell'Aquila e tutti coloro che, sentendosi al di sopra della legge, usano le istituzioni per far soldi a sfregio della costituzione e umiliando tutti i cittadini onesti».
E che Berlusconi sragioni è di tutta evidenza. La Corte di cassazione, al cospetto della quale si celebrava il processo contro l’avvocato inglese Mills, già condannato nei precedenti gradi di giudizio a oltre quattro anni e mezzo di carcere per corruzione aggravata in solidarietà con Berlusconi, - il cui processo è stato stralciato per la pervicaci resistenze del premier, che sino ad oggi è riuscito a sottrarsi alla giustizia con mille escamotage, - non ha annullato né il reato contestato né la pena inflitta, avendo piuttosto preso atto dell’intervenuta prescrizione temporale dei fatti contestati e, dunque, l’impossibilità di perseguire l’imputato.
Alla luce di questa decisione, le cui motivazioni non sono ancora note, parlare di “assoluzione” di Mills o, peggio, di crollo del “teorema persecutorio” ai danni del premier è palesemente falso, poiché la Corte di Cassazione non è entrata nel merito dell’ipotesi accusatoria, che non le competeva, ma si è espressa in ordine ai requisiti formali e procedurali del processo tenutosi in Corte d’Appello a carico dell’imputato.
C’è da rilevare, semmai, il gravissimo clima di colpo di stato permanente alimentato da un premier golpista e dai suoi scagnozzi, che non perdono occasione per lanciare farneticanti strali ai danni di una magistratura non asservita e che rifiuta di compiacere ai voleri di un uomo che fatto della legalità e della democrazia un uso barbaro e al servizio dei suoi innominabili interessi.
Questo stato di cose, non molto distante dai mentecatti metodi repressivi in atto in paesi oltre i confini della civiltà, si rappresenta ogni giorno più insopportabile e stupisce non solo il silenzio degli organi istituzionali, ai quali compete il dovere di salvaguardare la democraticità della vita pubblica e la dignità della giustizia, ma altresì quello dei partner internazionali dell’Italia, che certamente hanno il dovere di astenersi da qualsivoglia ingerenza dai fatti della vita interna del paese, ma che non dovrebbero guardare con deplorevole distacco a ciò che mina la stessa credibilità delle istituzioni europee.
Non è dato inoltre comprendere quale sia ormai il grado di tolleranza del popolo italiano, se mai di popolo si possa ancora parlare, di fronte allo scempio sistematico di ogni parvenza di legalità che si consuma quotidianamente ai loro danni . Siamo un paese sotto assedio, le cui priorità sono ormai divenute le cialtronerie di una classe politica governante, preoccupata esclusivamente di tutelare l’impunità del suo leader e su questo tema in assoluto dispregio d’attenzione verso le vere emergenze economiche e sociali dei cittadini.
Non sappiamo quando questo tremendo calvario democratico avrà fine, ma è certo che alla sua scomparsa ci ritroveremo con un paese completamente distrutto nell’etica e nei suoi valori più profondi, che sarà arduo ricondurre sulla strada di una ritrovata coscienza solidale. Qualunque sia comunque l’impegno che ci attende siamo certi che nessuno rimpiangerà la dittatura berlusconiana né i meschini modelli di assetto autoritario cui ci ha costretti per qualche decennio, con l’eccezione dei tanti lestofanti che con questo regime hanno fatto affari, che grazie allo svilimento delle regole della convivenza si sono arricchiti sule disgrazie di alluvionati, terremotati e di quanti si son visti mortificati persino la dignità d’esseri umani.

(nella foto, l'avvocato David Mills)

mercoledì, febbraio 24, 2010

Le minchiate sparate dal pulpito

Mercoledì, 24 febbraio 2010
«Se ci sono persone “discusse”, cacciatele dalle liste. Voi ne siete i responsabili, pena l'esclusione dal partito». Questo sarebbe il testo di una circolare inviata dal segretario dell'Udc, Lorenzo Cesa, ai responsabili regionali del partito. Lo ha annunciato il leader centrista, Pier Ferdinando Casini, durante un'intervista televisiva.
E’ singolare come in queste ore si sia scatenata questa passerella di perbenismo, quest’ostentazione di “legalità”, che coinvolge tutti i partiti, - segnatamente quelli che da sempre hanno offerto asilo a stuoli di mariuoli, - all’avvicinersi della prossima mischia elettorale.
Naturalmente, c’è chi predica bene, anzi benissimo, salvo poi razzolare nel fango, convinto che l’elettore è costituzionalmente corto di memoria, se non addirittura fesso, e che, con qualche operazione di maquillage verbale, possa cadere ancora nella rete.
Prendi il povero “perseguitato” da magistrati, carabinieri, guardia di finanza, polizia e vigilantes privati, Silvio Berlusconi. I sondaggi gli provocano un violento mal di pancia e lui che fa per illudersi di recuperare il voto di qualche disilluso? Non prende le distanze da Bertolaso, da Verdini, Cosentino e quanti sono saliti agli onori della cronaca nera degli ultimi tempi, ma si inventa uno slogan nuovo, che minaccia inasprimenti di pene a carico dei malfattori a danno della collettività, ovviamente affidando al disegno di legge la boutade, tanto sa che i tempi per queste formulazioni sono lunghi e difficilmente è pensabile poter realizzare qualcosa di concreto prima delle elezioni.
Ma a lui non importa. Interessa solo lanciare il proclama, che qualche idiota, segnato nel dna da stupidità irreversibile, abbocchi allo slogan e gli dia il voto. Poi dei promessi inasprimenti chi si ricorderà più?
Il personaggio l’ha già sperimentato con successo mille volte: il ponte dei miracoli sullo Stretto (sarebbe più gradito quello di pelo di Cetto Laqualunque, di cui comunque risulta si intenda molto bene), mentre il paese gli frana letteralmente sotto i piedi; la riduzione dell’imposizione fiscale; qualche centinaia di migliaia di posti di lavoro nuovi, mentre la cassa integrazione e la disoccupazione miete vittime come la falce della nera signora; e così via. Ma chi si ricorda la panzana buttata lì, in piena campagna per le politiche, con la quale si prometteva l’abolizione della malefica tassa di proprietà sulle auto?
La pura verità è che questo personaggio è in politica solamente per sfuggire ai processi che lo riguardano e alla probabile galera, - peraltro per reati in larghissima maggioranza commessi quando era un privato cittadino e che, dunque, nulla hanno a che vedere con il suo ruolo politico, - non certo per amor di patria o altre suggestive minchiate, che ammannisce a destra e a manca. E chi lo difende, molto più documentalmente cosciente di quanto non sia il comune cittadino della sussistenza di queste accuse, lo fa esclusivamente per amore di poltrona non certo per genuina buona fede. Se così non fosse, non saremmo un paese di poveracci a cui massacrano gli zibidei da mane a sera con legittimi impedimenti, con processi brevi, lodi demenziali ora Alfano, ora Cirelli, ora Ghedini o di chissà quale altro cameriere pronto a passare il pannolone al Grande Imbonitore.
E non può suscitare un moto d’ilarità compassionevole Casini, quando, sull’onda di questa nuova moda, diffida i suoi iscritti dal proporre in lista candidati con ombre o macchie: scusi signor Casini, - ché darle dell’onorevole francamente ci pesa alquanto, - ma Cuffaro, quel Totò dei cannoli di Palermo, sul quale, avesse messo la mano sul fuoco come aveva lasciato intendere, oggi sarebbe monco, non è stato lei a promuoverlo senatore di questo caravanserraglio di repubblica? Come la mettiamo? Il suo invito o minaccia, - decida lei, - non potrebbe per una volta avere effetto retroattivo e, dunque, anche lei, palesando esemplare senso di dignità, se ne andasse a casa perché ha dimostrato di essere, quanto meno, incapace, per non dire altro?
Invece, lei, caro Casini, si preoccupa di far sapere al paese che non sarebbe disponibile ad assumere un ruolo come quello che fu di Prodi, un mediatore d’istanze d’opposizione in grado di porsi in alternativa al governo in carica. Ma nello schermirsi da questa eventualità ha già sondato l’opinione pubblica? Forse non si rende conto che prima che esser lei a non volere sarebbero i cittadini a non volerla, dato che rappresenta la continuazione farisaica della politica dei due forni della vecchia DC, della quale ha ereditato i vizi peggiori.
Allora lei e il suo ex compagno di squadra Berlusconi, anziché strombazzare ai quattro venti proclami e dichiarazioni utili solo a ventilare l’apparato masticatorio, cominciate a dare il segno di una volontà di cambiamento mutando, in primis, la legge elettorale, riconsegnando al cittadino il diritto di scegliersi il boia che lo impiccherà, piuttosto che arrogarvi il diritto, - che nei fatti è solo potere di ricatto nei confronti degli asserviti, - di comporre liste con candidati bloccati, dai quali poi prendere le distanze quando si scopre che si trattava di delinquenti conclamati.
Ma in fine sappiamo bene, purtroppo, che questi discorsi di bassa logica non interessano né a lei né a Berlusconi. Lei ha da difendere la gallina dalla uova d’oro sulla quale si accomoda ogni giorno e sulla quale spera di far riposare, per chissà quanti anni, le fortunate terga. Al suo ex compagno di squadra, al quale non mancano certo poltrone più comode di quelle di Palazzo Chigi, preme soprattutto non dover riposare per qualche tempo sul crudo tavolaccio. Così, entrambi le sparate grosse, tanto sapete bene che la madre dei cretini è sempre incinta.

martedì, febbraio 23, 2010

Le guerre intestine nel partito che non c’é


Martedì, 23 febbraio 2010
La vicenda Bertolaso non è solo un dejà vu di miserabili imbrogli a danno della collettività di un paese che ha ormai perso ogni lumicino di dignità politica e sociale. E’ nelle sue implicazioni un evento che segna l’inizio di un trend negativo rapido, per non dire precipitoso, dell’avventura PdL, quell’avventura acclamata come geniale nella “notte del predellino” di S. Babila, ma che nei fatti, s’è rivelata una disastrosa campagna per coalizzare una destra eterogenea per rappresentarla come una stabile alternativa di governo ad un paese dilaniato dal qualunquismo fiorito sulle ceneri di tangentopoli.
Nato per la cocciuta volontà di Silvio Berlusconi, il PdL non si è mai trasformato in un vero movimento politico, in un partito in grado di esprimere una linea d’indirizzo unanime e determinata a imporre con gli strumenti della democrazia un new deal di governo, tant’è che lo stesso Fini, che ancora qualche giorno prima della sceneggiata milanese aveva preso le distanze dai minacciosi proclami di Berlusconi in merito alla formazione del nuovo soggetto politico “con chi ci sarebbe stato”, si ritrovò tirato per i capelli nell’avventura, proprio per non correre il rischio di restare isolato rispetto al tradimento in fieri ordito dai suoi stessi ex colonnelli, ebri all’idea di poter finalmente saltare a piè pari nel piatto del potere.
Affermò infatti un Fini ridotto all’angolo, ma ancora lucido: «Non basta uscire dalla casa del padre per dire abbiamo fatto un partito», alludendo ai gravosi impegni che il PdL avrebbe dovuto affrontare per costruire un elettorato di riferimento, una base coesa e fidelizzata in grado di condividere un progetto politico definito e trainante. Quelle parole oggi suonano ancora non solo attuali ma altresì profetiche di ciò che, nei fatti, è accaduto. Il PdL ancora oggi tiene sulla reggenza di Silvio Berlusconi, che con un autoritarismo nostalgico e l’arcigna durezza di un qualunque padrone impone la coesione alle sue truppe, ai mille soldati di ventura che bivaccano nelle caserme in attesa dello squillo di tromba di qualche generale scontento che li guidi in qualche campagna di guerra. Sì, perché di guerre all’interno del PdL se ne consumano giornalmente: Tremonti contro Brunetta, Cosentino contro Bocchino, Ghedini contro Verdini, Cicchitto contro Fitto, persino Fini contro Berlusconi, che mettono a nudo le pirotecniche tensioni intestine e preludono alla deflagrazione nucleare che avrà luogo alla scomparsa di Berlusconi stesso.
La verità è che il PdL è un partito mai nato, o meglio nato su una stratificazione di interessi di natura affaristica, che nulla ha mai avuto di politico se non in via del tutto incidentale. L’aggregazione di personalistiche egemonie sul territorio con la spartizione di appalti pubblici, la necessità di accasarsi in un’organizzazione nascente per riacquisire visibilità con l’occupazione del sottogoverno, la gestione clientelare del proprio elettorato di riferimento con gli obiettivi del federalismo fiscale, il risanamento dei conti pubblici con la tracciatura di nuove nicchie di potere, l’incompetenza dilettantistica con la serietà delle situazioni da gestire, se hanno potuto funzionare per un po’ di tempo grazie alo spauracchio di un’opposizione rivelatasi infingarda e manipolatrice, sconfitta più dall’eutanasia che dal merito degli avversari, nel lungo periodo ha disvelato la sua profonda fragilità.
Allora oggi il caso Bertolaso, che fa crollare il castello di sabbia pazientemente costituito da Berlusconi e i suoi più stretti collaboratori, diviene il succoso pretesto per scagliare imboscate, prendere distanze, distribuire veline al curaro, per conferire il colpo di grazia alla sgangherata strategia del suo leader e tentare un rimescolamento di carte che riequilibri la distribuzione del potere.
Berlusconi ha piena contezza della forza della frana che sta facendogli cedere il terreno sotto i piedi, ma sa bene che non ha alcuna protezione civile pronta ad intervenire per tamponarne gli effetti. Anzi in questo momento avverte un pericolo mortale nelle imminenti elezioni amministrative, che definite da lui stesso “un test importantissimo”, rischiano di vederlo capitolare a causa degli eventi nei quali si è fatto coinvolgere Bertolaso, suo protetto al punto da essere in predicato per un ministero, e delle difese che ha dovuto sperticare in suo favore.
Renato Mannheimer, attento osservatore dei fenomeni politici del nostro paese, ha condotto un’indagine statistica sull’orientamento al voto di un campione rappresentativo di elettori e i risultati che emergono sona di quelli da far tremare i polsi anche al più consumato dei politici di razza: l’80% del campione dichiara che il proprio voto sarà fortemente influenzato dalle vicende Bertolaso e il suo “sistema gelatinoso”, mentre non solo la popolarità del governo ma anche quella del suo leader sono in caduta libera.
A poco vale la farsesca dichiarazione di un Berlusconi suonato come un pugile da queste previsioni di intervenire con un disegno di legge che inasprisca le pene per i corrotti e i corruttori nei rapporti con la pubblica amministrazione. Come giustamente hanno osservato Casini e Di Pietro, si tratta dell’ennesima farsa propagandistica, considerato che i disegni di legge hanno iter interminabili e spesso si perdono per strada, mentre, qualora si fosse voluto dare un segnale in direzione di un maggiore rigore, si sarebbe dovuto procedere con decreto legge e, comunque, si sarebbero dovute chiedere le dimissioni di Bertolaso, almeno per opportunità, e di quel Cosentino, in odore di camorra, che solo lo sdegno interno al PdL ha consentito di non candidare come governatore della Campania.
Molti ancora oggi ricordano le parole di Bettino Craxi all’indomani dell’arresto di Mario Chiesa: “un mariuolo!”, salvo qualche tempo dopo non essere perseguito lui stesso per la stessa tipologia di reati. Chissà che il nostro premier, quantomeno per scaramanzia, eviti di pronunciare quella parola nonostante le evidenze.

lunedì, febbraio 15, 2010

L'Italia di Berlusconi, un paese che si imbarbarisce

Lunedì, 15 febbraio 2010
Ecco un breve saggio di ciò che l'Europa pensa di noi.
Il titolo dell'articolo, tratto dal francese Liberation, è quello originale.
L'Italia è un paese normale? L'anomalia rappresentata da Berlusconi - il fatto che concentri in sé il potere politico e mediatico, che utilizzi il Parlamento come un'azienda destinata a fabbricare leggi che lo salvino dai tribunali, che vomiti insulti sulla magistratura, che critichi continuamente la Costituzione, che riduca la politica a un cumulo di barzellette e dichiarazioni istrioniche, che porti con sé il peso dei suoi scandali sessuali - tutto questo spingerebbe a rispondere di no. Ma c'è di più.Ciò che colpisce, ad esempio, è il fatto che dopo essere stata considerata il laboratorio-avanguardia dell'idea di Europa, l'Italia è oggi regredita a uno status 'provinciale'. La sua stessa classe politica è provinciale, viaggia poco, soltanto di rado parla inglese. Il ruolo centrale ancora attribuito alla televisione immobilizza il paese negli anni Ottanta. Si va in televisione agghidati, tutto è intrattenimento, pubblicità, talk show urlato, sederi e pizzi, le trasmissioni di inchiesta sono rarissime e di conseguenza quelle a cui potrebbero partecipare filosofi, storici, sociologi, psicanalisti o uomini di scienza praticamente non esistono. Una sera su due Rai Uno manda in onda Porta a Porta, un talk show condotto da un giornalista dolciastro, una sorta di messa a cui partecipano sempre gli stessi leader politici, e che non è lontana dal rimpiazzare Camera e Senato. Molto di rado nelle trasmissioni politiche, sportive o di varietà compare una persona di colore. Nuova provincia, l'Italia perde punti praticamente in ogni settore, dalla scuola alla sanità, all'ecologia, ai diritti, alla cultura (budget massacrato) e anche alla tecnologia. Di recente, dopo Bob Geldof che rimproverava il governo di pareggiare il bilancio alle spalle dei poveri, è stato Bill Gates in persona ad accusare Berlusconi ("I ricchi spendono molti più soldi per risolvere i loro problemi personali, come la calvizie, di quanto non facciano per combattere la malaria") di aver ridotto della metà i fondi pubblici per lo sviluppo promessi davanti alle telecamere, facendo dell'Italia "il più avaro paese europeo".
La stessa regressione a livello informatico. Si sa che a causa del decreto Pisano la connessione wireless a Internet in un luogo pubblico, un aeroporto o un cybercafé per esempio, è sottomessa alla presentazione di una carta di identità? Che i crediti per lo sviluppo dell'addebito immedito sono congelati dal 2008, che da parte della maggioranza si levano voci che domandano il controllo di social network come Facebook? Che sono state firmate ovunque petizioni per "emancipare Internet" dalle norme legislative che penalizzano il futuro del paese il quale, per l'accesso alla Rete, è già "indietro e sottosviluppato rispetto al resto d'Europa"? Berlusconi è un uomo di televisione vecchio stile, per il quale Internet è un mezzo pericoloso in quanto "liquido", ovvero incontrollabile e fuori dal suo impero.Ma è a livello sociale che la regressione è più netta. Berlusconi catalizza talmente l'attenzione che all'estero non si percepisce come il fatto più importante sia piuttosto una "leghizzazione" della società, che porta con sé una degradazione morale e civica, una "barbarizzazione" dell'Italia. La Lega Nord di Umberto Bossi - il cui organo di stampa, La Padania, ha scritto "Quando ci liberete dai negri, dalle puttane, dai ladri extracomunitari, dai violentatori color nocciola e dagli zingari che infestano le nostre case, le nostre spiagge, le nostre vite, i nostri spiriti? Buttateli fuori, questi maledetti" - la Lega Nord alleata decisiva del partito di Berlsconi ha fatto eleggere i suoi uomini, molti dei quali sono ministri, in un considerevole numero di amministrazioni locali, diffondendo i suoi valori e il suo linguaggio. Ha sdoganato e reso normale il discorso xenofobo.
Ci vorrebbe la Biblioteca Vaticana per riunire ed enumerare i discorsi che incitano all'odio razziale, all'omofobia, all'anti-meridionalismo pronunciati dai suoi leader. Che si guardino su Youtube i discorsi del signor Mario Borghezio, che ci ascolti qualche estratto dei discorsi di Radio Padania: in nessun paese sarebbe tollerato un tale strabordamento di odio, stupidità, xenofobia!Si difendono i valori cristiani, la famiglia, il lavoro, si vuole la croce sulla bandiera italiana e il crocifisso nelle scuole ma il ministro dell'Istruzione vuole imporre una quota di stranieri nelle classi, il ministro dell'Interno ha voluto istituire ronde di sorveglianza (un fiasco colossale, fortunatamente, nessuno si è presentato per farne parte) e ha reso reato penale il fatto di essere uno straniero senza permesso di soggiorno. Una piccola star della politica, a capo di un'impresa e politicamente schierata a destra della destra, di cui si prevedeva che sarebbe diventata sotto segretario al Welfare perché nelle grazie di Berlusconi (a proposito del quale aveva detto: "E' ossessionato da me, ma non avrà il mio..." o anche "Le donne gli piacciono solo in posizione orizzontale") si è finemente distinta per aver dichiarato che "Maometto era un pedofilo". Un fanatico (eletto) ci teneva a che i treni frequentati dalle ragazze nigeriane fossero disinfettati, un altro (anche lui eletto) voleva "eliminare tutti bambini rom che derubano gli anziani" e, interrotto dagli applausi del "popolo padano" ha invitato i musulmani a "pisciare dentro le loro moschee".Altri ancora hanno dato fuoco alle baracche degli immigrati, proposto vagoni ferroviari e linee del bus separate per italiani e stranieri. Discriminazioni di ogni genere, aggressioni, spedizioni punitive, crimini a volte, bandiere e grida razziste nei raduni della Lega, vere e proprie cacce all'uomo nero con bastoni e fucili che per la stampa internazionale fanno evocare il Ku Klux Klan e che invece al ministro dell'Interno fanno dire: "Abbiamo dato prova di troppa tolleranza verso gli immigrati".Tutto ciò provoca poche reazioni in Europa. Ed è senza dubbio in questo senso che l'Italia è ancor più provincializzata: la si guarda dal lontano e dall'alto, continuando ad amarla per la sua cucina, l'arte e i paesaggi, non la si prende sul serio né nel bene né nel male. Che si immagini cosa accadrebbe nelle strade di Londra, di Parigi, di Berlino se la Lega Nord fosse un partito, poniamo, austriaco o francese e se Umberto Bossi si chiamasse Jörg Haider.
Robert Maggiori, Libération, 11 febbraio 2009

domenica, febbraio 14, 2010

La protezione incivile e il guardiano della latrina


Domenica, 14 febbraio 2010
Piaccia o meno il paese è ormai ridotto ad un bordello, un sordido lupanare aperto 24 ore al giorno, frequentato dal gotha della politica e degli affari.
Dopo le belle di giorno e di notte del premer, i travestiti di Sircana e i trans di Marrazzo, adesso è la volta di Bertolaso, quel Guido Bertolaso che s’è guadagnato i gradi di grande esperto di catastrofi e d’emergenze nella spazzatura di Napoli, nel fango dell’Aquila e di Gianpileri, nelle rovine di Haiti, al punto da restarne imbrattato. E poi, che stress quei cumuli di mondezza! Aggirarsi tra le rovine delle case crollate e tra i lamenti dei moribondi sepolti dalle macerie farebbe salare i nervi anche al più coriaceo supereroe avvezzo ad ogni nefandezza. Allora, che c’è di male se anche questo superuomo, questo gigante delle catastrofi, ogni tanto sente il bisogno di “ripassare” una gentile signorina per scrollarsi quelle visioni dalla mente? Niente di male, direbbe qualcuno. Sarà un superuomo, ma si trascina le debolezze di qualunque travet, un qualunque anonimo signor Rossi impiegato delle poste, che a fine giornata spera d’annegare la stanchezza mentale tra le morbide curve di qualche buona samaritana.
La differenza sta nel fatto che il povero travet la samaritana molto spesso se la sogna e lì finisce e, quando comunque può concedersela, se la paga di tasca sua, magari tra mille rimorsi per aver sottratto qualche decina di euro alla spesa di casa o libri del figlio. Per il superuomo è diverso. La gnocca è gratis, per giunta di prim’ordine, servita su un piatto d’argento, di quelle che si vedono solo al cinema o nei rotocalchi, adeguato omaggio al suo rango di generosi “amici”, - lenoni o ruffiani sono termini desueti e comunque non adatti al blasone dei tomber de femmes blasonati, - i quali a loro volta riceveranno per presente un appalto, una raccomandazione o qualche volo, rigorosamente gratuito, su aerei privati messi a disposizione dagli amici degli amici. Poi non è mica detto che la scappatella debba figurare come frequentazione di misere mignotte. All’occorrenza si potrà sempre dire che si trattava di massaggiatrici, professioniste di shatzu e altre miracolose diavolerie manipolatorie, tanto non è mica doveroso precisare dove ti facevano le applicazioni.
Ma il problema non è solo questo, che se la questione si potesse recintare a sottane e slippini ci troveremmo di fronte ad un probabile ingerenza in faccende sì piccanti ma comunque personali. Invece con il nuovo caso ci troviamo davanti ad una scena da basso impero, dove amici, parenti, profittatori, corruttori e altre sottospecie umane avevano messo in piedi un sistema di favori e tangenti che sfuggiva ad ogni controllo, profittando del grande grado di libertà delegato alla protezione civile e al suo responsabile. E così, via nello spartirsi appalti, auto di lusso, telefonini, aerei, puttane, danaro e quanto d’inimmaginabile, al punto da far dire a qualcuno a conoscenza dei meccanismi banditeschi ma escluso dalla spartizione delle torte che questa’organizzazione delinquenziale “rubava tutto ciò ch’era rubabile”.
Questa non è più un’Italia degna di sedere nelle assisi internazionali e parlare a testa alta, - salvo dover presto o tardi scoprire che anche i suoi interlocutori, sotto un bigotto perbenismo, celavano la stessa pasta. Questa è ormai una latrina immonda nella quale la casta e suoi lacchè consumano i bisogni più innominabili, alla faccia di terremotati, morti e disgraziati, che rischiano malattie e infezioni a causa della sporcizia altrui che s’accumula giorno dopo giorno al loro uscio, tra l’indifferenza di chi dovrebbe intervenire o per consentire a quegl’indifferenti di lucrare mazzette e privilegi nelle trattative con le organizzazioni mafiose che gestiscono lo smaltimento dei rifiuti e le discariche.
In questa ennesima miserabile vicenda che vede coinvolto adesso Bertolaso e il suo entourage, - che ci augureremmo fosse solo una sgradevole bufala, quantunque gli elementi probatori provenienti da intercettazioni telefoniche non lascino molte speranze al fraintendimento, - due sono gli aspetti, persino più sgradevoli delle gravi accuse mosse al capo della protezione civile: il comportamento del solito Berlusconi e il perdurante silenzio del capo dello stato Giorgio Napolitano.
«I Pm si vergognino, Bertolaso non si tocca», ha tuonato il presidente del consiglio come un guappo a cui hanno riferito dell’arresto di un suo guaglione, «tutte queste cose qui sono assolutamente non accertate, non vere e infondate», quasi che le sue affermazioni, del tutto gratuite e prive del minimo elemento di controprova fossero oro colato. «Se una persona opera bene al 100% e poi c'è l'1% discutibile, quell'1% deve essere messo da parte. Mi sembra una cosa di buon senso che è difficile non capire». Una tesi che il Cavaliere rafforza con una certezza: «Se uno mette il telefono sotto controllo per due anni si alzi in piedi chi pensa che non possa uscire qualcosa di scandaloso». Naturalmente quest’assoluzione incondizionata, proveniente da un conclamato organizzatore di crapule, va tenuta in debito conto: la predica proviene da un pulpito talmente accreditato da non consentire discussione contraria alcuna. D’altra parte non va trascurato che a suo tempo il nome di Bertolaso venne fuori a proposito di certi incontri del premier con la Daddario, presenza mai smentita e, soprattutto, mai chiarita: forse il capo della protezione civile sarebbe stato lì presente per prevenire un eventuale crollo rovinoso del suo datore di lavoro o per reggergli il moccolo?
Infine, - a scanso d’ogni dubbio e giusto per non perdere l’occasione di strumentalizzare a proprio vantaggio ogni argomento, - l’assolutore Silvio ha concluso con la tiritera sull’aggressione continua al suo governo, quello su un clima politico «imbarbarito» e «difficile da sopportare» cui bisogna attribuire le cattiverie sul conto del suo protetto, - un leit motiv con il quale non ingannerebbe più manco uno scolaro della materna.
Dal lato della Presidenza della Repubblica, stupisce il perdurare di un silenzio ingiustificato sui continui attacchi alla magistratura di cui lo stesso Napolitano è presidente. Su questo fronte è assolutamente inconcepibile che il Capo dello stato consenta uno svillaneggiamento perpetuo di una categoria costituzionale impegnata solo a fare il proprio dovere, indagando senza riguardi e timori reverenziali sul comportamento illecito di cittadini che ricoprono delicatissimi incarichi in seno ad altrettanti delicatissimi apparati dello stato. Né può accettarsi che un presidente del consiglio perseveri nella più assoluta mancanza di rispetto istituzionale verso organi dello stato che hanno pari dignità alla sua, - se non addirittura superiore, considerati gli spettacoli indegni cui s’abbandona con sistematicità, - nel silenzio di colui che, per ruolo, è il tutore della legalità costituzionale e della democrazia.
Senza voler anticipare giudizi di colpevolezza su Bertolaso, cui è sperabile si lasci provvedere la magistratura, la cornice nella quale si sviluppano gli accadimenti è assai preoccupante e da tempo ha travalicato il limite dall’allarme per la democrazia. La verità e che, in queste condizioni, il nostro non è più uno stato, con regole e doveri a tutti i livelli delle sue istituzioni. E’ ormai qualcosa che sempre più somiglia alle latrine di certi autogrill d’infima categoria, dove gli avventori possono anche farla fuori dal cesso, sotto l’occhio distratto, o al più bonario e comprensivo, del guardiano addetto e magari del gestore, certi entrambi che tanto la gente di passaggio continuerà a fermarsi.

sabato, febbraio 06, 2010

Finalmente un freno alle leggi liberticide

Sabato, 6 febbraio 2010
Pur se parecchi non se ne sono ancora accorti, una guerra è da tempo in corso. Una guerra di portata mondiale che vede contrapposti gli interessi di case cinematografiche, discografiche e di produzione di software e l’utenza internet, che con l’ausilio di programmini reperibili gratuitamente sulla rete scarica film canoni e applicazioni senza pagare nulla, in barba ai diritti d’autore.
I danni per le case di produzione non è indifferente, ma gli strumenti a disposizione per interrompere quel che costituisce una vera e propria sottrazione non autorizzata di materiale sono praticamente inesistenti e i pochi adottati, peraltro con notevoli costi, durano lo spazio di qualche ora e capitolano sotto l’attacco di irriducibili drappelli di hackers.
Per tamponare questa emorragia i produttori hanno pensato bene di rivolgersi alla magistratura, la quale di fronte all’impossibilità di individuare materialmente l’autore del “furto” non ha che potuto allargarle braccia. Ma qui, con l’incauta copertura di governi e apparati legislativi, è scattato il perverso meccanismo inventato da discografici e major: trasformare i provider internet in sceriffi della rete obbligati a segnalare all’autorità giudiziaria le cosiddette connessioni peer to peer, cioè quelle attraverso le quali ci si collega ad un sito host per connettersi ad un altro utente, che cede il file richiesto; oppure per scaricare file da un server remoto.
In questa trappola, - che a guardar bene non può credersi sia stata coperta da apposita legislazione senza un qualche interesse di ritorno, - hanno abboccato paesi come la Francia, gli USA e di recente l’Italia, finendo nei fatti per creare un mostro giuridico senza precedenti e, tra l’altro, assolutamente inutile considerata la collocazione dei server compiacenti in paesi nei quali non è possibile perseguire reati di questa natura e la diffusione sempre più ampia di sistemi di navigazione anonima, che rendono illeggibile l’IP, cioè il codice di identificazione utente assegnato dai provider ad ogni abbonato o il cambio continuo e casuale dello stesso.
Ciò che effettivamente sconvolge non è il ricorso ad ogni arma per combattere un discutibile fenomeno come quello della pirateria su internet, quanto la scelta di ricorrere a misura che anziché combattere il fenomeno in sé e incidere positivamente sui risultati determinano spaventose violazioni di ogni regola di libertà e di privacy.
Il caso recentemente accaduto in Australia dimostra, però, che l’ottusità del legislatore non sempre è corroborata da altrettanta idiozia dei giudici, che invece, nel corso di una causa intentata da Walt Disney, Paramount, Universal Pictures, Warner Brothers, Sony e 20th Century Fox a iiNet, terzo provider del continente, ritenuto colpevole di non aver inibito le connessioni dei suoi clienti ai siti ed ai server dai quali effettuare download pirata, hanno dato definitivamente torto alle più potenti major della terra e costituito un importantissimo precedente a contro la legislazione di cui parliamo.
Ha infatti sostenuto iiNet che il suo business consiste nella vendita di servizi di connessione internet, che vanno dall’installazione delle infrastrutture alla manutenzione delle stesse. Il suo compito non può essere stravolto al punto da chiederle di monitorare ogni singolo cliente al fine di controllare quali connessioni effettua. Un sistema così preordinato evidenzierebbe una duplice violazione di principi legislativamente sanciti. In primo luogo si determinerebbe un’intrusione nella privacy dell’utente, che ha il diritto di connettersi con chi gli pare e la semplice connessione a siti che offrono la possibilità di download non costituisce di per sé reato. Secondariamente a nessun fornitore di specifici servizi è mai stato imposto l’onere di controllare l’uso che l’utente fa del servizio erogato: sarebbe come imporre alla società elettrica di monitorare la natura dell’utilizzo dell’energia erogata. In fine se vale il principio di colpevolezza solo i forza di definitiva e regolare sentenza emessa da un tribunale, non spetta certamente ad un provider qualsiasi anticipare conclusioni d’illiceità di comportamento dell’utente.
I giudici di Sidney, accogliendo in pieno queste motivazioni, hanno concluso che il compito di iiNet è quello di erogare servizi di connessione e non di assumere le vesti di tutore del copyright. Nulla di più può essere richiesto alla società in questione, che esuli dalle sue competenze e dalla sua missione industriale.
Chissà se queste elementari conclusioni faranno riflettere non solo Sarkozy ma anche qualche novello crociato di casa nostra, che aveva già pensato di costringere i provider a registrare tutte le connessioni effettuate da ogni singolo utente per poi sottoporle al vaglio di una anacronistica quanto arrogante censura.
(nella foto, l'immagine di avvio di uno dei più diffusi programmi p2p, eMule)

venerdì, febbraio 05, 2010

Demagogo sarà lei

Venerdì, 5 febbraio 2010
E’ accertatamente vero che patologie non annoverate tra quelle previste dalla casistica medica sono divenute vere e proprie malattie, con l’aggravante della contagiosità.
Nell’epoca dell’arroganza sdegnosa con sindrome d’onnipotenza delirante chi avrebbe mai pensato che anche fette di popolazione, apparentemente sana,potesse evidenziare alla lunga un pericoloso e, forse, irreversibile contagio.
Invece, ecco la nuova malattia d’inizio secolo, più perniciosa della famigerata N1H1, - meglio nota come influenza suina o se si preferisce “sindrome bufala”, - che colpisce indiscriminatamente, senza distinzione di ceto sociale, - ma allo stato attuale sarebbe meglio ricominciare a parlare di classe, - e, soprattutto, sintomi premonitori.
L’ultimo in ordine di tempo a subire l’infezione è Luca Cordero di Montezemolo, rampollo di casa Agnelli, ex presidente di Confindustria, ultimo residuato della razza padrona e attuale presidente di FIAT, che ieri, a margine dell’inaugurazione dell’anno accademico della Luiss ha dichiarato al folto gruppo di studenti e docenti presenti nell’aula magna dell’ateneo romano: «Le scelte industriali che servono a mantenere competitive un'azienda non potranno essere disgiunte dal problema di farsi carico delle famiglie e delle persone», e fin qui nulla di anomalo, se non qualche evidente contraddizione tra le cose predicate e la prassi seguita dall’azienda che presiede.
Il colpo di teatro, i sintomi della patologia, emergono quando si lascia andare ad una dichiarazione che definire demagogia pura è mera reticenza e stravolgimento della verità effettiva.
«Da quando ci siamo noi - ha aggiunto, riferendosi al suo mandato e a quello di Marchionne - la Fiat non ha ricevuto un euro dallo Stato. Ho visto delle cifre che dicono che gli incentivi, che sono dati non alle aziende ma ai consumatori, sono andati per il 70 per cento alle aziende straniere, solo il 30 per cento alla Fiat. Quindi, credo che dobbiamo uscire da un approccio demagogico e guardare alla realtà così com'è».
Le affermazioni del presidente della Fiat non possono non apparire paradossali, poiché giocano sulla sottile distinzione tra destinatario e fruitore dell’incentivo messo a disposizione del settore automobilistico. E’ certamente vero che l’incentivo è stato erogato per incentivare il consumatore all’acquisto di un’auto nuova di zecca, ma è fuori discussione che in assenza di quella provvidenza la Fiat, i guadagni personali di Montezemolo e di casa Agnelli, oltre al lauto stipendio del signor Marchionne, non avrebbero potuto neanche realizzarsi in assenza di un introito moltiplicato dall’incremento delle vendite. Sarebbe infatti assai imbarazzante, se così non fosse stato, dover spiegare al mondo la provenienza di oltre 270 miliardi di utili distribuiti sotto forma di dividendi agli azionisti, mentre a livello mondiale il settore è notoriamente in crisi profonda e ha per questo goduto di analogo sostegno da parte dei singoli governi.
Avrebbe avuto molto più senso parlare di sostegno indiretto ai bilanci della società, piuttosto che prendere le distanze da un provvedimento a favore del settore, che suona come il classico sputo nella scodella nella quale s’è mangiato sino a poco prima.
Né a giustificazione di queste spocchiose affermazioni vale la guerra in corso tra Fiat e governo sul destino di Termini Imerese, che vede la Fiat irremovibile sulle decise posizioni di chiudere quell’impianto: non mi piego al ricatto dei “quattro soldi” d’incentivo a sostegno delle vendite per mantenere in vita un moribondo.
La verità sta nell’eterna politica di ricatto sociale che la Fiat ha portato avanti da sempre: aiuti incondizionati (incentivi, cassa integrazione a iosa, prepensionamenti, mobilità lunga, ecc.) in cambio di misure di qualche salvaguardia dei livelli occupazionali, che, se non attuate, finirebbero comunque per pesare sulle politiche del governo impossibilitato ad ignorare il destino di tanti lavoratori e delle rispettive famiglie, come rammenta lo stesso Montezemolo, quasi con velata minaccia.


La hit parade dei dittatori

Venerdì, 5 febbraio 2010
La legge sul legittimo impedimento in fase di approvazione parlamentare rappresenta un passo significativo verso la stabilizzazione della dittatura nel nostro paese.
La legge, che prevede la facoltà per presidente del consiglio in carica e ministri di opporre il proprio rifiuto alla magistratura di sottoporli a procedimento giudiziario, su semplice diniego dell’interessato, costituisce per gli uomini del potere la scappatoia per sfuggire alle maglie della giustizia, che non ha precedenti nella storia repubblicana né nella prassi democratica dei paesi occidentali. Non v’è traccia di un simile provvedimento neanche nei documenti storici feudali o di borbonica memoria.
La legge, che le indagini demoscopiche danno per invisa ad oltre il 60% dei cittadini, è una forzatura senza precedenti e segna un profondo e definitivo solco tra il popolo e la casta: l’uno è soggetto alla legge, la seconda è a suo piacimento indenne da qualunque “ingerenza” e censura in nome di un mistificato concetto di governabilità, che nel suo lessico è sinonimo di licenza di delinquere.
Quel che provoca l’irrefrenabile voltastomaco non è l’impunità per i reati eventuali commessi nell’espletamento dell’incarico pubblico, quanto la pretesa di mantenere esente da perseguibilità anche gli eventuali reati commessi prima di assumere la carica istituzionale. Ciò vuol dire utilizzare la politica come passaporto per l’impunità, che richiama alla memoria la sinistra realtà francese antecedente la presa della Bastiglia, sebbene oggi non si tratti di nobiltà e clero a godere di favoritismi, ma di un’espressione affaristico-delinquenziale che c’è da augurarsi subisca la stessa sorte.
Berne, è a questa casta vile e miserabile che abusa del proprio potere che deve obbedienza cieca chi a suo tempo ha votato Berlusconi & C.; e ci sarebbe persino da desiderare per costoro abusi e umiliazioni di ogni specie da parte del suo beniamino e accoliti. La tragedia sta nel fatto che, com’era purtroppo prevedibile, l’olio di ricino scorre a fiumi ed è distribuito indifferentemente ad amici, simpatizzanti, avversari e nemici, pur se le dosi per il dissenso son sempre le più massicce.
Con questa legge il premier entra di diritto nella hit parade dei dittatori di fine secolo e d’inizio millennio, associando il proprio nome e quello dell’Italia a personaggi e paesi che mai avremmo pensato fosse possibile eguagliare in quanto a mortificazione delle regole democratiche di libertà e giustizia.
Ecco il triste elenco al quale da oggi possiamo associare il nome dell’Italia:
Vladimir Lenin (Russia Sovietica, URSS), Josif Vissarionovič Džugašvili Stalin (URSS), Aleksandr Lukashenko (Russia), Leonid Brežnev (URSS), Todor Zhivkov (Bulgaria), Wojciech Witold Jaruzelski (Polonia), Gustáv Husak (Cecoslovacchia), Janos Kadar (Ungheria), Ante Pavelic (Croazia), Tito (Jugoslavia), Slobodan Milošević (Serbia), Enver Hoxa (Albania), Gheorghe Gheorghiu-Dej (Romania), Nicolae Ceauşescu (Romania), Saparmyrat Ataýewiç Nyýazow (Turkumenistan), Islom Karimov (Uzbekistan), Adolf Hitler (Germania), Walter Ulbricht (Germania Democratica), Erich Honecker (Germania Democratica), Tassos Papadopulos (Cipro), Benito Mussolini (Italia), António de Oliveira Salazar (Portogallo), Francisco Franco (Spagna), Mustafa Kemal Atatürk (Turchia), Abdul Aziz Al-Saud (Arabia Saudita), Isa bin Salman Al Khalifah (Bahrain), Bo Ne Win (Birmania), Than Shwe (Birmania), Hassanal Bolkiah Mu'izzaddin Waddaulah (Brunei), Saloth Sar Pol Pot (Cambogia), Mao Tse-tung (Cina), Deng Xiaoping (Cina), Chiang Kai-shek (Cina Pop.), Kim Il Sung (Corea del Nord), Kim Yong II (Corea del Nord), Chun Doo-hwan (Corea del Sud), Ferdinand Edralin Marcos (Filippine), Haji Mohammad Suharto (Indonesia), Mohammad Reza Pahlavi (Iran), Mahmoud Ahmadinejad (Iran), Saddam Hussein (Iraq), Muhammad Zia ul-Haq (Pakistan), Ho Chi Minh (Viet-nam), Lee Kuan Yew (Singapore), Hafiz al-Asad (Siria), Bashar Al Assad (Siria), Juan Domingo Perón Sosa (Argentina), Jorge Rafael Videla Redondo (Argentina), Roberto Eduardo Viola (Argentina), Leopoldo Fortunato Galtieri Castelli (Argentina), Reynaldo Benito Bignone (Argentina), Hugo Banzer Suárez (Bolivia), Augusto José Ramón Pinochet Ugarte (Cile), Fidel Alejandro Castro Ruz (Cuba), François Duvalier (Haiti), Anastasio Somoza García (Nicaragua), Alfredo Stroessner Matiauda (Paraguay), Alberto Kenya Fujimori (Perù), Rafael Leónidas Trujillo Molina (Santo Domingo), Peter Gomez (Venezuela), Hugo Rafael Chávez Frías (Venezuela), Houari Boumédiène (Algeria), Hosni Mubarak (Egitto), Hassan II (Marocco), Mu'ammar Gheddafi (Libia), Hissène Habré (Ciad), Jean-Bédel Bokassa (Repubblica Centrafricana), Joseph Kabila Kabange (Congo), Joseph-Désiré Mobutu (Zaire), Amin Dada (Uganda), Robert Mugabe (Zimbabwe), Kenneth Kaunda (Rhodesia), Kamizu Banda (Malawi), Didier Ratsiraka (Madagascar), Hailé Selassié (Etiopia), Hailé Mariam Menghistu (Etiopia), Maxamed Siyaad Barre (Somalia), Omar Hasan Ahmad al-Bashir (Sudan), Omar Bongo Ondimba (Gabon), Ahmed Sékou Touré (Ghana), Gnassingbé Eyadéma (Togo), Félix Houphouët-Boigny (Costa d'Avorio), Laurent Gbabo (Costa d'Avorio), Charles “Chuckie” Taylor (Liberia), Moussa Traorè (Mali),
Non c’è che dire, un’edificante compagnia di cui essere orgogliosi.

martedì, febbraio 02, 2010

L’apoteosi dell’orrogante impunità


Martedì, 2 febbraio 2010
L'articolo che segue è tratto dal quotidiano la Repubblica di oggi e costituisce un commento alla fosca ipotesi di varare, a legge sul legittimo impedimento approvata, un provvedimento che cancelli definitivamente le norme sui pentiti, che tanto contributo hanno fornito in questi anni nella lotta contro la mafia e le sue regole omertose.
Il provvedimento, voluto ancora una volta dallo staff del presidente del consiglio, quello che in ogni occasione ufficiale si vanta del'impegno del suo esecutivo nella lotta alla criminalità organizzata, è una risposta alle indagini e ai processi in corso, che vedono il senatore Marcello dell'Utri, già suo braccio destro nella gestione delle sue aziende, implicato in gravissimi fatti di mafia, per i quali è già stato condannato e ha fatto ricorso in appello, oltrte che se stesso per vicende di finanziamento nelle operazioni di edificazione di Milano 2 e nel'avvio della stessa Fininvest.
E' del tutto superfluo richiamare l'attenzione sul fatto che, se le norme pasassero, ciò che resta dell'Italia somiglierebbe sempre più alla Somalia, paese nel quale bande di delinquenti da anni si danno battaglia per la supremazia in una realtà senza più legge.
In questa prospettiva il nostro paese assume una fisionomia di dittatura liberticida di cui non fu pari nemmeno il tristissimo ventennio fascista. Forse per trovare riferimenti di tale folle prevaricazione di ogni più elementare regola democratica sarebbe più indicato guardare alle tragiche esperienze mittel-europee coeve al fascismo nostrano, nella speranza che la furia popolare presto o tardi, disgustata di queste tracotanti atti d'abuso, non ripeta i tragici eventi di sangue che ne derivarono.


L'impunità assoluta
di Giuseppe D'Avanzo

Senza alcun dibattito pubblico, le immunità per le oligarchie politiche e le burocrazie dello Stato, che si rendono obbedienti, appaiono il canone che ispira le mosse del governo e la produzione legislativa della maggioranza.
Si fa largo l'idea di "un primato della politica" che vuole rendere indiscutibile, per chi ha il potere, una protezione assoluta nei confronti del controllo di legalità. Ovunque si guardi, si può afferrare la tendenza della politica a costruire schermi, muri, privilegi, autoesenzioni. In una sola giornata, si possono cogliere due segni della pericolosa asimmetria che incuba, nascosta, nel Palazzo.
Un disegno di legge, in discussione al Senato (relatore Piero Longo, avvocato di Berlusconi), prescrive ai giudici come valutare le fonti di prova offerte dai "disertori" delle mafie. Se il progetto diventasse legge, le dichiarazioni rese dal coimputato (e da imputati di procedimento connesso) avrebbero valore probatorio "solo in presenza di specifici riscontri esterni". Anche se il dibattimento riuscisse a raccogliere "riscontri meramente parziali", quelle dichiarazioni sarebbero "inutilizzabili". Sono norme che possono disarticolare annientandole, dal punto di vista giudiziario, le dichiarazioni di quei testimoni dei processi di mafia che impropriamente diciamo "pentiti". Quanti saranno i processi che "moriranno" per infarto legislativo? E che ne sarà della lotta alle mafie, glorificata appena qualche giorno fa dall'intero governo a Reggio Calabria?
Non è una novità che i ricordi, le accuse dei "collaboratori di giustizia" debbano avere verifiche "interne" ed "esterne", conferme "intrinseche e estrinseche", come si dice nel gergo dei legulei. Si sa che non sono sufficienti le dichiarazioni incrociate. Lo ha stabilito, e da tempo, la Corte suprema di Cassazione, chiarendo però che se due "disertori" concordano con una ricostruzione dei fatti, il lavoro del giudice deve accertare "in modo scrupoloso e meditato, l'autonomia di ogni singola collaborazione. In caso di positiva verifica di attendibilità, dalla convergenza delle dichiarazioni devono trarsi tutte implicazioni del caso. Si deve in particolare dedurre l'efficacia di riscontro reciproco delle dichiarazioni convergenti e il consolidamento del quadro di accusa". (Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza n. 542/2008, sul cosiddetto caso Contrada).
Ora, è fin troppo facile farsi venire cattivi pensieri, in tempi di leggi ad personam. E' fin troppo semplice intuire che la norma contro i testimoni di mafia nasca, d'improvviso e segreta, quando all'orizzonte del processo contro Marcello Dell'Utri appare Gaspare Spatuzza, che non esita a chiamare in causa anche il presidente del Consiglio. Con la nuova legge, anche se Filippo e Giuseppe Graviano avessero confermato in aula il racconto del loro compare, l'intera ricostruzione sarebbe stata inutilizzabile.
Qui però preme rilevare altro, la volontà del legislatore di creare argini così ferrei da impedire e restringere i "naturali" margini di autonomia interpretativa del giudice. Si vieta ogni interpretazione della legge. Si afferma l'idea di un giudice che si conformi rigidamente alla volontà del legislatore anche a costo di accantonare principi costituzionali, ragionevolezza, buon senso, convincimento logico. Affiora una concezione "assolutistica" del "primato della politica" sulla giurisdizione.
La tendenza è ancora più evidente nelle conclusioni del caso Abu Omar. L'uomo, Osama Nasr Moustafà (Abu Omar è il nome religioso), è l'imam nella moschea di viale Jenner a Milano. Ha 39 anni, è egiziano, in Italia è protetto dal diritto di asilo. La Cia lo accusa di essere un "terrorista" di Al Qaeda. E' una cinica astuzia, abituale nella stagione della "guerra al terrore". L'accusa è un modo per dare pressione al povero disgraziato, metterlo con le spalle al muro schiacciato da un'alternativa del diavolo: o collabora con l'intelligence americana e italiana e si fa spia tra i suoi o Cia e Sismi (l'intelligence italiana diretta da Niccolò Pollari) lo incappucciano, lo sequestrano, lo spediscono nella sala di tortura di un carcere nordafricano dove la sua ostinazione a conservarsi "integro" verrà messa alla prova. E' quel che accade all'egiziano. Chi rapisce Abu Omar il 17 febbraio 2002? Un processo a Milano accerta che sono stati agenti della Cia. Che ruolo hanno avuto le barbe finte di casa nostra? Il giudice Oscar Magi ha le idee molto chiare. Scrive, nelle motivazioni, che Niccolò Pollari, il suo staff, i suoi agenti erano a conoscenza dell'azione degli "americani", si sono voltati dall'altra parte e, quando è scoppiata la grana, hanno ostacolo e inquinato le indagini della magistratura. Pollari e i suoi si salvano da una condanna protetti da un segreto di Stato, opposto dai governi Prodi e Berlusconi con un "paradosso logico e giuridico": sul sequestro di Abu Omar non c'è segreto, ma il segreto impedisce di accertare le responsabilità di chi ci ha messo le mani. Il giudice di Milano osserva che l'iniziativa del governo estende "l'area del segreto in modo assolutamente abnorme" trasformando il segreto di Stato "in un'eccezione assoluta e incontrollabile allo stato di diritto".
Un'interpretazione "pericolosa" che, anche in presenza di reati gravissimi (il sequestro di persona lo è), offre alle barbe finte "un'immunità di tipo assoluto non consentita da nessuna legge di questa Repubblica" e affidata all'arbitrio dell'autorità.
Qui è l'arbitrarietà dell'opposizione del segreto di Stato a mostrarci come la giurisdizione sia umiliata da una politica che impone la sua sovranità e con il suo "primato" offre un'impunità di dubbia legittimità costituzionale a burocrati sottomessi e docili.
Il lavoro dei servizi di informazione deve salvaguardare l'indipendenza e l'integrità dello Stato, tutelare lo Stato democratico e le istituzioni che lo sorreggono. Il segreto è lo strumento che consente all'intelligence di difendere gli "interessi supremi". Che sono "l'integrità della Repubblica; la difesa delle Istituzioni; l'indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati; la preparazione e la difesa militare dello Stato". Nessuno di questi interessi può essere minacciato dall'accertamento di che cosa è accaduto - e con la responsabilità di chi - quella mattina del 17 febbraio del 2003, a meno di non pensare che diventi legale un sequestro di persona e legittima la violazione della Costituzione e della Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Il governo ritiene, dunque, che sia nelle sue prerogative anche la tutela di un interesse non "supremo" ma politico disegnando quindi, ancora una volta, una scena che attribuisce una signoria della politica sulla legge. Se ne scorge l'esito. La regola non è più la pubblicità e il segreto, l'eccezione. Al contrario, il segreto diviene (può divenire da oggi) pratica d'uso quotidiano di un presidente del Consiglio che decide, alla luce di un interesse tutto politico, che cosa si può conoscere e che cosa deve restare pubblicamente nascosto.Il legislatore che, rivendicando un "primato", si cucina per sé e per la sua oligarchia una protezione dalla legalità e un governo che rifiuta di governare in pubblico pretendendo per sé un potere sovrano e segreto non separano soltanto la legittimità dalla legalità, ma anche la democrazia dalla Costituzione. Sembra questo il più autentico focus della stagione che ci attende.

(nella foto, Massimo Ciancimino testimone al processo Dell'Utri a Palermo)


Sodomia e Camorra

Martedì, 2 febbraio 2010
A leggere la cronaca di una giornata qualunque questo paese che non c’è si resta a metà strada tra lo sbigottito e l’incredulo. Siamo ormai all’ordinaria e quotidiana follia, con un potere sempre più marcio e distante dai cittadini e un popolo, quello vero che alla sera deve fare il conto con un portafogli sempre più leggero, che magari passa qualche minuto prima d’andare a letto a sfogliare il calendario alla ricerca del nome di un santo nuovo cui votarsi.
Così apprendiamo che Milano oggi è ancora più inquinata della scorsa settimana, prima del ridicolo stop alle auto della domenica, che alla ripresa a pieno ritmo della settimana lavorativa com’era prevedibile ha fatto registrare una nuova impennata degli agenti inquinanti. Ma le menti fini di De Corato, della Moratti e Formigoni hanno fatto sapere di avere un asso nella manica: un nuovo stop al traffico la prossima domenica dovrebbe rappresentare il toccasana contro i veleni che ammorbano l’aria. Certo è che se la valente trimurti meneghina valutasse l’ipotesi di fermare il traffico anche la notte forse otterrebbero qualche risultato più apprezzabile, dato che il fermo dell’imponente traffico domenicale non sembra poter risolvere da solo il grave problema.
Nelle stesse ore il sindaco di Salemi, il valentissimo Vittorio Sgarbi, comunica le sue dimissioni dall’incarico di primo cittadino, sdegnato e offeso per un’indagine della guardia di finanza ai suoi danni, motivata dall’utilizzo che avrebbe fatto di un’auto non sua ma del Comune per accompagnare dei giornalisti all’aeroporto. «Ma come, - ha obiettato candidamente lo sconcertato Vittorio, come fosse normale usare a proprio consumo i beni che paga la collettività - ho pure messo la benzina di tasca mia! Qui l'antimafia è anche peggio della mafia. Non ne posso più. Mi dimetto e vado via». Poi, tra l’indispettito e lo sgomento, riferendosi anche ad un’altra indagine della DDA promossa da una denuncia dell’ex consigliere comunale sempre di Salemi, Oliviero Toscani, ha concluso in perfetto stile di uomo di panza: «La Dda convoca i miei collaboratori e non me. Indaga sul nulla, perché la mafia a Salemi non c'è». E se lo dice lui.
Ma il colpo di teatro spetta a Tremonti, famigerato ministro dell’economia, che forse preso in momento di sconforto ha confessato di aver subito una folgorazione che gli ha aperto gli occhi. «I banchieri, locali, centrali, piccoli e grandi sembra facciano qualcosa che non è il loro mestiere!» - che detta da un ministro dell’economia suona affermazione paradossale. Ma grottesca è l’affermazione seguente: «I governi pare non facciano quel che è nel loro dovere». Al che vien da chiedersi chi accidenti abbia messo quei signori a fare i banchieri, visto che probabilmente avrebbero potuto esprimere maggior talento all’angolo di una strada a vender panini e cosa aspettino questi governanti a togliere il disturbo, considerato che non fanno il loro dovere.
Le domande, com’è ovvia prassi in questa espressione geografica che ingombra parte del Mediterraneo, resteranno senza risposta e i venditori di panini continueranno a fare i banchieri e i governanti inadempienti continueranno ad incassare i loro lauti stipendi da mandarini, magari spernacchiando il divino Giulio e sganasciandosi per le sue folgorazioni.
Naturalmente a chi ci si poteva rivolgere nel momento del bisogno? Ma al buon Prodi, il sempre eterno Romano, buono per tutte le stagioni: lo si manda a fare il sindaco di Bologna al posto del dimissionario Delbono, il trombatore, in attesa di trovare un sostituto indicato da D’Alema per trombarlo. Ma il professore ha già fatto sapere che non ci sta. Lui, dopo tani anni all'Iri, a fare il grand commis di stato in epoca DC e le varie , meritatissime, esperienze politiche, e stanco di metterci la faccia e altre appendici e poi non ha la vocazione della testa di paglia, - semmai di qualcos’altro - e, dunque, non intende candidarsi a sindaco della città.
Bersani, - che va da Santoro a fare il buonista e l’uomo tutto d’un pezzo, ma poi razzola nella guazza lercia come una gallina qualsiasi, - fa sapere che rispetterà la decisione di Prodi, convinto che un inquisito da candidare a Bologna prima o poi lo troverà com’è accaduto per le elezioni in Campania con il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca. Come dire, ma da che pulpito vengono le prediche contro gli inquisiti altrui!
Nel frattempo tutte le ire si scatenano contro Ciancimino junior, reo di aver deposto al processo di Palermo sullo scellerato accordo mafia-stato dichiarando che Milano 2 è stata costruita anche con i soldi della mafia. Il mitico Ghedini, - avvocato del presidente del consiglio, quell’uomo senza macchia che qualche ora fa ha affermato con la più esemplare delle facce di tolla che i giornali lo hanno sottoposto ad una campagna d’odio e discredito fantasticando su suoi presunti reati patrimoniali, - ha già fatto sapere che denuncerà il rampollo di casa Ciancimino, pur non ha chiarendo se su mandato dei condomini del noto quartiere milanese o di qualche mafioso ritenutosi offeso dalle dichiarazioni di un millantatore.
All’intrepido avvocato suggeriremmo di denunciare anche Wikipedia, che al link http://it.wikipedia.org/wiki/Banca_Rasini racconta urbi et orbi la storia dei finanziatori di Milano 2, oltre che del padre di un suo assistito, confermando le affermazioni di Ciancimino.
Viene un sospetto, non è che Ciancimino prima di deporre abbia dato un rapido sguardo al sito e, quindi, non sia tutta farina del suo sacco?
Ma la giornata ci rammenta che c’è ben altro di cui preoccuparsi. La Fiat ha visto gli ordini di nuove autovetture crollare del 50%, nonostante a gennaio vi sia stato un boom di nuove immatricolazioni: tutta roba venduta l’anno scorso e in arretrato di consegna.
Marchionne, - detto più appropriatamente Marpionne, - stenterà a prender sonno, pover’uomo. In una drammatica situazione come questa pretendono pure di non fargli chiudere Termini Imerese: «Ma chi sono io, Babbo Natale?» avrà detto battendo il pugno sul tavolo e digrignando i denti. D’altra parte fin’a quando s’è potuto sti terroni hanno mangiato. Vabbé, con soldi di giro. Te li dava lo stato sotto forma d’incentivi e qualcosa dovevi pur dare in cambio. Adesso gli incentivi non ci sono più, - quelli di prima sono stati impiegati anche per fare gli sboroni in America facendo shopping, - e Termini non può più esser mantenuta. Lo dice anche quel genio della Marcegaglia, che s’è appena comprato per un tozzo di pane il residuo del disastroso investimento per il G8 mancato alla Maddalena. La verità è che ogni occasione è buona per dare addosso a quattro poveri imprenditori che, tra mille stenti, cercano di galleggiare. Prendi quel povero disgraziato di Tronchetti Provera che deve pagare 7,5 milioni per uscirsene dalla vicenda delle intercettazioni Telecom, montata secondo il patron della Pirelli-Telecom, da quel pirla di Tavaroli. Adesso, che tra l’altro si parla di fusione di Telecom con la spagnola Telefonica, rischia di fare il presidente di Mediobanca, poveraccio. Un avvenire di stenti. Mentre Geronzi, altra colomba senza macchia, deve lasciargli il posto e contentarsi della presidenza delle Generali. Effettivamente casi umani come questi non possono non generare ovvia commozione per l’epilogo così triste riservato dal destino a personaggi un tempo potenti e adesso costretti a ripiegare su ciò che passa il convento per mangiare un panino.
Storie di ordinaria e quotidiana follia nella terra della Sodomia e della Camorra, entrambe praticate dal potere nei confronti di cittadini sempre più svogliatamente consenzienti.
(nella foto, scene di ordinari abusi sui cittadini da parte di esponenti del potere, facilmente individuabili nella rappresentazione)