venerdì, gennaio 30, 2009

Pensioni tra protervia e ingiustizia, l’ennesimo colpo di mano


Venerdì, 30 gennaio 2009
Lo dicessero apertamente una volta per tutte: “chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto, le pensioni sono abolite e non se ne parli più!”.
Questa sembra essere la logica finale con la quale i governi accattoni e truffaldini che si sono alternati, a partire da quello di Lamberto Dini del ‘95, intendono affrontare la questione dei conti pubblici. Una logica sciagurata, ai limiti del codice penale, con la quale si intende scaricare sui cittadini l’incredibile incapacità con la quale si sono amministrati negli anni i pubblici danari, quelli versati, - ma sarebbe più opportuno dire estorti, - da aziende e lavoratori per finanziare il sostegno alla vecchiaia.
Così Tremonti a Davos, dove si svolge il World Economic Forum, fa sapere che già dal 2010 intende attuare un ulteriore giro di vite sui meccanismi pensionistici, senza specificare se il provvedimento riguarderà il taglio dei rendimenti o, piuttosto, la riduzione delle finestre dalle attuali quattro a due o un nuovo innalzamento dell’età. Di certo, dal minaccioso «Sui coefficienti per il calcolo delle pensioni andremo dritti, senza la solita melina sindacale» traspare l’intenzione di infierire su coloro che già stanno male e che, secondo il ministro, dovranno stare ancora peggio.
Che il provvedimento possa rappresentare una stridente controtendenza delle misure anticrisi, che di fronte all’esercito dei disoccupati disperati con i requisiti per la pensione, ma inibiti per legge al suo accesso, e che dovrebbero anzi agevolare il collocamento a riposo di gente che non ha alcuna speranza di ricollocarsi nel mercato del lavoro, è fatto del tutto irrilevante, restando più importante privilegiare il principio dell’equilibrio dei conti economici dello stato, anche se con l’esproprio di un diritto consolidato nel tempo.
Della sortita di Tremonti non c’è certamente da stupirsi. E’ stato lui d’altra parte il vero autore della famigerata riforma Maroni nel precedente governo Berlusconi ed oggi, non pago e con una fantasia proterva da far invidia a qualche sadico gerarca di passata memoria, rispolvera un argomento che ne mette a nudo la pochezza culturale. Ovviamente, nulla dice questo campione di sana amministrazione sulla via vera che hanno seguito i soldi versati per le pensioni e che oggigiorno non sarebbero sufficienti per onorare l’impegno a sostenere il reddito dei pensionandi. La sua reticenza, associata ad un disprezzo per le regole veramente esemplare, lo porta a concludere che l’equilibrio del sistema si regge solo falcidiando questa voce di spesa, alla cieca , senza considerare le gravissime ripercussioni sociali che determinerà sulla vita di milioni di persone.
Altrettanto spregiudicata e demenziale è l’affermazione secondo la quale è necessario creare le condizioni per il mantenimento al lavoro di persone ancora in grado di dare un contributo attivo all’economia del Paese senza gravare sulle casse dello stato. Se il ministro Tremonti desse un’occhiata alle prime pagine dei quotidiani, - ché addentrarsi nelle pagine interne sarebbe forse pretendere troppo, - piuttosto che sfogliare riviste di ameno contenuto, si renderebbe conto che se il lavoro già scarseggia per i giovani, figurarsi per gli ultracinquantenni. Ma come accade di regola, è sempre comodo fare la predica ed i conti in tasca agli altri quando si è intenti a sbafare un piatto di lasagne o, come nel suo caso, si percepisce una lauta indennità mensile e si beneficia di regole pensionistiche al di fuori di ogni aggancio con i meccanismi previsti per i comuni mortali, peraltro pagate da quei cittadini ai quali periodicamente si chiede di stringere la cinghia o di arrangiarsi.
Vergogna!, non vi è altro termine per definire il disprezzo che suscitano queste proposte vessatorie, sintomo di una visione più che feudale del potere e dell’amministrazione della cosa pubblica.
Naturalmente a questo genio della finanza creativa, che non tiene in alcun conto i bisogni veri dei cittadini, ma cui sta a cuore solo l’applauso della claque di Bruxelles, lieta di non doversi vedere coinvolta con l’intervento comunitario nell’eventuale soluzione di problemi strettamente italiani, poco interessano gli effetti sciagurati di una decisione simile per lui ed il futuro del governo Berlusconi, né i probabili disordini sociali che potranno prendere spunto da questo ennesimo affronto alla pazienza dei cittadini: la tirannide non ha mai avuto occhi per la sofferenza e rispetto del consenso, altrimenti non sarebbe tale.
Ministro Tremonti, particolarmente di questi tempi i sacrifici debbono essere richiesti ed eventualmente imposti a chi effettivamente è in condizioni di evidente benessere ed ha il dovere di solidarietà nei confronti dei cittadini meno abbienti e fortunati. Allora, cominci lei ed i suoi colleghi, riducendo il suo appannaggio ed i tanti vergognosi privilegi che gode, e poi passi ai tanti nomi noti, a lei quanto al Paese, di gente con fortune invidiabili, tra l’altro non sempre di trasparente provenienza, effettivamente in grado di dare un contributo significativo alle disastrate casse dello stato.
Infierire sui soliti noti, sui cassintegrati, sui giovani precari a vita, sui percettori di reddito fisso, sui disoccupati, su chi campa con stipendi da già da fame e su chi è già disperato e non aspetta che la pensione per poter comprare qualcosa da mettere in tavola, per quanto sia cosa più agevole e sbrigativa, è non solo ingiusto ma persino stomachevole e odioso.

giovedì, gennaio 29, 2009

Eroi, patrioti, furbetti e miserabili: lo zoo del Belpaese


Giovedì, 29 gennaio 2009
A ben guardare le notizie che affollano la stampa nostrana si scopre facilmente come l’informazione non ha mai brillato per obiettività nel nostro Paese. I criteri con i quali la cronaca riporta gli accadimenti rispondono molto spesso ad una sorta di attualità preconfezionata, decisa nelle redazioni dei giornali non in base alla notizia in se stessa quanto sulla scorta di valutazioni che hanno a che vedere con la stima del potenziale gradimento dei lettori, che potrebbero esser stufi di sentir parlare di una certa cosa e vanno piuttosto a caccia di qualche novità che li appassioni. Così i giornali diventano una sorta di vetrina nella quale esibire notizie di tendenza, come si trattasse di negozianti condannati ad esporre capi d’abbigliamento sempre nuovi per attirar l’attenzione dei passanti.
Questo criterio, che costituisce vera e propria manipolazione per non dire di peggio, è sempre stato applicato e ad esso non sfugge alcuna testata né fatto della vita quotidiana. E’ a suo tempo accaduto con tangentopoli, quando si era percepito che la natura degli eventi aveva sostanzialmente fatto calare l’interesse dei lettori per una vicenda che, quantunque appassionante, non sembrava mai giungere alla fine, ed è accaduto di recente anche per Alitalia, - solo per citare degli esempi macroscopici, - con l’aggravante che questo metodo finisce sovente per ribaltare anche la percezione e per trasformare in antipatici, colpevoli, persecutori, i beniamini iniziali e, viceversa, in eroi gli originari cattivi.
Così di Alitalia e degli oltre diecimila disgraziati che hanno perso il posto non si parla più, se non per rimbrottare quasi con bonomia su qualche comprensibile disservizio legato all’avvio della nuova gestione degli "eroi-patrioti" che hanno acquisito la vecchia Compagnia di bandiera o per stigmatizzare i comportamenti di qualche gruppetto di irriducibili che, con qualche fastidiosa manifestazione di protesta, genera disservizi all’utenza e pretenderebbe di mandare indietro l’orologio della storia.
Che poi oltre seimila dei disgraziati messi anzitempo a riposo e beneficiati da una “ricchissima” indennità di cassa integrazione non percepiscano un centesimo, a causa della mancata comunicazione all'Inps dei nominativi degli aventi diritto e degli importi loro destinati, è fatto del tutto irrilevante e di cui non vale la pena parlare, tanto si tratta di frattaglie di carne da macello, di criminali che negli anni hanno determinato lo stato fallimentare di Alitalia e che, nell’immaginario collettivo, costruito ad arte dalla stampa “obiettiva e indipendente”, non stanno che pagando tardivamente il fio delle loro responsabilità .
Di fronte al dramma di famiglie che non sanno più come campare in assenza di un reddito, al di là delle responsabilità vere o presente dei rimasti senza lavoro, come definire un fatto del genere? Indegno? Vergognoso? Intollerabile? Cominciamo con il dire che un simile "intoppo" - che si ripercuote impietosamente sulla vita delle persone, - è innanzitutto grottesco. E la vicenda, in tutta evidenza, getta un'ombra pesantissima di discredito sul governo, su chi dovrebbe garantire il godimento di elementari tutele, su chi s’è riempito la bocca di promesse al solo scopo di far passare l’operazione CAI come una meritoria impresa di novelli cavalieri della Tavola Rotonda.
Resta poi un fatto incontrovertibile, e qui torniamo alla questione politico-finanziaria: dopo il danno della svendita della compagnia (i cui effetti sono ancora là da venire) per avviarne una nuova di incertissimo futuro, si registra la beffa della mancata erogazione di un diritto. Una beffa che sembra rappresentare la degna conclusione di una trattativa che calzava a pennello per una "cordata patriottica" nata per rimettere in piedi la compagnia con i soldi dei contribuenti, dopo aver addebitato i costi della perdurante malagestione sulle spalle dei lavoratori. Il tutto condito da una sapiente campagna di stampa denigratoria nei confronti di "privilegiati" e "fannulloni".
Nessuno ha mai detto, invece, che la vecchia Alitalia, che al 31 dicembre del 2006 aveva 18.589 dipendenti, 186 aerei e trasportava oltre 24 milioni di passeggeri, aveva un indice di produttività tra i più elevati in Europa. Infatti lavoratori dedicati a ciascun aeromobile erano 99 e servivano 1.295 viaggiatori. Numeri che se comparati all’indice di produttività di altre compagnie, come Air France (76mila dipendenti e 282 aerei, 49 milioni di passeggeri trasportati, pari a 263 dipendenti per aereo e 662 passeggeri serviti), Lufthansa (94.510 dipendenti e 407 aerei, 51 milioni di passeggeri trasportati, pari a 232 persone per aeromobile e 541 passeggeri serviti), - giusto per restare nell’ambito dei pretendenti più accreditati ad una partenship con la nuova Alitalia, - ci si rende conto che le origini dei gravi problemi della ex compagnia di bandiera andavano ricercati in ben altre non meno gravi motivazioni che la produttività del personale o la fannulloneria accampata a pretesto da chi intendeva realizzare ben altri disegni screditando le maestranze Alitalia .
Insomma, la produttività dei lavoratori Alitalia risultava doppia rispetto a quella dei concorrenti più grandi. Sarebbe dunque risultato complicato, riletta la "storia" in questi termini, legare il pesante passivo di bilancio al numero dei dipendenti ed al loro impiego. Il costo del lavoro in Alitalia, infatti, costituiva solamente il 16,7% del bilancio, mentre per Lufthansa rappresenta il 24,5%, Air France il 29,1% e British Airways il 24,7%.
Viene spontaneo chiedersi, di conseguenza: la famosa "cordata patriottica" avrebbe incontrato nel Paese lo stesso consenso se ai cittadini fosse stata raccontata la verità? Domanda oziosa, arrivati a questo punto. I giochi sono stati fatti e lo sciovinismo smisurato di un presidente del consiglio, riuscito a concludere l’operazione di svendita del vettore nazionale con l’aiuto di una stampa servile e addossando ai cittadini i mostruosi oneri per debiti di Alitalia, è stato appagato. I disoccupati forzosi in seguito all’operazione, previsti originariamente con il piano silurato da più parti in 2.800, sono oggi oltre 10.000? Il sussidio di cassa integrazione previsto non arriva o è in ritardo? Ma cosa volete che importi, si tratta di figli di un dio minore che scontano oggi le colpe dei tanti disagi inferti all’utenza in anni ed anni di scioperi, contestazioni e disservizi vari. E se questo non bastasse, la maggior parte di loro è pure il frutto di assunzioni clientelari, consumate dalla politica al di sotto della linea del Po.
Oggi è più di moda e più attuale parlare di Malpensa, nicchia di voti della Lega alleata del Cavaliere Berlusconi, alla quale occorrerà dare presto o tardi risposte soddisfacenti se non si vorrà arrivare al punto di rottura. Ognuno ha le sue clientele da difendere e tutelare. Fa parte della storia del Paese degli eroi, dei patrioti, di furbetti del quartierino e dei tanti miserabili, non solo dal lato economico, ma soprattutto dal lato intellettuale.

mercoledì, gennaio 21, 2009

Villari, la fine di uno zombie


Mercoledì, 21 gennaio 2009
Alla fine la corda si è rotta. Il signor Riccardo Villari, emerito parlamentare di questa buffa Repubblica, infarcita di inquisiti, di condannati, di maghi e giullari, di qualche rara persona seria e adesso anche da morti viventi, dovrà lasciare l’incarico di Presidente della Commissione di Vigilanza sulla RAI e tornare nell’oltretomba da cui è venuto.
Già, perché un emerito sconosciuto era al tempo in cui militava nel PD, con targa Margherita, ed ignoto percettore di una lussuosa prebenda parlamentare tornerà ad essere sino alla fine della legislatura, fuori da ogni partito, avendo deciso di sfidare con il suo comportamento destra, sinistra, centro e persino il quarto uomo, meritandosi alla fine il cartellino rosso da parte di Veltroni e l’invendibilità più assoluta sul mercato dei piccoli politicanti di provincia senza storia.
Nominato con un blitz della destra alla Presidenza della Commissione di Vigilanza, più per fare un dispetto a Di Pietro, che sponsorizzava la nomina di Leoluca Orlando, - un altro impresentabile a giudizio dei membri della commissione chiamati a votarlo, - che per comprovate doti di vero leader, il personaggio s’è abbarbicato alla poltrona a guisa d’edera, rifiutando di lasciare l’incarico anche dopo le dimissioni in massa di 37 membri su 40 della Commissione, rendendone praticamente impossibili i lavori e bloccando sine die il previsto ricambio ai vertici della televisione pubblica.
Non è da escludere che la sua ostinazione, capace in definitiva di condurlo ad una sorta di eutanasia politica, sia da attribuire al disperato tentativo di accasarsi dopo l’espulsione, invero tardiva, comminatagli dai probiviri del PD, illuso di trovare riconoscenza nelle segreterie politiche di coloro al cui gioco si era prestato.
Così non è stato. Anzi ha persino dato l’impressione di alzare la posta in gioco quando sia Schifani che Fini gli hanno chiesto perentoriamente, dopo un rapido giro di consultazioni con i capigruppo, di lasciare l’incarico, rassegnando riparatrici dimissioni. Lui, imperterrito, convinto di poter dettare legge e tenere in scacco le istituzioni ha declinato ogni sollecitazione, costringendo i Presidenti di camera e senato ad una escamotage regolamentare che ha praticamente azzerato la Commissione esistente, almeno ciò che ne restava, e a preannunciare un nuovo giro di valzer per la nomina dei nuovi commissari e del rispettivo presidente.Chissà cosa farà l’irriducibile protervo. Certo è che dopo un’esperienza da zombie, magari un posticino da Commissario alla corte di Belzebù è probabile lo trovi. E agli Italiani non resta che ringraziare quest’ennesimo campione di correttezza istituzionale, per il quale s’è sprecato tempo e denaro dei cittadini.

(nella foto, Riccardo Villari)

Campagna elettorale in Sardegna: le balle di Berlusconi



Mercoledì, 21 gennaio 2009
Pubblichiamo un articolo di Giorgio Melis, commentatore di l’altra voce.net, dal titolo “Cavaliere ci prende per il culo. Italia a picco non c’è un euro: piani Marshall ai Sardi e Gaza? Non insulti la nostra intelligenza”, che riassume l’umore dei Sardi al discorso di Berlusconi tenuto domenica scorsa a Nuoro, in occasione della campagna elettorale in corso nell’Isola per il rinnovo del Consiglio Regionale e che, a nostro avviso, non necessita di commento ulteriore.
Il premier si è recato in Sardegna per sostenere il candidato del PdL, Cappellacci, già Assessore alle Finanze nella Giunta Pili del 1999-2004, alla presidenza della Regione. Ma, a quanto sembra, non ha convinto gli elettori o, come più adeguatamente preferisce definirli l’autore dell’articolo, il pubblico.

Gli influssi febbricoli australiani possono provocare anche privazioni gravi. Come perdersi gli influssi arcoriani sparsi nel fine settimana da nuraghe Losa fino a Nuoro. Senza poter esprimere in diretta, in poesia e prosa, la grata mirabilia dei sardi pelliti per le scoperte archeo-storiche del premier-“magazziniere”e il gaudio magno per i prodigi compiuti e annunciati a nostro beneficio. Urge farlo appena possibile, benché ancora rintronati. Naturalmente con gli eufemismi del caso, come quelli cari al personaggio che trattava Prodi da “utile idiota” e gli elettori di sinistra da “coglioni”. Rispondiamogli con i suoi toni. Ehi, Cavaliere, vuol prenderci per il culo assieme ai suoi ministri pellegrini come le Madonne elettorali del dopoguerra? Signor Berlusconi, qui abbondano i lacchè, maggiordomi e ascari pronti e proni a tutto: quelli dalla lingua a spatola che finiranno di scorticarle i glutei. L'eroe della cupidigia di servilismo è questo Efisio Trincas da Cabras che ha consegnato la bandiera sardista a lei, novello Amsicora e quinto dei Cinque Abbronzati al posto dei Quattro Mori senza più bende ma con le sue bandane. Ci vogliamo rovinare: le regaliamo anche lo sbandieratore. Aggiunga trincas in faulas ai suoi Testoni&Cappellacci, che insieme fanno una parrucca o un capellone. Allora, parliamo dei suoi doni, della cornucopia che sta per rovesciarci addosso.
Ricapitoliamo. Un intervento sull'Eni per bloccare la chiusura del petrolchimico di Porto Torres. Ottima iniziativa. Specie dopo oltre un mese di assoluto silenzio e diniego, nessuna risposta alle tante sollecitazione della Regione e un'altra allarmata, un mese fa, dall'ex ministro Beppe Pisanu; per non parlare dei sindacati e degli amministratori del Nord Sardegna. Non una parola, dal vigile Scajola che non legge e non sente (per lui saremo “rompicoglioni” come il professor Marco Biagi?). Poi i cieli si aprono perché il premier deve venire in Sardegna a fare da balia, tutor e traino al suo candidato aziendale: miracoli delle urne salvifiche. All'Eni viene intimato di far ripartire gli impianti dal 1° febbraio. Sarebbe stato meglio il 14, vigilia delle elezioni: giusto per non destare sospetti. E dal 18 in poi, a urne chiuse, lo Scaroni dell'Eni deciderà la chiusura definitiva degli impianti che aveva già condannato. Non andrà così?
Abbiamo vent'anni di pratica con l'Eni. Aveva cannibalizzato e venduto al valore di rottami (con procedimento giudiziario per tangenti e altro) il tantissimo che restava della Sir di Rovelli. In particolare il suo pezzo più pregiato, l'Euteco, società-leader di impiantistica che faceva concorrenza alla Nuova Pignone del cane a sei zampe. Per non farsi mancare niente, l'Eni aveva a lungo trafficato con strutture e aree turistiche della stessa Sir e soprattutto delle società minerarie, finite a società e personaggi di varia estrazione, socialisti e collegati alla Compagnia delle opere, ovvero Comunione e Liberazione. Allora, l'Eni ci darà - obtorto collo - una boccata d'ossigeno avvelenata sotto le elezioni e poi il de profundis. Lo sappiamo, lo sanno tutti: ecco come andrà, chiunque vinca. Ma il nostro premier crede che i Sardi siano come i buoni selvaggi di Cristoforo Colombo: si accontentino di una manciata di palline di vetro colorato.
Ma al premier-archeologo non è bastato aver scoperto finalmente e tutto da solo, lasciando basito Giovanni Lilliu, che i nuraghe erano i magazzini dell'età nuragica. Ha trovato anche modo di cancellare i costi dell'insularità, con un “ponte” che ne azzererà i costi per i Sardi: addirittura un caposaldo del nuovo federalismo leghista. Probabilmente non vedrà mai la luce, certo non per un decennio, con l'Italia che rischia di sprofondare verso l'Africa per una crisi che esploderà nei prossimi mesi e nella quale rischia più di tutti in Europa. I grandi uomini si danno sempre grandi obiettivi. Berlusconi non è a Washington per l'insediamento di Obama (dove nessuno l'aveva invitato) perché lui non è “una comparsa ma un protagonista”. Allora, il “ponte” che annullerà gli effetti dell'insularità. Come quello sullo stretto di Messina, Cavaliere? Quello che doveva essere realizzato a partire dal 2001, cancellato da Prodi e che neanche lei ha il coraggio evocare? Arriva secondo, comunque. Il ponte Sardegna-Civitavecchia era stato già proposto. Nel 1948, alla vigilia di altre elezioni, da un pittoresco avvocato Marchi di Macomer. In cambio voleva essere eletto deputato ma i Sardi diffidenti e ingrati non lo spedirono alla Camera: niente ponte. Quell'antesignano ha trovato un adeguato epigono: il Cavaliere barone di Munchaussen, che cambia anche la geografia. Certamente avrà miglior fortuna. I Sardi (con l'Unione europea) si accontenterebbero che fosse cacciata la Tirrenia, che spadroneggia con un'indecente compagnia coloniale da mezzo secolo, massacrando i passeggeri e l'Isola, specie il porto di Cagliari, ridotto ai minimi termini. Troppo poco, per Berlusconi. Ci vuol dare il “ponte” e mantenerci anche la Tirrenia: infatti ne ha confermato il ruolo e anche il boiardo Pecorini, che la comanda da 24 anni.
Berlusconi ha anche annunciato che volerà presto in Algeria per chiudere il capitolo-metano: così la Sardegna potrà disporre della rete del gas finora negato solo all'Isola. Che ci va a fare? Risparmi la benzina e l'aereo di Stato: serviranno per le prossime tappe del suo tour elettorale in Sardegna. Per il metano, non serve agitarsi o sproloquiare: è tutto già fatto. Alla fine del 2007. Non ad Algeri: ad Alghero. Dove sono venuti gli algerini, per un vertice bilaterale tra il presidente e diversi ministri del Paese nordafricano e Prodi, D'Alema e altri membri del nostro governo. Firmati i contratti, la Regione è nella società che presto comincerà a realizzare il metanodotto. Ha pure chiesto e ottenuto una royalty per ogni metro cubo di gas che passerà nel tubo, destinazione Toscana-Italia. I lavori sono alle porte, l'opera è strategica: come ha dimostrato l'ennesima crisi del gas con i russi del suo compare Putin, che tiene alla gola l'Europa con la sua guerra contro l'Ucraina. Come per il ponte, il Cavaliere arriva ancora tardi.
Ma dove Berlusconi e il suo governo si superano è nella storia dei piani Marshall. Non “il” piano: i piani. Sbaglieremmo, ma ne aveva già proposto uno per l'Iraq, a suo tempo, quando era stata proclamata la vittoria dall'altro compare Bush: per la gioia degli americani e del mondo devastati dalla sua presidenza, si è appena levato dalla Casa Bianca e dalle scatole. Ricordare sempre che Berlusconi (7 novembre scorso) lo aveva definito “un grandissimo presidente….resterà nella storia”: come la maggior disgrazia internazionale del dopoguerra. Marshall, dunque. Chissà quanti italiani sotto i settant'anni sanno che il piano con questo nome ha soltanto 60 anni di vita, si chiama così dal generale George Marshall (segretario di Stato con Franklin Delano Roosevelt e poi Harry Truman) e aveva un modesto obbiettivo. Dare all'Europa autodistrutta nella seconda guerra mondiale i colossali mezzi Usa per ricostruirsi e non finire sotto il tallone comunista. Come fosse stato ieri, il ragazzo Berlusconi e il prode salottino La Russa evocano un piccolo piano Marshall per la Sardegna. E' un'unica maceria, appena rasa al suolo e fumante: un Iraq in piccolo. Le ultima macerie, per la verità, risalgono al 1999-2004, governando Pili e poi Masala, che aveva come assessore al dissesto delle finanze (debito impennato di un miliardo 300 milioni in un anno) un certo Cappellacci. E' una fissa, questa del piano Marshall. Perché domenica - appena 24 ore dopo che era stato lanciato da Roma per la Sardegna - il Cavaliere lo ha riproposto a Sharm el Sheik per Gaza distrutta dagli aerei e dai cannoni israeliani. Papale, papale. Tant'è che l'ineffabile portavoce Paolo Bonaiuti ha commentato, a riprova della genialità e concretezza del premier: « Il piano Marshall…che lui ha proposto significa…. semplicemente mettere i palestinesi in condizione di poter avere uno sviluppo economico adeguato per creare nuovi posti di lavoro, è l'uovo di Colombo, però è di queste cose concrete che si nutre la pace». Un uovo di Colombo talmente geniale e unico da essersi sdoppiato in un giorno. Lanciato da palazzo Chigi venerdì, obbiettivo Sardegna, domenica sera era stato riciclato a Sharm el Sheik nientemeno che per Gaza. Insomma, quel che andava bene per la Sardegna, è perfetto ed estensibile generosamente anche per Gaza. C'è una quasi perfetta identità tra la situazione sarda e quella della tragica “Striscia”: non è sfuggita alla lungimiranza del Cavaliere. Della serie, paghi zero, prendi due: un bidone spacciato e rispacciato anche in versione export.
Tempo di chiudere. Siamo Sardi, non baluba o pirla come certi suoi amici, Cavaliere. Vabbé che dovremmo darci tutti al giardinaggio, come ci ha consigliato. (A proposito, perché non pensa ai cactus suoi, avendo riempito di questa varietà autoctona - scoperta anche nel Nuraghe Losa, dove forse c'era anche una serra - la sua reggia della Certosa?). Ma che lei venga qui a invaderci settimanalmente per fare la sua guerra elettorale pro-Cappellacci (lo Stato, il governo, i ministri, enti pubblici, qualche arcivescovo-missionario di Forza Italia, prefetti, questori ed ex: tutti contro Soru, competizione alla pari, da sportivi) è già una violenza poco digeribile. Non vuole proporci il suo candidato: solo imporcelo a viva forza, come fossimo incapaci di intendere e volere da soli.
Ma si va oltre e qui non c'entra il sì-no Soru, ma il rispetto che una parte dei Sardi ha di sé, della propria intelligenza, della propria dignità. Il premier ci vuole anche prendere per il culo e in aggiunta i nostri applausi per le sue scempiaggini. Non può permetterselo: con tutta la sua faccia di bronzo. Perché è vero: qui abbondano i lacchè, i leccaculo, gli ascari autocolonizzati che non ci siamo mai negati, i Trincas&Buffas, i sanni, i manincheddi. Ma fossero anche in minoranza (si vedrà), restano molti Sardi con la schiena dritta, senza essere “coglioni” come Berlusconi definiva pubblicamente quelli che votavano a sinistra, deficienti che si bevono le sue frescacce.
Di quale piano o piani Marshall può permettersi di parlare, per la Sardegna e anche per la Palestina, l'Italia stracciona che sta sprofondando nella crisi globale? Non c'è un euro per niente, salvo quelli per ripianare i disavanzi amici di Roma littoria e della Catania del suo medico Sciampagnini. La recessione sta per piombarci addosso come un treno a trecento all'ora ed entro sei mesi i suoi stessi ministri sanno che purtroppo ci colpirà con violenza drammatica. Bankitalia e l'Ocse hanno annunciato, Tremonti conferma, una decrescita del 2 per cento del Pil nel 2009, in aggiunta al trend negativo del 2008. Il deficit pubblico è cresciuto del trenta per cento rispetto al 2007, sforeremo di molto il tre per cento del Pil: siamo già al 3,8, mai così in alto. Oltre, c'è un baratro dal quale non è affatto certo che l'euro e l'Unione Europea possano salvarci, con la previsione di due milioni di disoccupati. E intanto c'è un crollo della produzione industriali come non si vedeva dal 1991, ovvero 18 anni fa, con connesso collasso degli ordinativi. Non è vero che Berlusconi porta sfiga appena va al governo (molto spesso), come nel 2001. Certo noi italiani siamo davvero sfigati e c'è sempre lui nei momento più neri. Tutto bene: allegria!
Questa è la gravissima situazione dell'Italia. E in queste tenebre il capo del governo non ha di meglio da fare che cercare di sequestrare il voto di una regione ad autonomia speciale, di interferire pesantemente con i mezzi dello Stato. Non bastasse, ecco la ciliegina sulla torta: votate per il mio protetto che vi ha anche promesso centomila posti di lavoro e io vi darò un piano che trasformerà la Sardegna in un Eden: mentre il resto d'Italia sprofonderà nella palude della recessione e della disoccupazione. Siamo alla Quaresima, arriva la tempesta e c'è un capo di governo che parla a un milione e 600 mila persone come fossero degli imbecilli, ciechi e sordi che non capiscono e non vedono quel che accade e capiterà. C'è un limite oltre il quale le balle del Merlino fasullo - che strappavano un sorriso rassegnato, un'alzata di spalle impotente - inducono nell'intolleranza per l'allarme angosciato che nevrotizza il corpo sociale. Questa garrula, fatua, allegra spensieratezza del premier mentre siamo a rischio totale, cancella ogni residuo senso dello Stato, distrugge ogni rispetto nelle istituzioni e verso chi le rappresenta come al cabaret, offendendo i cittadini, pardon, il pubblico. Qui non siamo solo alla truffa propagandistica da magliari. C'è anche l'insulto alla nostra intelligenza, all'offesa della nostra dignità. Non avevamo chiesto nulla, al massimo che ci lasciasse in pace, con i cortigiani anche indigeni della Certosa del cactus. È entrato in scena con l'oltraggio al pudore cerebrale di una regione e del suo popolo. Si deve rispondere, adeguandosi al suo lessico, con una sola parola: ma vaffa, Cavaliere. La racconti ai pirla che conosce meglio. Siamo Sardi, non i cretini che crede. Lei che può, con quattro euro si è tenuto Kakà, troppo buono con tutti gli italiani. Faccia un altro piccolo sforzo e lasci in pace anche noi Sardi.
Giorgio Melis”
(nella foto, Ugo Cappellacci, candidato del PdL alla presidenza della Regione Sardegna)

martedì, gennaio 20, 2009

Miti e verità del sistema aeroportuale lombardo

Martedì, 20 gennaio 2009
Mentre giunge notizia dell’esordio accidentato della nuova Alitalia sotto l’egida CAI, rimane ancora aperto ed insoluto il dibattito sul futuro di Malpensa, il grande aeroporto lombardo nato con la pretesa di divenire il centro dello smistamento del traffico aereo italiano, ma declassato oggi ad aeroporto di secondo livello dopo la scelta della nuova proprietà della compagnia nazionale di concentrare il traffico sullo scalo di Fiumicino.
Di Malpensa e delle sue disavventure sono stati scritti fiumi d’inchiostro e la sua contrapposizione con il ruolo e le pretese di Fiumicino sono il simbolo di un’Italia in cui il campanilismo e gli interessi di corto respiro, avallati da una politica al servizio delle clientele, hanno costituito il freno reale ad uno sviluppo razionale del sistema aereo e aeroportuale del Paese, molto spesso dichiarato nelle intenzioni, ma ostacolato nei fatti dagli interessi dei gruppi di pressione e da conseguenti comportamenti profondamente incoerenti con gli obiettivi dichiarati.
Uno dei punti al centro del dibattito sul mancato decollo di Malpensa era e rimane l’ambiguo ruolo giocato da Linate nel quadro di razionalizzazione e redistribuzione del traffico aereo dopo l’avvio di Malpensa, che invero era e rimane un paradossale falso problema per giustificare scelte che nulla hanno a che vedere con la sostanziale inefficienza con la quale il vettore nazionale di riferimento ha gestito le proprie politiche di servizio, rimaste di fondo ancorate ad obsoleti schemi assistenzialistici e protezionistici anche dopo le importanti liberalizzazioni decise a livello comunitario nel settore del trasporto aereo.
Secondo una certa corrente di pensiero, con l’apertura di Malpensa il traffico di Linate avrebbe dovuto essere fortemente ridimensionato, per permettere ad Alitalia di concentrare la propria attività sul nuovo hub senza penalizzazioni sul volume di traffico complessivo. In tale direzione, in effetti, fu varato il cosiddetto decreto Bersani, che ridimensionò i movimenti complessivi dello scalo cittadino dagli oltre seicento giornalieri a 280 complessivi, limitando in modo massiccio la presenza operativa di tutti i vettori e muovendo il primo passo per declassare Linate da aeroporto internazionale a city airport, dedicato principalmente ai collegamenti navetta con la capitale.
Questa operazione di chiaro sapore equivoco, che di fatto costituiva un motivo di privilegio per Alitalia, in posizione semimonopolista sulla tratta Milano-Roma-Milano, ed una forte penalizzazione per i vettori stranieri, ai quali non era consentito l’esercizio di quel servizio per le logiche con le quali erano stati attribuiti a suo tempo gli slot, sollevò le proteste degli operatori europei, che sebbene costretti a trasferire arte dei propri voli su Malpensa, conservarono una limitata presenza anche su Linate per alcuni collegamenti con i rispettivi scali europei.
L’aspetto che nessuno ha mai valutato sufficientemente a che probabilmente costituisce uno degli elementi determinanti del mancato decollo di Malpensa è invece da individuare nel sistema di trasporto terrestre e di collegamento tra Milano ed i suoi aeroporti, che è il vero elemento penalizzante della razionalità del trasporto lombardo.
A differenza dei grandi aeroporti europei e dello stesso Fiumicino, Malpensa e Linate, - per quanto quest’ultimo in maniera meno acuta data la vicinanza con la città, - risentono di un’endemica insufficienza rete di trasporto veloce e moderno, che ne penalizzano in modo evidente la funzionalità. Londra, Parigi, Francoforte, Barcellona, Madrid, giusto per citare alcuni tra i più importanti aeroporti del vecchio Continente, godono di un servizio di metropolitana con la città veloce e a basso costo, mentre per il raggiungimento di Malpensa si deve far conto su un collegamento ferroviario da una stazione milanese secondaria o al trasporto su gomma, su arterie autostradali congestionate da un’imponente mole di traffico. Linate può contare sul solo trasporto via gomma, monopolio in larga misura della lobby dei taxisti, che rendono il raggiungimento dello scalo eccessivamente oneroso. Questi aspetti non secondari, che denotano il ritardo inaccettabile della politica locale nel conferire il vero impulso allo sviluppo degli aeroporti lombardi, sono stati sovente minimizzati, ma costituiscono di fondo il vero freno alla promozione di Malpensa quale hub con tutte le carte in regola.
Privo di fondamento appare alla luce di queste considerazioni, dunque, il discorso di elevata polverizzazione del sistema aeroportuale italiano, giacché negli altri Paesi europei il numero degli aeroporti, - per quanto certamente legato alle dimensioni territoriali, alla morfologia territoriale ed alla rete di trasporto terrestre renda la comparazione approssimativa, - è presente un numero di aeroporti decisamente più elevato dei 103 attivi sul territorio italiano: 295 nel Regno Unito, 591 in Germania, 494 in Francia, 54 in Svizzera con un territorio pari a quello della Lombardia. Inoltre, in Italia da oltre un quarto di secolo non si costruiscono nuovi aeroporti, mentre la domanda di trasporto è aumentata esponenzialmente.
Vi sono infine da segnalare ulteriori insufficienze di Malpensa rispetto alla capacità di giocare un vero ruolo di hub, rappresentate dalla mancata realizzazione di una terza pista, dai collegamenti veloci tra vecchio e nuovo terminal e da una rete di trasporto funzionale che la integri con il territorio (Varese, Novara, Como). L’assenza poi di un sistema infrastrutturale di servizi moderni (alberghi, centri commerciali, strutture attrezzate per i viaggi d’affari, ecc.) pone lo scalo in una situazione di palese inadeguatezza rispetto agli altri hub europei e lo stesso Fiumicino.
In questo quadro di lacune difficilmente colmabili, la politica locale e nazionale, piuttosto che muoversi per ridurre i gap, hanno ingaggiato lotte senza quartiere allo scaricabarile, accusando ora gli altri aeroporti del Nord di promuovere iniziative tese al depotenziamento di Malpensa (Bergamo, Venezia), o in difesa di interessi localistici comunque in controtendenza con le logiche di convogliamento del traffico più rilevante su un hub baricentrico. Queste diatribe, alimentate anche da un Fiumicino mai rassegnato a passare la mano hanno di fatto determinato il fallimento del progetto Malpensa e posto una seria ipoteca sul futuro di questo scalo.In questa prospettiva la domanda da porsi è quale siano le prospettive di Malpensa. La risposta non è agevole e dipenderà in larga misura dalle scelte che la politica sarà in grado di determinare in ordine alla liberalizzazione degli slot ancora in mano ad Alitalia e che sarebbe doveroso rimettere sul mercato, nonché al completamento delle dotazioni infrastrutturali di cui Malpensa ha ancora grande necessità, dal sistema dei servizi alla terza pista ed all’integrazione con il territorio di riferimento. Resta aperto il problema dei collegamenti efficienti e veloci, a tariffe adeguate per l’utenza con Milano, - centro privilegiato di alimentazione del traffico con quello scalo, - e, comunque, un’adeguata tutela, se non un potenziamento, di Linate almeno sul traffico nazionale, anche in vista di quell’Expo 2015, che non potrà trovare la città e l’area lombarda impreparata sul piano dell’offerta di un sistema di trasporto moderno e sufficientemente all’altezza. Tutto ciò, sperabilmente, mettendo in archivio gli sciocchi quanto improduttivi campanilismi, che hanno segnato la storia degli aeroporti milanesi sino al recente passato.
(nella foto, una veduta aerea dell'aeroporto di Malpensa)

lunedì, gennaio 19, 2009

Berlusconi e la satira: persecuzione o verità?

Lunedì, 19 gennaio 2009
Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco per que’ pochi scherzucci di dozzina, e mi gabella per anti-tedesco perché metto le birbe alla berlina……..”
Così esordiva Giuseppe Giusti nella famosa Sant’Ambrogio, poesia satirica scritta alla volta del governatore austriaco di Milano, che considerava il poeta toscano un pericoloso agitatore solo perché con la satira esprimeva la sua critica ad un occupazione straniera invisa al popolo e che certamente non brillava per rispetto delle libertà dei cittadini del Lombardo/Veneto.
La satira è sempre stata una forma libera ed assoluta del teatro, della letteratura e delle arti caratterizzata dall’attenzione critica alla politica, ai fatti di costume ed alla società in genere, di cui mostra le contraddizioni ed intende promuovere il cambiamento. Da sempre si occupa di temi rilevanti, principalmente la politica, la religione, il sesso e la morte (come afferma Daniele Luttazzi), e su questi propone punti di vista alternativi, e attraverso la risata veicola delle piccole verità, semina dubbi, smaschera ipocrisie, attacca i pregiudizi e mette in discussione le convinzioni. Già nell’antica Grecia è stato un pacifico strumento di contrapposizione politica al potere dominante ed ai potentati che lo esercitavano e, per questa ragione, spesso è stata oggetto di persecuzioni anche violente e repressive dei soggetti destinatari, che non hanno gradito queste forme di censura ai loro comportamenti. E sebbene siano trascorsi innumerevoli secoli, ancora ai nostri giorni la satira rimane uno strumento non gradito al potere, che vi vede una sorta di sistematica smentita della propria autorevolezza e della propria legittimità ad operare. V’è infine un aspetto peculiare di questa contrapposizione tra potere e satira: maggiore è la tendenza del potere all’autoritarismo, all’autoreferenzialità, maggiore è il pungolo satirico e di più elevata intensità è la reazione repressiva, talora scomposta, di chi della satira diviene bersaglio.
A questa logica, ovviamente, non sfugge il nostro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che, tra l’altro, possiede doti innate di alimentatore di una satira spesso pesante ed impietosa, causa la personale propensione ad abusare del potere attribuito al suo ruolo, un culto della personalità al di fuori del comune, un linguaggio sovente crudo ed a metà strada tra l’altezzoso e l’offensivo, un eccesso di autostima sperticata e priva del minimo senso di nobile umiltà. Queste caratteristiche, abbinate ad una concezione della politica assai discutibile e fortemente incentrata sull’esagerata difesa dei suoi interessi privati, sull’automagnificazione dell’immagine e sul sostanziale disprezzo per le regole della democrazia ed il rispetto di avversari ed oppositori, lo rendono un soggetto privilegiato per la critica pungente ed il costante bersaglio di un’ironia, cui comunque, per il ruolo, sarebbe in ogni caso difficile sottrarsi. Ha poi il personaggio una naturale tendenza ad una comicità spesso esagerata e fuori luogo, non sempre adeguata per un capo di governo, che si estrinseca in gestualità e battute dal vago sapore da caserma, alle quali più che ilarità e sorrisi, seguono senso di imbarazzo che coinvolge l’intera comunità che si fregia di rappresentare.
Le caratteristiche sopra ricordate non consentono a Berlusconi di percepire la critica come la molla di un cambiamento necessario a conferirgli quell’autorevolezza che rivendica per sé ed i suoi ministri, ma divengono il movente per sferrare attacchi scomposti ai media, colpevoli di infarcire "i programmi di seconda serata di cose contro di me e di chi si impegna allo stremo per il bene del paese”. Una situazione che, a suo avviso "non accade in alcun paese civile del mondo". E racconta: "Ieri un comico in tv mi ha messo a fianco di Brunetta, ma io sono alto un metro e 71, e non mi sono mai sentito piccolo...". Insomma, la satira in tv "approfitta di qualunque situazione per darci uno sputo in faccia (a lui e il suo governo, ndr)".
Certo, dimenticare di indossare scarpe con il rialzo per apparire più alto, farsi rifare la pelata per celare la calvizie, essersi fatto tirare il volto per apparire con qualche anno in meno, pretendere una calza sull’obiettivo delle telecamere che lo riprendono per addolcire qualche ruga che gli segna il volto, scardinare le regole democratiche facendo approvare leggi a suo uso e consumo, approfittare del proprio potere per favorire gli affari delle sue aziende, emanare diktat dittatoriali per liberarsi di avversari scomodi e tante altre cose di cui sono infarcite le biografie del personaggio, non sarebbero elementi sufficienti a fornire il classico cappuccino nel quale inzuppare il biscottino di chi della satira fa il proprio mestiere, ma sarebbero solo piccole debolezze innocenti, omaggi alla propria vanagloria sui quali bisognerebbe tacere in ossequio al riconoscimento che ciò che lui fa è comunque esempio di perfezione e di giustezza al di fuori da censura.
E se questo assunto non fosse sufficiente a smorzare una critica ed una satira comunque fastidiose ancorché immotivate secondo il suo punto di vista, allora è opportuno intervenire anche con gli strumenti di amministrazione della giustizia per ricondurre sulla retta via i detrattori irriducibili, magari con qualche leggina ad hoc che tuteli la sua immagine e taccia sulle sue magagne, in una concezione dello stato e dell’esercizio del potere tale da far impallidire persino la monarchia di Luigi XIV.
Ed in quanto all’affermazione secondo la quale non vi sarebbe un Paese al mondo in cui un capo di governo, un potente, sarebbe nel mirino degli sberleffi di tanti detrattori, è vero l’esatto contrario, salvo che il mondo al quale fa riferimento Berlusconi non sia costituito da quei Paesi nei quali la liberta d’espressione è più un concetto filosofico che non un esercizio effettivo, e di cui sembra avere profonda nostalgia. Vi sono Paesi, dall’Inghilterra alla Francia agli Stati Uniti, nei quali la satira ha pieno diritto di cittadinanza e non è certo oggetto di vituperio da parte dei suoi bersagli. Più semplicemente, in quelle realtà non vi è il vezzo di interpretare la satira anche feroce a guisa di strumento di propaganda politica o di metterle il bavaglio denunciando un improbabile fumus persecutionis. E’ una questione di civiltà alla quale Berlusconi non sembra molto avvezzo.
E’ di queste ore la notizia di un significativo calo del gradimento del governo (circa il 4%) e del suo premier (circa 2%) presso l’elettorato, calo che sarebbe interpretato come l’inizio di un’inversione di tendenza del consenso degli Italiani verso una compagine politica che, nei fatti, ha realizzato ben poco per risolvere i problemi veri, ma ha fatto solo tanto fumo e tante chiacchiere improduttive, sull’orma di tanti governi precedenti. La responsabilità di questo risultato sarà da attribuire all’opera di qualche Giuseppe Giusti di turno o, piuttosto, all’insulsaggine dell’azione di governo del Grande Imbonitore?
(nell'immagine, il poeta Giuseppe Giusti in una stampa d'epoca)

venerdì, gennaio 16, 2009

Polizia: tutela della legalità o licenza di vendetta?

Venerdì, 16 gennaio 2009
Acab è il titolo dell’ultimo libro del valente inviato di la Repubblica Carlo Bonini sui fatti di Genova, su quel G8 del quale è ancora viva la memoria di distruzioni, guerriglia e orrori compiuti dalla polizia nella tragica notte i cui si consumò l’irruzione nella scuola Diaz. Vi erano alla Diaz alcune centinaia di manifestanti, intenti a riposare dopo una lunga giornata di cortei contrassegnati da gravissimi episodi di guerriglia urbana, che vennero aggrediti nel sonno dalle forze di polizia e selvaggiamente picchiati.
Ma l’Acab di Bonini niente ha a che vedere con il personaggio di Herman Melville, autore del famoso Moby Dick, anche se la ferocia dei celerini, in quella notte di vergogna per la polizia e le istituzioni del nostro Paese, nulla ebbe ad invidiare al sanguinario Capitano Achab, ossessionato dalla vendetta verso la balena, - in realtà un capodoglio, - che gli aveva amputato una gamba ed alla quale dava spietatamente la caccia. E questa ossessione per la vendetta, questo accanimento verso un nemico che aveva provocato un estremo dolore fisico, che aveva segnato nell’anima e che aveva offuscato la mente, è probabilmente l’unico elemento di collegamento tra il personaggio del romanzo ed i fatti sui quali si sofferma Bonini.
Acab, in ogni caso, è anche l’acronimo di all cops are bastard (tutti i poliziotti sono bastardi) coniato da un gruppo musicale della corrente skinhead negli anni ’80 e divenuto motto prima degli hooligans d’oltre Manica e, successivamente, slogan di tutte le tifoserie più violente del pianeta.
Il lavoro di Bonini, comunque, non è rilevante per ripercorrere i tragici eventi ormai noti nella loro triste dinamica, quanto perché riassume la cronaca di un dialogo via web tra partecipanti diretti ed indiretti a quegli eventi, tra componenti delle forze dell’ordine, che nella maggior parte dei casi si autoassolvono e giustificano le violenze perpetrate dai colleghi in servizio quella notte.
Il quadro che emerge dalla cruda trascrizione di quei dialoghi è sconfortante, per non dire mortificante, poiché evidenzia come all’interno della polizia alligna una concezione della democrazia, della giustizia ed un senso della legalità che nulla ha in comune con i criteri minimi di democraticità e senso dello stato di diritto, quasi a confermare la veridicità dell’odioso acronimo che dà titolo al libro di Bonini.
Se sul piano strettamente umano è comprensibile, sebbene mai giustificabile, che uomini sottoposti ad uno stress terribile nelle tragiche giornate genovesi abbiano potuto maturare una rabbia sordida ed il desiderio di impartire una lezione a coloro che erano arrivati al punto di mettere a repentaglio la loro incolumità, sul piano del ruolo istituzionale è esecrabile che queste violenze abbiano potuto trovare sfogo concreto ed è inammissibile, ancorché vergognoso per la dignità e l’onore del Paese, che la maggior parte degli autori di quelle infami gesta siano ancora in regolare servizio e fruisca del fiancheggiamento e dell’approvazione di colleghi e superiori, oltre che di politici in carica.
Ancora. Se è comprensibile e mai giustificabile che la truppa, la prima linea incaricata di contrastare la teppa dei manifestanti violenti, abbia covato una cieca rabbia sfogata in una vendetta inusitata, non è ammissibile che gli ufficiali, i coordinatori delle operazioni, coloro che comunque stavano nelle retrovie ad impartire gli ordini alla prima linea, in ogni caso titolati del comando e, dunque, maggiormente obbligati alla saldezza dei nervi e temprati dall’esperienza alle operazioni di piazza difficili e pericolose, abbiano poi autorizzato la barbarie della Diaz, condotta al grido di Sieg Heil, con minacce di stupro di massa ai danni delle donne presenti in quella notte nella scuola e con il pestaggio scientifico e selvaggio di quanti si trovavano nel percorso dei poliziotti autori del blitz.
«I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?», si chiede retoricamente su Doppia Vela, il blog dei celerini, un poliziotto, che commenta i dubbi espressi da un collega, «No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni», commenta, «non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro!»
Lo stesso celerino poi aggiunge: «I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no? No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l'attaccamento all'igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi!».
In fine, a proposito dei pestaggi aggiunge: «I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no? No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l'unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un "povero illuso pacifista" o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c'erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori!».
Ma l’apoteosi di questi chiari sintomi di delirio e di cinismo patologico arriva con la seguente considerazione: «La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di "Uno a zero" dimostra di essere intelligente? No. Ma come si dice a Roma, ‘sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto. Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un'aula all'imbecille! Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con l'aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno».
Gabriele Romagnoli, sempre su la Repubblica, nel commentare il libro di Bonini ed i dialoghi riportati, afferma: «Se occorresse una password per aprire un libro, con "Acab" dovreste provare "odio". Non funziona? Allora tentate "tanfo". Sono le parole chiave del testo di Carlo Bonini che non è il riversamento di una serie di interviste registrate, ma piuttosto del rumore di fondo. Quello che pochi sanno ascoltare, quello che poi produce un'onda definita anomala solo perché non la si era vista arrivare. Si legge la cronaca più efferata, si prende atto delle dichiarazioni irragionevoli di questo o quell'onorevole, si osserva con disneyana sorpresa l'avvento al potere di un manipolo di gaglioffi senza qualità e ci si chiede: ma questi da dove sbucano? E, ancor più: che cosa, chi mi rappresentano? "Acab" è una delle risposte. Una delle tante verità che il club mediatico, perduto nell'autoreferenzialità, abbagliato dal riflesso dei lustrini, sviato al bivio tra la rappresentazione del mondo come dovrebbe essere e come invece è, non ha saputo cogliere per tempo». E queste parole ben sintetizzano il disgusto che non può non provarsi nei confronti di una pagina di storia della quale, per trovare traccia, occorre risalire alla tristezza del ventennio, o alle cronache degli scempi compiuti in realtà sudamericane apparentemente così lontane dalla nostra cultura e dalla nostra etica.
Certo è che questi fatti, certamente non sopiti nella memoria dei protagonisti ed in quella di chi, incollato al piccolo schermo ne seguì lo svolgersi, mettono in luce un mondo di operatori dell’ordine costituito pericolosamente in bilico sulla deriva autoritaria, incapace di interpretare il proprio ruolo nell’ottica garantista e legalista che costituisce la vera ragione della sua esistenza. E la responsabilità gravissima e irrinunciabile delle azioni di questi apparati palesemente deviati, delle azioni di queste mute di pitbull assetati di sangue e di rancore, non può essere attribuita alle debolezze istintuali dei singoli, ma ricade interamente sui livelli sovrastanti, ministri dell’interno compresi, incapaci di addestrare le risorse impiegate in questo servizio essenziale al rispetto della democrazia e delle leggi. Sino a quando questi metodi, inconcepibili nell’epoca in cui viviamo, non saranno sradicati e non saranno radiati dagli apparati preposti alla tutela dell’ordine pubblico i frutti marci, gli elementi portatori di un’ideologia da Gestapo, i nostalgici di metodi Mladic, Karadic o Videla, che considerano la divisa la personale licenza per farsi giustizia sommaria e sono orgogliosamente pronti a giustificare ogni misfatto con un’autoreferenzialità demenziale, non potrà esserci legalità, accumunando in un unico scenario di colpevolezza autori di disordini e parti lese, in un’immagine di vergogna senza fine e di barbarie.
(nella foto, Claudio Scajola, Ministro degli Interni allepoca dei fatti di Genova)

mercoledì, gennaio 14, 2009

Multa ai clandestini: chi paga?

Mercoledì, 15 gennaio 2009
Grande tripudio tra il popolo padano. Adesso che i leader del Carroccio sono riusciti ad imporre, con l’approvazione del decreto sicurezza in Senato, una multa da 5 mila a 10 mila euro ai clandestini sorpresi sul suolo italiano sicuramente si festeggerà quest’altra inutile vittoria della Lega in materia di immigrazione.
E che si tratti di una vittoria di Pirro è palese nei fatti, in quanto c’è da scommettere che non ci sarà nessun multato in grado di pagare una gabella comunque al di fuori della portata delle sue possibilità economiche, con ciò rendendo perfettamente senza alcun senso la norma appena approvata, costata, peraltro, polemiche e risorse in termini d’impegno parlamentare. Ma è noto che gli illusionisti nelle cui mani ormai siamo, pur di cantare vittoria, spacciano per un successo qualunque corbelleria priva del minimo senso comune.
Naturalmente si potrebbe suggerire al geniale Maroni e al drappello dei custodi dei confini nazionali che con lui s’accompagnano che forse una soluzione c’è per costringere anche i diseredati, i relitti umani ed i poveracci convinti che venendo in casa nostra troveranno l’Eldorado, a pagare l’esemplare ammenda: basta applicare loro l’analogo criterio riservato ai ben più facoltosi eroi acquirenti d’Alitalia. Una bella rateazione in 60 mesi, TAN e TAEG zero, ed il gioco, oltre che la giustizia, saranno fatti.
Ovviamente c’è da sperare che, analogamente al caso predetto, qualche brillante genio a piede libero, non si inventi l’ennesimo fondo di copertura delle ammende insolute a carico del cittadino.

Coalizione sull’orlo di una crisi di nervi


Mercoledì, 14 gennaio 2009
Dopo Bossi è la volta di Gianfranco Fini, stanco di indossare l’abito dell’eterno principe ereditario di quella coalizione con il nome di PdL, che presto o tardi dovrà fare a meno dell’attuale padre-padrone Silvio Berlusconi, non fosse che per ragioni di età anagrafica del leader di Arcore, oltre che a causa di qualche eventuale scivolone per le inchieste giudiziarie nelle quali rimane coinvolto, nonostante i colpi di mano legislativi con i quali si è al momento garantito l’impunità.
Così Fini, - per quanto la credibilità delle sue iniziative sia prossima allo zero, vista la memoria che ancora si conserva delle sue dure parole spese al tempo dell’editto di piazza con il quale Berlusconi annunciò la nascita del PdL nel quale il leader di AN “non sarebbe mai confluito”, - alza il tono della critica e parla di “parlamento offeso” a proposito del voto di fiducia preannunciato dal governo sul pacchetto delle misure anticrisi, denunciando nella mossa di Berlusconi il mascheramento di “un problema politico” all’interno della coalizione, che induce a ricorrere troppo spesso al voto di fiducia e, dunque, ad azzerare il dibattito parlamentare.
Il Cavaliere, cui la critica provoca intollerabile fastidio, ribatte con l’astiosità della quale è indiscusso maestro e manda a dire alla terza carica dello stato che Fini dovrebbe rammentare che in quel posto ce l’ha messo lui, ma che continuando così “farà la fine di Casini”. Come dire che con questo atteggiamento si mette automaticamente fuori dal partito e per lui non ci sono speranze di una collocazione di rilievo all’interno del PdL alla scadenza dell’incarico e, men che meno, di aspirare a succedergli nella guida del centro-destra.
In tutto questo, Fini non è certo supportato dai suoi ex colonnelli, Alemanno, La Russa, Matteoli, che hanno trovato all’ombra del PdL una comoda sistemazione e che, guarda caso, sono stati affrancati dalla sorte dall’ingombrante peso di un capo, Fini, che per anni aveva guidato AN senza concedere grandi spazi al loro desiderio di protagonismo e che, ovviamente, guardano allo scontro con la malcelata indifferenza di chi, in fondo, adesso ritiene di dover pensare solo a gestirsi il proprio futuro politico all’interno di un assembramento confuso, senza una linea definita e contrassegnato da mille anime particolaristiche.
Nonostante tutto, Fini ha ragioni: il PdL, causa la sua intrinseca natura, è un partito con enormi problemi di tenuta e di coerenza, dove istanze contraddittorie, per non dire contrapposte, scatenano quotidiane guerre per bande tra fautori di un federalismo impossibile e nostalgici dell’assistenzialismo meridionalista; tra riformisti illuminati e clientelisti irriducibili; tra laicisti convinti e clericalisti indomiti. Sono un esempio di questi scontri i travagliati dibattiti e provvedimenti sulla scuola, l’università, il pubblico impiego, il sostegno all’istruzione gestita dalla Chiesa e così via. Lo stesso pacchetto anticrisi, la cui inconsistenza travalica il senso del ridicolo, infarcito di iniziative talora umilianti quanto di strumentale farraginosità, come la social card, e privo di una minima parvenza di serio provvedimento a sostegno del reddito e dell’occupazione, dimostra come la confusione regni sovrana nell’ambito della coalizione di governo e sia inconsistente la capacità di gestire con un’incisività minima una crisi gravissima per la quale tutti i governi stanno cercando di operare concretamente.
Il Cavaliere sa bene queste cose, che peraltro costituiscono le croniche deficienze di tutti i governi di cui è stato leader. Tuttavia, incapace com’è di discernere il suo interesse personale da quello per la cosa pubblica, convinto che mostrare i muscoli sia più produttivo che discutere, si comporta come l’amministratore delegato di una delle sue società ed impone di serrare le fila ai suoi componenti del consiglio d’amministrazione, annullando così ogni confronto parlamentare.
In queste che sembrano in fondo solo le prove generali di quel presidenzialismo tanto caro a Berlusconi, ma dal quale sano già in tanti a prendere le distanze anche tra i suoi sostenitori, - Andreotti qualche giorno fa ha dichiarato alla stampa che chi ha conosciuto il fascismo non potrebbe mai appoggiare una riforma presidenzialista foriera di potenziali derive, - vi è poi una questione per alcuni versi ancora poco indagata. Ed è la questione di chi effettivamente assuma le decisioni vere nell’ambito del governo. A ben considerare, infatti, appare evidente che all’interno del governo ci siano più centri direzionali deputati, uno per la politica ed uno per l’economia, che non sempre dimostrano coordinamento fra loro. Così mentre la politica si origina nelle stanze del Richelieu Letta, la regia economica vede la luce in via XX Settembre, dove un Tremonti in stile Quintino Sella, decide in piena autonomia le misure da adottare per il Paese: a Berlusconi tocca poi la vendita al pubblico dei due prodotti e la gestione della coreografia complessiva.
Come osserva Curzio Maltese sulle pagine di la Repubblica, “in tutto questo, Berlusconi difende un interesse non negoziabile, il proprio. L’interesse di Berlusconi è ottenere oggi la riforma della giustizia e domani il presidenzialismo. Una naturale evoluzione: dalle leggi ad personam alle riforme ad personam. Ma non si vede davvero perché gli alleati dovrebbero avere tanta fretta di consegnargli un potere assoluto, quando possono campare negoziando di volta in volta. Infatti, né Bossi né Fini, a quanto si è capito, fremono d’impazienza. Sullo sfondo di questo complesso teatrino ci sarebbe un paese sull’orlo di una lunga recessione aggravata dal terzo debito pubblico del pianeta. Ma questa naturalmente è l’ultima delle preoccupazioni”.
Tutto ciò, che palesa quanto sia effervescente la situazione all’interno di una coalizione apparentemente allineata e coperta, potrebbe indurre all’errore di ritenere possibile la fine prematura del governo Berlusconi, quantomeno per opera di quella Lega che già in passato ha dimostrato come non tolleri la chiacchiere non accompagnate da fatti concreti. Per quanto quest’evenienza non possa scartarsi nel momento in cui la base del consenso di Bossi si stuferà di non vedere realizzato alcun provvedimento concreto nella direzione degli impegni elettorali del Carroccio, l’ipotesi appare al momento assai remota, non fosse per la mancanza di un alternativa al governo attuale e per la situazione di gravissimo sbando in cui versa l’opposizione, incapace a sua volta di presentarsi con una linea dura, magari impopolare, ma certa e determinata. Analogamente, non saranno i residuati di AN ormai integrati nel PdL e così intenti ad inzuppare il biscotto nella tazza del potere a sollevare questioni di tenuta della coalizione, particolarmente per salvare il prestigio dell’ex leader di un partito che non c’è più.
Lo scenario prossimo venturo sarà pertanto il solito tira a campare in difesa dei tanti particolarismi ora del Nord, ora del Sud e delle mille parrocchie che gravitano intorno agli interessi dei singoli, mentre il Paese scivolerà sempre più ai margini dell’Europa e acquisiranno recrudescenza le guerre tra fautori di Malpensa e di Fiumicino, tra permessi di soggiorno a pagamento ed immigrati da rispedire a casa, accreditando sempre più l’immagine di un Italia non donna di provincie, ma bordello.