giovedì, gennaio 28, 2010

Storie infami di un paese allo sbando

Giovedi, 28 gennaio 2010
Ci sembra interessante pubblicare l’articolo seguente, tratto alcune ore fa dal sito de la Repubblica.it non solo per la follia della notizia, ma per diffondere un ulteriore esempio del degrado morale cui questo paese è ormai giunto. La lettura dell’articolo è purtroppo foriera di quanto potrebbe accadere nel volgere di qualche anno ai tanti anziani in procinto di pensionarsi, grazie alle sciagurate leggi di riforma del sistema pensionistico che periodicamente minacciano i nostri governanti,…. naturalmente per il popolo, dato che le loro pensioni di certo non si toccheranno mai. La vicenda è ancor più raccapricciante se si pensa che ieri si celebrava la “giornata della memoria”, requisito di cui sembrano difettare i burocrati di questo paese scellerato.
Ornella, 84 anni, vittima delle leggi fasciste"Niente pensione, può andare a lavorare"
di ALBERTO CUSTODERO

Ornella Pajalich, 84 anni, perseguitata lei e la sua famiglia dalle leggi antiebraiche fasciste, non ha diritto alla pensione di benemerenza che lo Stato riconosce alle vittime delle discriminazioni razziali del regime perché, per la Corte dei conti, può andare a lavorare. La sentenza shock (che contraddice una recentissima direttiva del ministero del Lavoro), depositata proprio nel giorno della Memoria, è la numero uno del 2010 della Prima Sezione di appello presieduta dal giudice Davide Morgante.La signora Pajalich aveva ottenuto l'assegno di benemerenza in primo grado in quanto il giudice contabile Agostino Basta aveva riconosciuto le discriminazioni subite da lei e, in particolare, dal padre Luigi, "doppio" perseguitato: come ebreo e come antifascista. Luigi Pajalich fu vittima delle leggi razziali e condannato per la sua attività politica contraria al fascismo. Lo dimostrano sentenze di condanne del Tribunale speciale, verbali delle questure fasciste e altri documenti prodotti durante la causa dalla figlia. Secondo il giudice Basta, il cittadino italiano di religione ebraica Luigi Pajalich aveva dunque diritto all'assegno di benemerenza come perseguitato razziale e come antifascista, benemerenza della quale alla sua morte - come previsto dalla normativa sulla reversibilità delle indennità previste per i perseguitati dal fascismo - beneficiò la figlia, anche lei vittima delle leggi razziali. Ma alla sentenza di primo grado che riconosceva il sussidio alla famiglia Pajalich si è opposto, attraverso l'Avvocatura generale dello Stato, il ministro delle Finanze, che ha presentato ricorso in appello. E il secondo grado della giustizia contabile ha ribaltato la sentenza. "Poiché l'interessata non risulta sia stata riconosciuta inabile a proficuo lavoro dalle competenti Commissioni mediche", si legge nella motivazione della sentenza, "la Corte dei conti, Sezione prima giurisdizionale centrale, nega il diritto della signora Ornella Pajalich alla reversibilità dell'assegno vitalizio di benemerenza".Niente vitalizio, a 84 anni si cerchi un lavoro. Si tratta di una sentenza destinata a fare discutere anche perché contraddice quanto riferito alla Camera, proprio alcuni giorni fa, da Pasquale Viespoli, sottosegretario al Lavoro, in risposta a un'interrogazione presentata dal deputato pdl Fiamma Nirenstein. "Come requisito per la concessione del vitalizio - riferisce il viceministro al Parlamento - per i soggetti di età superiore ai 65 anni è previsto unicamente un limite reddituale escludendosi quindi la sottoposizione a visita medica"."Ne risulta - spiega l'avvocato Rafael Levi, esperto di questa materia - che la prima sentenza di appello del 2010 crea un inquietante (e isolato) precedente. Ci chiediamo se c'era davvero bisogno di liquidare in una sola pagina un punto così sofferto e delicato (si tratta di assegni riparatori a coloro che furono perseguitati a causa di atti dello Stato, le leggi razziali e le persecuzioni, non certo di pensioni di guerra, che presuppongono il ben diverso adempimento di un dovere), cui hanno aderito decine di giudici di primo grado, confermato dalla stessa Camera dei deputati, senza almeno rimettere la questione alle Sezioni riunite".


La truffa Euro


Giovedì, 28 gennaio 2010
Correva l’1 gennaio 2002 quando l’euro faceva il suo ingresso ufficiale nelle tasche degli Italiani per sostituire, gradualmente, la lira mandata in pensione.
A otto anni di distanza, quella data rimane nella memoria di tanti, poiché ha determinato una svolta epocale nello stile di vita, nelle abitudini e, - è il caso proprio di sottolinearlo, - nell’individuazione dello spartiacque tra povertà e minimo di sopravvivenza.
Sì, perché all’indomani dell’introduzione della nuova moneta la struttura dei prezzi di tutti i beni, da quelli voluttuari a quelli di prima necessità, ha subito un’incredibile impennata non compensata affatto dall’adeguamento periodico di stipendi e salari, con i risultati che tante famiglie, ritenute per reddito e stile di vita medio-borghesi, sono rapidamente e inesorabilmente precipitate nella fascia di povertà, quella più disperata, quella incapace di superare con le poche risorse economiche a disposizione le due prime settimane di ogni mese.
Non è andata per tutti alla stessa maniera, comunque, in quanto intere categorie economiche sono riuscite a moltiplicare i proventi, grazie ad una selvaggia politica di tariffazione dei servizi, - lasciata completamente fuori controllo dalle autorità. Ciò non è avvenuto senza aggiustamenti, poiché la politica di incremento selvaggio delle tariffe di professionisti, servizi pubblici, movimentazione merci, trasporti e produzione industriale, ha causato una lenta e inesorabile contrazione del mercato, stretto nella morsa della riduzione della propensione al consumo e dell’inflazione, con gravissimi rischi d’implosione per il sistema di cui le prime avvisaglie erano già percepibile nel 2005 con la crisi dei prezzi petroliferi, la guerra in Iraq, la SARS egli attentati dell’11 settembre, che, com’è conseguente in una economia globale, non potevano non produrre ripercussioni all’interno del nostro già fragile sistema economico.
Facendo una retrospettiva della situazione generale vigente al momento dell’avvento dell’euro non possono non evidenziarsi almeno due errori macroscopici per il governo dell’epoca, - comunque perpetuati di governi successivi, - consistenti nella fissazione di un tasso di concambio lira/euro cervellotico, per non dire demenziale, e nella mancata instaurazione di un’autorità di vigilanza, peraltro con forte potere persecutorio e sanzionatorio di ogni abuso, sul sistema prezzi. Aver fissato 1937,26 lire per un euro, peraltro, si è rivelato un errore esiziale in quanto l’automatico raddoppio dei prezzi nel cambio lira/euro ha comportato un adeguamento ingiustificato di quasi 63 lire per ogni euro: una sorta di inflazione nascosta del 3% fisso, a tutto vantaggio dei venditori e a discapito degli acquirenti.
Se si guardano i dati statistici sulla cancellazione di vecchie imprese e l’iscrizione delle nuove nel quadriennio 2005-2009 si può vedere che il saldo è fortemente negativo, pur tenendo conto della valanga di fallimenti registrati tra il 2008 e il 2009 dovuti alla micidiale crisi mondiale dovuta al crack finanziario planetario. Ciò significa che dopo un periodo di vacche grasse, durante il quale le aziende hanno registrato utili straordinari derivati dai proventi di cambio, parecchie imprese hanno dovuto chiudere i battenti a causa di una mortale contrazione del mercato interno, prima, e di quello internazionale in seguito.
Sul fronte dei redditi, la forbice tra quelli da lavoro dipendente e quelli da lavoro autonomo e d’impresa ha subito una divaricazione straordinaria, con un crollo effettivo superiore al 30% per il lavoro dipendente.
Ad aggravare questa situazione è intervenuto un ulteriore fattore di notevole disturbo degli equilibri di marcato, rappresentato dalla spesa per il finanziamento della guerra in Iraq da parte degli USA, che apparentemente non ha visto l’impegno diretto della maggior parte dei paesi occidentali, ma ha ricevuto il loro fortissimo sostegno tramite il deprezzamento delle ragioni di cambio dollaro/euro. La quotazione del dollaro, artificiosamente bassa, ha permesso un forte incremento delle esportazioni USA e, dunque, il finanziamento indiretto dell’ingente spesa militare sostenuta da quel paese.
In questa prospettiva l’economia italiana del post euro, - peraltro tradizionalmente dipendente dalle fluttuazioni internazionali dal lato energetico e dell’approvvigionamento di materie prime, - si è rapidamente collassata, inaugurando una lunga stagione di crisi occupazionale, produttiva e sociale con le conseguenze tristemente note a tutti.
Se si guarda all’azione di governo richiesta per mitigare gli effetti di questo disastro non può non prendersi atto dell’approssimativo varo di provvedimenti inconsistenti o placebo nella maggior parte dei casi, la cui connotazione principale è stata la salvaguardia degli interessi di chi stava meglio rispetto alla maggioranza di quanti inesorabilmente superavano la soglia della povertà. Questa politica suicida per il paese ha coinvolto indifferentemente governi di centro-sinistra e di destra e sono esempio di quelle scellerate scelte la riforma del sistema pensionistico, la cancellazione del welfare, i mancati provvedimenti di regolamentazione del mercato del lavoro, l’assenza di una legislazione di adeguamento degli strumenti di sostegno al reddito per disoccupati vecchi e nuovi, la mai realizzata riforma della cassa integrazione e così via sino ad arrivare all’ignobile scudo fiscale di recente attuazione, con il quale si è consentito il lavaggio di denaro di illecita provenienza con il pagamento di un’irrisoria tangente alle casse dello stato.
La stessa mancata riforma del sistema di determinazione dei prezzi petroliferi al consumo, che permette alla casta dei petrolieri di adeguare immediatamente i prezzi ad ogni variazione d’incremento di costo all’ingrosso, ma non li obbliga ad adeguarsi al ribasso con analoga tempestività, è la prova provata di una politica economica strategicamente basata sul privilegio delle élite a scapito della massa dei cittadini.
Sulla scorta di queste rilevanze il giudizio complessivo sull’avvento dell’euro non può che essere fortemente negativo, nonostante la vanità di Prodi, presidente del consiglio dell’epoca, abbia prevalso sul buon senso e lo abbia sistematicamente condotto a difendere quell’improvvida scelta. Se il nostro paese avesse mantenuto la propria divisa, come ha fatto la Gran Bretagna o la Svezia, piuttosto che illudersi che l’adesione alla moneta unica gli avrebbe permesso di esportare le inefficienze del sistema e ottenere un contributo dall’Europa per la loro correzione, oggi la crisi sarebbe parimenti grave, ma con ogni probabilità non avrebbe trascinato nel vortice della miseria oltre 7 milioni di famiglie, - ché a tanto ammonta il consuntivo del disastro sociale causato dall’ebbrezza euro.
Per contro, modulare in maniera più oculata una riforma delle pensioni impostaci dall’Europa, avrebbe permesso di attingere in misura inferiore alle risorse pubbliche per permettere a tanti disgraziati di campare dignitosamente e, contestualmente, avrebbe consentito quel contributo al rilancio dei consumi così auspicato oggigiorno. Infine, riformare il mercato del lavoro con una legislazione che troncasse lo sfruttamento terzomondista di un esercito di giovani disperati e senza futuro, anziché abbarbicarsi in difesa di improponibili strumenti di flessibilità, avrebbe permesso al paese di traguardare il proprio futuro con la speranza e l’entusiasmo di quelle nuove generazioni, pilastro di ogni paese, che oggi vivono assuefatti e vinti nella mancanza di speranza.

mercoledì, gennaio 27, 2010

E alla fine tornò la monarchia

Mercoledì, 27 gennaio 2010
Detto e fatto!
Neanche il tempo di supporlo, - tra l’altro per burla, - che il buontempone che s’immaginava s’è fatto vivo e ha immediatamente proposto l’allargamento della legge salva-premier in discussione in parlamento anche ai familiari dello stesso.
Il buontempone non s’è dimenticato pure la servitù, sebbene abbia dovuto ricorrere a delle éscamotage letterarie per raggiungere lo scopo.
Dunque, da legge "ad personam" a legge "ad familiam". Estesa pure ai coimputati. Per sospendere il processo non solo per Berlusconi ma, giusto quando l'inchiesta Mediatrade marcia verso il dibattimento, anche al figlio Pier Silvio e a Confalonieri.
Di fronte a questa iniziativa, che puzza pericolosamente di restaurazione monarchica assolutistica, non crediamo sia più solamente possibile l’arma dell’ironia e del distinguo o la condanna verbale di ciò che si palesa come un abuso gigantesco.
Forse ci si dimentica che ci troviamo in un paese nel quale la maggioranza parlamentare che sostiene questo premier, pronto a calpestare ogni parvenza di legalità pur di salvare se stesso, è in maniera schiacciante pro-Berlusconi, che ha saputo costruirla scippando l’elettorato del diritto sacrosanto di votare il candidato che preferiva per imporgli una legge elettorale che obbliga a votare chi il partito ha già deciso debba essere eletto.
A questa barbarie della democrazia non v’è stata alcuna reazione popolare, eccezion fatta per i soliti “estremisti”, - come li definisce il coro dei beneficiati di area PdL, coro disposto a tutto pur di mantenere scranno e posizione piovutagli per grazia del dittatore di Arcore, - che hanno denunciato, inascoltati, come un parlamento così composto non rappresenti la volontà popolare, ma gli interessi di un capobastone, di un don Rodrigo qualsiasi, che premia i suoi fedeli bravi.
Adesso l’Udc di Casini lancia l’allarme, dopo aver quasi snobbato la questione, simulando stanchezza per l’individuazione eterna di una via di salvezza per Berlusconi, al punto da “prestare” Michele Vietti per l’elaborazione di un testo potabile di legge sul legittimo impedimento. Egualmente preoccupato il Quirinale, il quale ha forse sottovalutato la propria latitanza nell’imporre con gli scarsi mezzi a sua disposizione un maggiore rispetto delle regole democratiche a questo premier golpista.
In buona sostanza, gli azzeccagarbugli del golpista di Arcore vorrebbero il "concorso di persone", quindi udienze sospese quando il premier, i ministri (e loro vorrebbero pure i sottosegretari), hanno impegni istituzionali. Il che significherebbe che l’impedimento di uno di questi personaggi estenderebbe la sospensione a tutto il processo, complici compresi. Roba da matti! Come dire che chiunque dovesse commettere un reato e non potesse vantare il concorso di un ministro o un sottosegretario dovrebbe ritenersi spacciato, dovendo subire un processo e una probabile condanna.
La legge di cui parliamo, in pochi termini, inaugura una stagione sino ad ora sconosciuta. Dalla raccomandazione per trovare un posto di lavoro stiamo per transitare nell’era dell’imperseguibilità complice: ti trovi un “padrino” nel governo e ti dedichi a tempo pieno alle tue preferite scorribande criminali. Anzi, affinando il meccanismo e utilizzando gli strumenti già in essere, ti basta un mentecatto da scegliere ad arte, facendolo inserire da qualche segreteria di partito, opportunamente oliata prima, tra gli eleggibili al turno elettorale e così il gioco è fatto.
Al di là dello sdegno e della stizza che un progetto di legge come quello in questione genera, c’è da chiedersi se la misura non sia colma è sia finalmente giunto il momento di una resa dei conti popolare con questa morchia politica, che è convinta di poter fare ingoiare al cittadino ogni abuso e pazzia le passi per la mente.
Qui non è discussione il legittimo diritto di ogni cittadino di difendersi davanti ad accuse più o meno gravi che gli vengono mosse dagli organi inquirenti con ogni mezzo legale a sua disposizione. Qui ci troviamo davanti ad uno stravolgimento di ogni regola pur di esimersi dal doveroso confronto con la giustizia, ricorrendo ad espedienti pazzeschi come la depenalizzazione di certi reati (quelli in cui è coinvolto l’indagato), la pretesa immunità conseguente la copertura di cariche istituzionali (il presidente del consiglio), il divieto di celebrare processi quando si adducano autocertificati impegni istituzionali impedenti, con l’estensione di ogni attività processuale a tutti gli imputati (guarda caso adesso che Pier Silvio Berlusconi è implicato nel processo Mediatrade).
E’ necessario dire basta a questo clima d’intollerabile inciviltà giuridica e sociale voluto da questo sgorbio democratico di governo e da una destra famelica di poltrone, che avrebbe venduto l’anima a Satana (che in verità l’ha già fatto!) pur di accaparrarsi una poltrona in un posto di potere. Una destra che, nonostante le abiure, le ritrattazioni, le smentite, gli sdoganamenti di comodo, rimane profondamente fascista e squadrista, anche se ai vili pestaggi fisici nell’ombra adesso preferisce quelli verbali, velenosi e ossessivi ancorché plateali.
E’ l’ora di inondare le strade e le piazze, per far sentire la protesta e il dissenso dei cittadini perbene, che non possono più tollerare che i loro diritti contino meno di quelli di una casta di immondi mandarini, che rifiuta ogni freno, ogni limite, ogni sindacato sulle proprie azioni, ma è pronta a vessare chiunque in nome di quelle leggi che disprezza e aborre per sé.
(nella foto, Michele Vietti, parlamentare UDC, che sta studiando un testo di legge sul legittimo impedimento)

lunedì, gennaio 25, 2010

Le stupidaggini del geniale Brunetta

Lunedì, 25 gennaio 2010
Ci sarebbe da chiedersi che male abbiamo fatto per meritarci ministri così indecenti e un governo così squallido, se non fosse che la domanda risulterebbe delle più retoriche, visto che non v’è risposta alcuna se non quella di addebitare alla comune disaffezione per la politica l’ascesa di una compagine cialtrona che non passa giorno che scatena l’ira fole dei cittadini con le idiozie che sgrana.
Oggi è nuovamente la volta del Mago di Oz, al secolo Renato Brunetta, che, al culmine del populismo più becero e non pago delle stronzate sui bamboccioni di qualche ora fa, ha sparato la scemenza del secolo: tagliare le pensioni d’anzianità per dare un sussidio ai giovani.
«Secondo me si deve agire sulle pensioni di anzianità, quelle che partono dai 55 anni di età. Facendo in questo modo si potrebbero trovare risorse che consentirebbero di dare ai giovani non 200 ma 500 euro al mese», ha affermato il ministro, gongolante per la geniale trovata.
«La proposta di dare soldi ai giovani togliendoli ai pensionati è delinquenziale. Punta semplicemente e consapevolmente a scatenare una guerra tra i poveri dentro un folle conflitto tra generazioni», ha ribattuto con comprensibile disgusto Paolo Ferrero, ex ministro del governo Prodi e attuale segretario di Rifondazione Comunista, che nell’utilizzare il termine delinquenziale ha probabilmente inteso fare un complimento alle penose considerazioni di Brunetta, ché la sua sembra piuttosto la stupidaggine proferita da uno sbronzo.
Disgraziatamente Brunetta, la cui lucidità si dimostra sempre più direttamente proporzionale alle sue dimensioni, non è stato neanche sfiorato dall’idea che se si dimezzasse il cospicuo e immeritato appannaggio da parlamentare, oltre a qualche guarentigia da satrapo, da sommare al ricavato di una tassazione più incisiva sui grandi patrimoni e al recupero dell’evasione fiscale, di soldi ce ne sarebbero a bizzeffe per garantire l’erogazione ai giovani di un sussidio dignitoso e magari ritoccare verso l’alto i già ridotti all’osso assegni di pensione.
Ma evidentemente il brillante ministro ritiene molto più popolare una battuta di più facile presa nell’immaginario degli interessati, piuttosto che mettersi a lavorare seriamente sfoderando propositi meno sciocchi.
Il quotidiano la Repubblica, che non perde occasione per mettere alla berlina le birbe come lui, ha subito promosso un sondaggio via web, con il quale la proposta del geniale Brunetta è stata rispedita al mittente con l’’84% delle bocciature.
Recita un vecchio adagio che è meglio tenere la bocca chiusa e dar l’impressione d’essere idioti, piuttosto che aprirla per rimuovere ogni dubbio. E’ evidente che Brunetta ignori questa perla di saggezza.

domenica, gennaio 24, 2010

Talis pater, talis filius

Domenica, 24 gennaio 2009
Eh si, è proprio vero che di solito i figli somigliano ai padri.
Un lampante esempio della lungimirante saggezza degli antichi romani è Pier Silvio Berlusconi che, commentando la chiusura dell’inchiesta giudiziaria a suo tempo aperta nei suoi confronti, di suo padre e Fedele Confalonieri dalla procura di Milano, ha dichiarato: «Così si vuole colpire mio padre».
Ci risiamo! Dichiarazioni che conosciamo a memoria e che, purtroppo, si davano già per scontate. Così come si dava per scontata la canea scatenatasi tra innocentisti e colpevolisti, tra i politici pro e contro, che vedono nelle conclusioni dell’inchiesta l’ennesimo e intollerabile attacco al premier.
Addirittura un quotidiano del nord invita oggi alla mobilitazione di piazza per tutelare il diritto di Berlusconi di governare secondo i suffragi del corpo elettorale, sebbene non entri nel merito né delle nuove accuse mosse a carico del premier e suo figlio né, in buona sostanza, evidenzi una qualche contezza dei fatti di cui si parla. Analogamente al quotidiano in questione ha fatto Casini, leader dell’UDC, che facendo eco alle dichiarazioni dei soliti Gasparri, La Russa, Cicchitto, Capezzone, Alfano e tutta la truppa a presidio dell’impunità di un capo del governo eponimo di un’arroganza senza pari, non ha esitato ad affermare che si tratta di un reiterato atto di persecuzione della magistratura nei confronti di quell'anima pia del Cavaliere.
Com’è stato osservato da parecchi «qualsiasi iniziativa della magistratura nei confronti di Berlusconi and family o dei loro gruppi finanziari, viene presa come esempio di intimidazione personale e/o politica. Ma per caso non saranno queste dichiarazioni a voler intimidire i magistrati?»
Il quesito ci pare assai fondato. Anzi c’è da ritenere che la disperata ricerca di una via d’uscita dal ginepraio d’imputazioni che il valente capo del governo si è guadagnato nel corso della sua vita imprenditoriale, - che nulla ha a che vedere con la sua recente attività politica, inventata ad arte, in assenza definitiva di padrini, per garantirgli intanto un’immunità parlamentare e, poi, l’elaborazione di un percorso legislativo per tirarsi fuori dai guai definitivamente.
Naturalmente ipocriti, bugiardi, galoppini, burattini e tutta la corte dei miracoli di sedicenti perbenisti, garantisti, intellettuale, eccetera di cui si è circondato a suon di milionari compensi il grande imprenditore e politico per opportunismo Berlusconi non fanno che latrare dalla mattina alla sera nei confronti di chiunque si avvicini al proprio padrone, esattamente come farebbe la più fedele delle mute. Ma da qui a sostenere aprioristicamente che il loro boss è senza macchia nonché vittima di un sistema giudiziario che, guarda caso, è solo nei suoi confronti che mette a nudo tutte le sue insufficienze, francamente, appare un paradosso inaccettabile.
Se il signor Berlusconi, abbandonando ogni reticenza sospetta e di comodo, magari chiedendo la presenza di qualche osservatore dell’ONU o del tribunale internazionale per la tutela dei diritti dell’uomo comìè d'uso nei paesi sottosviluppati, si decidesse per una volta a farsi processare, magari riuscirebbe a convincere qualche indeciso della sua buona fede e dei suoi timori. Altrimenti abbia il pudore di smetterla con il ricorso al solito disco rotto della persecuzione, che adesso fa cantare persino alla figlia Marina e, ultimo, a Pier Silvio, che con colpo di teatro degno delle sceneggiate dell’illustre genitore ha dichiarato alla stampa: «Ho appreso con stupore ma con grande tranquillità la notizia dell'inserimento del mio nome nelle indagini sui diritti cinematografici. La tranquillità nasce dal fatto che so come lavoriamo, sia io personalmente sia tutta Mediaset. So quanto scrupolo Mediaset pone nel controllare i costi e quale sforzo è quotidianamente messo in atto per dare il massimo ai nostri tanti azionisti. E tutto questo è assolutamente evidente nei bilanci Mediaset. Per cui mi fa quasi sorridere che proprio io sia stato coinvolto in un'inchiesta in cui si parla di costi gonfiati, fondi neri e irregolarità fiscali. Tuttavia questo non riduce l'amarezza di vedere di nuovo la volontà di colpire mio padre con qualunque pretesto. E la mia impressione è che anch'io, da ieri, sia stato inserito in questo meccanismo». - ha detto ancora Piersilvio Berlusconi - «Come cittadino e come imprenditore (sic!, ndr) non posso accettare tale sistema, ma voglio che tutti sappiano che essere stato scaraventato in questa bagarre non mi spaventa affatto e anzi mi fa sentire ancora più vicino a mio padre. In tutto e per tutto».
Crediamo che a nessuno sia sfuggito il messaggio non solo di auto assoluzione ma anche di probabile attualità parlamentare: si è tirati in ballo non tanto perché presuntivamente delinquenti, ma perché si è figli di qualcuno che conta e, dunque, la deriva verso la cultura mafiosa che sta impadronendosi anche della magistratura, impone una sorta di trasversatilità, di vendetta che deve colpire congiunti e amici di colui che è sotto attacco. Incredibile!
Francamente e per quanto ci si sia abituati a sentire corbellerie demenziali di ogni sorta la tesi del rampollo Berlusconi appare assai ardita, per non definirla più convenientemente in modo appropriato ma inopportuno, anche se c’è da credere che qualche buontempone, non necessariamente avvinazzato, - magari dopo aver consumato un panino e mortadella in parlamento, - o in preda a particolare esaltazione, prenderà sul serio la battuta e suggerirà il varo di una legge che renda immuni da conseguenze giudiziarie anche i familiari, gli amici e, possibilmente, tutta la servitù del premier.
Straordinariamente e senza colpo ferire, saremo passati dalla dittatura strisciante alle più oscurantistiche monarchie assolute della storia dell’uomo.
Amen!
(nella foto, il sedicente imprenditore Pier Silvio Berlusconi)

mercoledì, gennaio 20, 2010

Processo breve o dittatura lunga?

Mercoledì, 20 gennaio 2010
Qualche ora fa nel Senato della Repubblica (del Viagra) s’è consumato l’ultimo affronto ai principi minimi della democrazia e, con ogni probabilità, ha traghettato l’Italia, - non più paese disgraziato, ma infame espressione geografica come sosteneva Metternich, - tra la lista dei paesi canaglia, quelli nei quali i principi fondamentali di libertà e del diritto sono solo un ricordo.
Il Senato ha infatti approvato la legge sul processo breve, quel provvedimento odioso che non è solo un regalo ai delinquenti incalliti, che vedranno improvvisamente svanire ogni pendenza a loro carico per decorrenza dei termini processuali, ma azzera definitivamente i processi a carico di Berlusconi, che finalmente si potrà presentare ai suoi fan ed elettori fresco come una rosa e senza macchia.
Sebbene il provvedimento debba adesso superare l’approvazione della Camera e la firma del Capo dello Stato, c’è da credere che a palazzo Grazioli, dimora romana del premier, si sia brindato all’atteso successo e si sia pasteggiato a base di cannoli siciliani, giusto per rispettare la tradizione.
Ciò non significa che nel paese non ci fosse l’esigenza di regolamentare una materia che nel tempo ha generato insopportabili lungaggini nell’amministrazione della giustizia e nelle conclusioni processuali. Ma considerare il provvedimento in questione il colpo d’ala tanto atteso costituirebbe un vulnus all’intelligenza del cittadino medio, che non può non individuare nelle modalità quasi da guerra civile con le quali si è giunti al varo della legge il violento colpo di mano inferto da una maggioranza serva del suo leader agli interessi processuali del capo del governo.
Non resta che sperare nell’auspicabile buon senso di Napolitano, dato che la Camera, la cui maggioranza è saldamente schierata sulle posizioni del premier-padrone difficilmente si esprimerà diversamente da quanto ha fatto il Senato, pur se da più parti, e non certo di sinistra, non sono mancati i richiami alla palese incostituzionalità del provvedimento medesimo.
Questo non vuol dire che Napolitano abbia un potere d’interdizione che travalica i suoi poteri costituzionali, ma potrà sempre avvalersi del rinvio al parlamento del provvedimento quanto questo sarà sottoposto alla sua firma per un’ulteriore ratifica. Il rinvio del provvedimento alla Camere renderebbe il ruolo del Capo dello Stato trasparente e rivaluterebbe le sue prerogative di garante della costituzione e degli interessi dei cittadini, che in larga parte dissentono da questa azione di ennesima mortificazione di credibilità delle istituzioni.Oggi è un giorno nero per la storia repubblicana: le lancette dell’orologio della storia sono tornate tragicamente indietro per riportarci all’epoca dei tristemente noti abusi dittatoriali che sembravano definitivamente seppelliti.

sabato, gennaio 16, 2010

Forca Italia ovvero IdV


Sabato, 16 gennaio 2010
La tesi è semplice al punto da fare apparire uno sprovveduto il signor Giuseppe Portonera, blogger di blogsicilia.it, che, pur condendo di apprezzabili passaggi ironici le considerazioni sulla genesi e la parabola discendente, - a suo giudizio, - del partito di Di Pietro, conclude con la quasi certezza che tra l’IdV, “cespuglio centrista e moderato” alla sua fondazione, e il PdL, definito il “non partito”, visto che somiglierebbe molto più ad una congregazione di affaristi al seguito di un signore che “si fa gli affari suoi”, non vi siano grandi differenze.
Il PdL è palesemente un partito personale, nel quale il suo leader detta legge, impone il percorso, assolve e scomunica, ma avendo chiaro l’obiettivo di salvaguardare i propri interessi personali, che vanno dalla conservazione dell’ingente ricchezza accumulata all’immunità da eventuali condanne per i molteplici reati nei quali è incappato nell’accumulare quella ricchezza.
Di Pietro, gestirebbe invece un partito ad personam, nel senso che non avrebbe un interesse immediato di tutela di privilegi acquisiti, ma sarebbe piuttosto una vera e propria attività imprenditoriale dalla quale il Tonino nazionale ricaverebbe i mezzi di sostentamento, - ovviamente si fa per dire, dato che parliamo di proventi mensili milionari, - per sé, la sua famiglia e un gruppo di fedeli amici che lo hanno seguito nell’avventura politica.
Dimostrerebbe questa natura imprenditiva la monoproduzione di un atiberlusconismo di bandiera con il quale si esaurisce ruolo e significato dell’organizzazione IdV, che con l’imminente celebrazione del suo primo congresso nazionale rischia di far venire al pettine i molti nodi da sciogliere. “Lo pregano tutti di sciogliere il suo partito e di rifondarlo dalle basi, ancorandolo stabilmente a sinistra e scacciando i vari amministratori locali che sono l’unica rete reale del partito”, rivela Portonera, per quanto non fornisca alcuna ragione comprensibile per la quale Di Pietro dovrebbe procedere su questa strada, né indichi quali siano le colpe che gli si attribuiscono consequenziali di tale provvedimento. Non pare d’altra parte motivo plausibile l’abbandono di Pino Pisicchio, Giuseppe Astore, Giuseppe Giulietti, Bruno Cesario, che secondo Portonera “si sono tutti trovati una più comoda casa centrista”, allo scioglimento del movimento politico, che, contrariamente al de profundis cantatogli dal nostro blogger, registra, - come deve ammettere anche Portonera, - un balzo felino in avanti di consensi nell’arco temporale di poco più d’un lustro, con una variazione dal 2 al 8%.
Suggestiva poi l’ipotesi sulla congiura radical chic, che coinvolgerebbe Paolo Flores d’Arcais, Marco Travaglio, Andrea Camilleri, Michele Santoro e qualche altro congiurato rimasto nell’anonimato o sfuggito alla penna dell’acuto critico, il quale evidentemente finge di sottovalutare il peso di personaggi come Tremonti, Fini, La Russa, Scajola e chi più ne ha più ne metta, che compongono il codazzo di Berlusconi. Certo, se ha pensato al peso di Brunetta, sia fisico che della qualità dell’azione politica, non possiamo dargli torto. Ma il caso ci sembrerebbe macroscopicamente esagerato per consentirgli di fare di tutta l’erba un fascio, sebbene nel tripudio di Gasparri e di qualche inguaribile nostalgico.
Più solida appare la critica sulla coerenza di certe azioni e certe scelte. “A fronte, infatti, di problemi giudiziari (come la vicenda del figlio del leader, Cristiano), ce ne sono anche di natura politica. Che posso mettere alla luce molto più semplicemente. Primo fra tutti: l’assoluta inconsistenza culturale e ideologica del partito. In Europa l’IdV, infatti, aderisce all’ALDE, il gruppo dei liberali e dei democratici.In poche parole, dei garantisti antilegalitari per eccellenza. E se in Italia Di Pietro urla tanto, in Europa il suo gruppo vota tranquillamente le varie richieste d’immunità; spesso si trova in sintonia con il PPE (in cui siedono PDL e UDC) e, se qui da noi critica la presunta politica dei due forni, in Europa ha scelto il gruppo centrista per eccellenza che si offre ogni volta o ai popolari o ai socialisti del PSE. Mica male sotto il profilo della coerenza… Idem anche per l’inconsistenza reale del partito.”
Al di là della prosa, probabilmente zoppicante per l’eccesso di sdegno, se si può convenire circa l’esigenza per un partito come quello di Di Pietro di fornire costantemente prove intellegibili di coerenza, le accuse d’inconsistenza reale del partito suonano non solo fuori luogo perché non supportate da elementi esemplificativi probanti, ma in quanto trasudano un accanimento verbale basato su motivazioni fatue e sull’evidente antipatia che il buon Portonera nutre verso il leader dell’IdV.
A chi scrive, queste prese di posizione riportano alla memoria i tragici epiloghi di mani pulite, acclamata e appoggiata dalle masse quando prese il via e demolita nella credibilità dai bombardamenti mediatici della controffensiva. Così Borrelli, D’Ambrosio, lo stesso Di Pietro, - contro il quale, non si dimentichi, furono inventati casi giudiziari incredibili, finiti tutti in una bolla di sapone, da eroi nazionali, divennero nell’arco di pochi anni persecutori, giustizialisti, killer, comunisti conclamati e tutto ciò che poteva indurre la pubblica opinione a maturare sospetto e disgusto per un’azione di pulizia rimasta incompiuta.
E questa amara considerazione si evince dalle conclusioni di Portonera, che suggerisce a Di Pietro di mutare il nome del suo partito da Italia dei valori in Forca Italia. Sono queste boutade che rivalutano l’aforisma di un grande della storia: rispetto l’ignoranza, ma ho grande disprezzo per la stupidità.

giovedì, gennaio 14, 2010

Le armi di "distrazione" di massa

Giovedì, 14 gennaio 2010
Oggi le tasse non si possono più ridurre. C’è la crisi che attanaglia, che non da respiro, che non permette di varare serenamente manovre così impegnative per le casse statali.
Ieri, invece, si poteva. Due livelli d’imposta, 22 e 33, per i redditi sino a centomila euro e quelli al di sopra.
«Siamo in balia di un pazzo... o meglio di qualcuno che utilizza scientemente le armi di 'distrazione' di massa, per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dai temi importanti: la critica situazione economica del paese, e le presunte riforme della giustizia (leggi norme ad personam per salvare il Premier dai processi). L'informazione (Corsera compreso) dovrebbe evidenziare chiaramente questa manovra, offensiva per l'intelligenza dei cittadini, indipendentemente dal loro colore politico. Cittadini che sono stufi di un premier che impegna le istituzioni (anzi, le occupa) per risolvere i problemi personali con la giustizia e con le sue aziende, disinteressandosi dei problemi reali del paese in balia della crisi...».
Così scrive un lettore sconcertato, - tale Alex69, - sul sito de la Repubblica alla notizia che il premier oggi ha cambiato idea a proposito della sbandierata riforma del fisco strimpellata un paio di giorni or sono e sulla quale, - almeno a leggere i giornali allineati, - tutti sembravano d’accordo, da Tremonti a La Russa, da Scajola a Bonaiuti.
Cosa sarà mai accaduto di così improvviso e imprevedibile da obbligare il Grande Illusionista di Arcore a fare retromarcia? Probabilmente questa domanda non avrà mai una risposta. Silvio Berlusconi approfitta della conferenza stampa dopo il Consiglio dei Ministri per sgomberare il campo da ogni equivoco sulla riforma fiscale: «Con la crisi attuale» - è il succo del suo discorso - «una riduzione delle tasse è fuori discussione». Il Cavaliere è netto: «Non intendiamo assolutamente introdurci in questa campagna elettorale per le elezioni regionali e amministrative con delle promesse di riduzioni delle imposte», che lascia intendere come debba essere accaduto qualcosa nel corso delle ultime ore in grado di fargli cambiare repentinamente idea sull’uso di un piatto assai appetitoso per gli elettori di tutte le estrazioni.
La cosa più probabile e che, contrariamente alle attese, i sondaggi segreti seguiti alla boutade sulla riforma fiscale debbono aver reso risultati preoccupanti, nel senso che la gente è sostanzialmente stanca di farsi sfottere da questo furbetto di provincia, che distrae l’attenzione dai continui tentativi di salvarsi le terga ricorrendo ad improponibili soluzioni legislative ad personam, - pur se adesso s’è inventato ad libertatem, omettendo il meam a conclusione di questo nuovo slogan. Allora cosa fa? Ma se il Quirinale gli boccia l’ennesima ipotesi di provvedimento per congelare i processi, suo compreso, non ha più molto senso insistere sulla questione della riforma fiscale, non essendoci niente e nessuno di cui deviare l’attenzione.
In ogni caso, - per quanto il dover pagare le tasse, specialmente sapendo che grande parte dei loro proventi serviranno a pagare gli appannaggi della casta malefica che ci governa e che occupa le istituzioni senza alcun vantaggio per il cittadino, non possa non provocare un conato di vomito, - la riforma ventilata da Berlusconi sembra un’appendice dello scudo fiscale ancora in essere e in fase di produzione dei suoi effetti. Pertanto deve ritenersi improponibile, almeno nei termini nei quali è stata presentata. Rischia, infatti, di diventare l’ulteriore regalo ai ricchi e agli evasori, - magari adesso preoccupati di come occultare ciò che grazie allo scudo fiscale sono riusciti a far rientrare e rendere del tutto lecito, - che non saranno più chiamati a contribuire secondo le “loro capacità”, come recita la Costituzione, ma in maniera forfettaria, grazie all’impiego di un’aliquota beffa.
Il risultato di questa tanto declamata riforma sarà che, per far fronte alle minori entrate, il sistema dovrà ricorrere all’innalzamento degli oneri indiretti, che - a scanso di equivoci - andranno a colpire i generi di prima necessità e non certo quelli di lusso appannaggio della classe benestante, e quindi al di sotto della soglia di convenienza di un eventuale ritocco d’imposizione. Nella sostanza, con manovra sulla tassazione indiretta si vanificherà progressivamente l’effetto della riduzione fiscale, ma il Grande Illusionista di Arcore potrà pensare di passare alla storia come artefice di una riforma epocale, di cui gli sprovveduti gli dovranno eterna gratitudine.
Nonostante questo spettacolo farsesco che dà di sé il sodalizio attualmente al governo, non c’è da farsi grandi illusioni su risultati elettorali delle prossime regionali che possano in qualche maniera indicare un’inversione di rotta. Il PD, pur se nelle mani di quel povero diavolo di Bersani, dimostra di non essere affatto all’altezza di guidare in modo serio e attendibile l’opposizione: troppe anime al suo interno, compresa quella di qualche ex presidente del consiglio, svenduta a suo tempo al demonio, e mancanza di una linea chiara di concreto rinnovamento, come lascia intendere l’appoggio alla candidatura Bonino nel Lazio. L’UDC di Casini è troppo piccola per potersi assumere il ruolo di capofila di un progetto d’alternativa, oltre a mostrare irrisolti i problemi di sempre: predicare bene, ma razzolare malissimo, tenendosi in seno qualche delinquente conclamato di troppo. Di Pietro, infine, ha già i suoi problemi a tenere in piedi l’alleanza con il PD, quantunque non perda occasione per sottolineare pericolosi distinguo, che, se da un lato servono a scongiurare sudditanze ed egemonie, non trasmettono segnali di affidabilità e continuità a quel popolo della sinistra ormai stanco delle interminabili stagioni d’antagonismo che ne hanno contrassegnato la storia.
E così andiamo avanti, con la disperazione dei senza lavoro, con i conflitti violenti con l’opposizione, con la magistratura costantemente sotto attacco e vilipesa nell’immagine, con le promesse e le illusioni continue per confondere la visuale.

mercoledì, gennaio 13, 2010

Malpensa un anno dopo

Martedì, 13 gennaio 2010
In questi giorni si celebra il primo anniversario della svendita di Alitalia a CAI, svendita che, in ordine di tempo e per valore, è seconda solo a quella di Alfa Romeo alla Fiat della seconda metà degli anni ’80.
Ma i motivi di parallelismo non sono certamente limitati al valore ridicolo conferito dai proprietari pubblici alle aziende in questione. Anche nel caso Alitalia ha perso la collettività, che si è dovuta addossare l’onere dei debiti miliardari della disastrata azienda. Ha perso la politica, quella affarista che ha dovuto ammettere la sostanza clientelare dell’operazione, e quella d’opposizione che non è riuscita a suggerire alternativi migliori e maggiormente credibili a quelle decise dal governo in carica al tempo. Ha infine perso la politica furbetta, quella fatta di proclami roboanti, di demagogia da marciapiede portata avanti da sempre dalla Lega di Umberto Bossi, che si era impegnata tra promesse e minacce a salvare Malpensa, - tra l’altro territorialmente nel cuore del consenso leghista, - tramite la rinegoziazione degli accordi bilaterali per ampliare il numero dei vettori ammessi a operare sulle rotte nazionali, internazionali ed intercontinentali.
A questa bordata di balle ad alzo zero, aveva partecipato lo stesso governo, che attraverso i suoi poco credibili portavoce aveva dichiarato che tra Fiumicino e Malpensa ci sarebbe stata pari dignità, entrambi hub, ma con visione sul nord Europa per l’aeroporto lombardo e visione inversa per quello laziale.
Invece, delle previste tratte internazionali da assegnare a Malpensa, che avrebbe dovuto passare dalle 3 residue a 14, non se n’è vista manco una, determinando così uno dei peggiori fallimenti della politica della Lega Nord in provincia di Varese e in Lombardia.
Com’è stato fatto osservare, anche i numeri la dicono lunga su questa figuraccia della Lega e, davanti ai numeri, non è consentito appellarsi alle cattive interpretazioni o alle maligne supposizioni. Rispetto all’anno precedente, nel 2009 a Malpensa si è registrata una perdita nel traffico passeggeri pari all’8,5% passando da 19.000.000 a 17.500.000 fra arrivi e partenze. Lascia perplessi anche il dato relativo alla quota di mercato di Alitalia su Malpensa, pari al 9%. A oggi, quindi, la prima compagnia presente nello scalo varesino è una low cost, ovvero Easy Jet, che detiene il 27%. È evidente quindi l’assenza di una strategia del governo per rilanciare l’aeroporto. Senza contare poi l’impatto che questa gestione ha avuto sull’occupazione: i sindacati parlano oggi di 700 dipendenti in cassa integrazione e di 2.800 in cassa integrazione in deroga nell’indotto, cifre che la dicono lunga sul crollo di credibilità dell’intero sistema politico di riferimento dell’area, che con le sue scelte non ha che determinato il de profundis di un comprensorio afflitto sino a qualche hanno fa dai problemi della piena occupazione e, dunque, dalla difficoltà di reperire manodopera se non importandola da altre regioni italiane o facendo ricorso ai tanto disprezzati extra comunitari.
Neppure l’operazione Lufthansa è servita ad alleviare i mali di Malpensa. La costituzione di una società italiana con sede proprio a Malpensa per gestire in modo diretto il traffico padano intercontinentale attraverso Monaco o Francoforte, non è stata sufficiente a compensare la smobilitazione in massa di Alitalia, forte una volta tanto nell’assunzione di questa decisione dell’avallo della protezione del governo in carica.
Ma quali saranno state le ragioni di un così palese tradimento da parte della Lega degli impegni assunti con il proprio elettorato? La risposta non è poi così ardua se si fa riferimento all’azionariato attuale di Alitalia ed alla presenza nella sua compagine di quell’Air France-Klm che sino all’ultimo sembrava rimasta esclusa dalla spartizione delle spoglie della ex compagnia di bandiera.
Colaninno e soci, quantunque abbiano ricevuto un succulento omaggio natalizio nel lontano 2008, erano ben coscienti di non avere alcuna expertise nella gestione di una compagnia aerea e, per quanto poco avessero dovuto scucire per accaparrarsi l’ex azienda della Magliana, avevano bisogno d’immettere nella gestione liquidità ed esperienza adeguati. Da qui l’ingresso in sordina dei cugini franco-olandesi, che a loro volta hanno chiesto e ottenuto quale pegno del loro investimento il mantenimento dello status quo sine die sulle tratte maggiormente redditizie e, dunque, niente revisione degli accordi bilaterali. Lega e Formigoni hanno dovuto abbozzare e ingoiare il rospo, in attesa di tempi migliori.
Fra poco ci saranno le elezioni regionali e quest’evento è di per sé sufficiente a mettere in moto la macchina delle grandi illusioni, quella che promette la vista a chi l’ha persa, il lavoro a chi non ne ha o una bella riforma della tassazione a chi già allegramente evade, e dunque se ne fotte, o chi sarebbe persino lieto di pagare tasse, visto che questo sarebbe il sintomo di una capacità reddituale che non possiede più.
Han cominciato gli ex compagni del PD, con il segretario Bersani in testa, recatosi in visita pastorale proprio tra le rovine di Malpensa per denunciare i misfatti commessi dagli altri e, presumibilmente, per chiedere i consensi che gli consentano di “invertire la rotta”. Analogamente faranno Bossi e i suoi tirapiedi con la faccia di bronzo e siamo certi si inventeranno qualche cialtronata per scaricare tutte le colpe delle inadempienze sugli avversari politici o, quantomeno, sui compagni di cordata.
Nel frattempo si consumerà un’altra farsa spaventosa, che magari rimetterà in sella gli stessi aguzzini di Malpensa e d’Alitalia.

sabato, gennaio 09, 2010

L’infame battaglia di Rosarno

Sabato, 9 gennaio 2010
20 euro per dodici ore di lavoro al giorno, che talvolta salgono persino a quattordici. Questa è la paga incivile riconosciuta in un paese sedicente civile alla manodopera, - ma sarebbe meglio parlare di carne da macello, - proveniente da Zimbawe, il Mianmar, Nord Kivu, Darfur, Costa d’Avorio, Ghana, Sudan e via dicendo, impiegata nei lavori stagionali di raccolta della frutta. Disgraziati sbarcati nel nostro paese con il miraggio di poter cambiare vita, fuggiti dai paesi d’origine per sottrarsi alla fame, alla disperazione, alla violenza delle guerre e delle persecuzioni, attratti dalla speranza di poter trovare lavoro e qualche spicciolo per sostentarsi, oltre che da mandare a casa.
Poi, la sera, dopo una giornata di lavoro massacrante, ammassati a centinaia in porcilaie in cento, duecento, trecento, senz’acqua, servizi igienici e molto poco da metter sotto i denti, dato che con 20 euro ci si compra ben poco per mangiare in maniera decente, dovendo detrarre a questo ricco salario sino a 5 euro al giorno per il trasporto, - anche quello abusivo, - dal ghetto nel quale si trascorre la notte al luogo di lavoro e viceversa.
La maggior parte di loro, accampata in fabbriche dismesse e case rurali diroccate alla periferia di Rosarno, Reggio Calabria, è irregolare, in clandestinità e riceve un salario in nero, che mai potrà essere utilizzato per ottenere la regolarizzazione della loro permanenza in questo lembo di Italia del terzo millennio, dove la guerra feroce tra indigenti natii e diseredati extracomunitari è stata dichiarata ed è ormai un dato di fatto.
La situazione di questa manodopera a Rosarno non è diversa da quella dei tanti immigrati sparsi sul territorio del Belpaese, da Brescia al Piemonte, dalla Campania al Veneto e alla Puglia. Hanno compensato la caduta verticale dei prezzi di parecchi prodotti agricoli con salari da fame, sostituendo la manodopera indigena, non più disposta a prestare il proprio lavoro a condizioni così degradanti. E questa realtà, divenuta ormai una regola nel nostro paese, è da sempre nota alla gente, alle autorità, alla politica, quella politica che in ogni occasione si scaglia con inaudita ferocia contro quest’umanità con richieste di arresto, multe milionarie, espulsioni e rimpatri forzosi.
Adesso i negri, - come elegantemente li chiama Feltri sulla prima pagina del suo quotidiano, - hanno rotto gli indugi e sono scesi in strada per protestare, per chiedere condizioni di vita più umane e dignitose. «Se ci devono far vivere come animali in gabbia, tra i topi e la paura della gente che fuori di qui ci spara pure addosso, perché ci chiamano per raccogliere le arance?»- dice Edward, 27 anni, di Accra, che si elegge a portavoce di quest’esercito di sbandati, - «Si decidano: o serviamo, e allora vorremmo essere trattati un po' meglio e lavorare dignitosamente, oppure ce ne torniamo nei nostri paesi. Qui non ha più senso stare».
Eppure, quantunque quest’umanità così abituata alla miseria e alle privazioni, non abbia mai dato sostanzialmente fastidio, adesso è improvvisamente scesa sul piede di guerra, in rivolta contro i suoi aguzzini sfruttatori e, come purtroppo accade quando la ferocia e la violenza cieca si scatena, contro la gente, che non capisce le ragioni delle proteste, dei blocchi stradali, delle auto bruciate e reagisce persino con le armi da fuoco contro una ribellione di cui non intende accettare le ragioni.
Adesso è cominciata l’opera di bonifica da parte di polizia e carabinieri, che tra arresti isolati e retate organizzate, sta cercando di trasferire rivoltosi certi e presunti nel centro di prima accoglienza di Crotone, per poi procedere al rimpatrio forzoso della maggior parte di loro: giustizia sarà fatta nei confronti di quanti hanno attraversato le frontiere italiane sprovvisti di regolari permessi. Nulla accadrà probabilmente ai danni di coloro che li ha utilizzati, i quali avranno trovato nelle forze dell’ordine un insperato aiuto per chiudere una stagione di rivendicazioni che rischiava di innescare un pericolosissimo precedente.
L’ordine costituito sarà ripristinato e per il resto basterà pazientare un momento in attesa del prossimo carico di carne da macello, nella speranza che arance e clementine nel frattempo non cadano dai rami.