venerdì, agosto 27, 2010

‘O Califfo e le altrui ammucchiate

Venerdì, 27 agosto 2010
«Vecchia politica basata sulle ammucchiate». Questo il commento livido di Silvio Berlusconi al consenso riscontrato dalla lettera di Pier Luigi Bersani inviata a la Repubblica, che ha lanciato una sorta di manifesto politico con il quale il leader del PD ha invitato l’opposizione tutta a valutare l’ipotesi di una nuova alleanza, sulla strada a suo tempo tracciata dall’Ulivo, per battere l’attuale coalizione e dare al Paese un rinnovato scenario di governabilità.
Ma il padre-padrone del PdL, che non si rassegna al fallimento del suo governo e anzi medita piani di vendetta verso il “traditore” Fini e i suoi fuorusciti, da grande esperto della materia ha subito bollato la proposta degli avversari come un’ammucchiata anacronistica. «Anche oggi» - aggiunge il premier - «si può cogliere la fotografia di due situazioni contrapposte: da un lato, il Governo del fare; dall'altro, i politici di professione e i loro giornalisti di riferimento che discutono tra loro di ammucchiate fuori del tempo», che hanno solo l’intento di resuscitare «alleanze dal collante incerto, dai programmi ancora più incerti, dalle prospettive addirittura incertissime».
«Grazie al nostro ingresso in campo» – ha continuato il presidente del consiglio - «gli elettori oramai e definitivamente si sono abituati ad una chiarezza semplificativa che non potrà mai più essere abbandonata: vanno a votare sapendo in anticipo quale sarà il premier per cui indicano la loro preferenza, quale sarà l'alleanza delle forze che costituiranno il governo e sanno soprattutto quale sarà il programma dall'inizio alla fine della legislatura. Tornare indietro da questa conquista non è possibile» - aggiunge - «non si può rivoluzionare la politica facendo marcia indietro dal computer, dagli iPhone e dai BlackBerry all'abbecedario di vecchia scuola».
«La mia è una proposta politica chiara e precisa. La sua, è un'ammucchiata», così Pier Luigi Bersani ha commentato le parole di Berlusconi nel suo intervento alla festa del Pd di Pontelagoscuro nei pressi di Ferrara, non risparmiando critiche puntuali a quella “politica del fare” autocelebrata dal premier, che sino ad oggi, - quantunque nel quadro di una crisi mondiale di vaste proporzioni, - non solo non ha visto provvedimenti concreti a sostegno dell’economia e del lavoro, ma ha fato pesantemente arretrare il Paese nelle valutazioni delle istituti di rating internazionale e nella stima dell’ONU, dell’OCSE e dell’UE per le scellerate iniziative in tema di libertà di stampa e politiche sull’immigrazione.
Nel frattempo, mentre s’è aperto il dibattito sulla proposta di Bersani, continuano gli scontri all’interno del PdL, dove il clima resta teso. I coordinatori del Pdl, Verdini, La Russa e Bondi, hanno annunciato la convocazione dei Finiani che hanno incarichi nel partito, per verificarne l'eventuale incompatibilità. Una scelta che «non aiuta il riavvicinamento», è stato il duro commento degli esponenti di "Futuro e Libertà". Insomma, sembra già incrinarsi la fragile tregua all'interno della maggioranza, nonostante, proprio questa mattina in un messaggio ai Promotori della Libertà, Berlusconi abbia liquidato come un "teatrino" la crisi delle ultime settimane. Alla notizia di questa iniziativa dei Coordinatori nazionali, il capogruppo di Futuro e Libertà, Italo Bocchino, ha ammonito: «Il problema è politico, e riguarda principalmente ed esclusivamente il documento di incompatibilità di Fini con il Pdl. Bisogna dunque ripartire da quel documento e non procedere all'interrogatorio dei singoli, che è una procedura per noi senza senso. Si torni a discutere del nodo politico vero, che è l'espulsione del cofondatore del Pdl, Gianfranco Fini, dal partito che ha contribuito a costruire».
Com’è palese, la questione dell’ammucchiata è in questo momento più un problema della coalizione di governo che non dell’opposizione, dove piuttosto la ricerca di un filo conduttore per abbattere quel che si evidenzia sempre più come un esecutivo comatoso e inconcludente è divenuto il terreno per tracciare una linea d’intesa programmatica alternativa, in grado di far uscire dalla palude dell’immobilismo il Paese e ridare nuovo vigore alle speranze di ripresa economica e sociale.
Le prossime settimane saranno in questo senso decisive per far luce sugli sviluppi probabili di ciò che somiglia sempre più ad uno stallo senza via d’uscita. Sullo sfondo rimane la spada di Damocle delle decisioni della Consulta, che a dicembre dovrebbe sciogliere le riserve sul lodo Alfano e l’immunità temporanea del premier: giungere a quella scadenza con una rinvigorita coalizione, che provveda a varare nuove norme d’impunità, o con l’aperura conseguente della campagna elettorale per Berlusconi non è di secondaria importanza. Una bocciatura del lodo farebbe riaprire a carico del presidente del consiglio il processo Mills, da cui la sua posizione a suo tempo fu stralciata, e correre la competizione elettorale con la macchia di un processo in corso, dagli esiti pressoché scontati, terrorizza Berlusconi, che pertanto vorrebbe liquidare la questione in tempi rapidi con una risaldatura della coalizione ed una nuova iniziativa legislativa che lo tranquillizzi definitivamente.
Questo sarà il vero nodo sul quale dovranno confrontarsi i Coordinatori e i dissidenti di Fini: rientrare nei ranghi accettando di stravolgere i principi costituzionali di giustizia per salvare il leader del PdL?

giovedì, agosto 26, 2010

I servi della gleba del terzo millennio

Giovedì, 26 agosto 2010
Un’idea ci sarebbe per uscire dal tormentone della riforma della giustizia di cui si parla da troppo tempo ma solo per sollevare polemiche d’ogni genere senza arrivare a risultato. E l’idea non è poi tanto peregrina, considerato che oramai le decisioni dei tribunali non sembrano più far testo.
In questo clima di sfascio totale basterebbe trasformare per legge la magistratura in organo consultivo, una sorta di Accademia dei Lincei a cui delegare il rilascio di pareri, ovviamente non vincolanti, su ciò che l’etica dominante ritiene lecito o meno. Se così fosse, con una riforma del genere non avremmo più bisogno di scomodare il Presidente della Repubblica affinché rilasci la sua esortazione al rispetto delle sentenze dei magistrati; il signor Silvio Berlusconi finirebbe di massacrare i marroni agli Italiani con la tiritera sulle persecuzioni cui è soggetto nonostante sia innocente (parola di re!); la Marcegaglia, presidente di Confindustria, non dovrebbe svelare al mondo i panni sporchi, facendo sapere che le quattro nozioni di diritto del lavoro che ostenta sono il frutto di sacrificati studi per corrispondenza presso il CEPU; i Verdini, Dell’Utri, Previti, Bertolaso, Scajola e i tanti specchiati personaggi che ruotano alla greppia del potere e che intasano il lavoro delle procure, riacquisterebbero la credibilità appannata dalla tignosa quanto ostile opera inquirente di quattro terroristi rossi annidati nei palazzi della sedicente giustizia; e così di seguito, lasciando alla fantasia del lettore l’individuazione delle migliaia di inutili indagini e processi che oggi distraggono l’alacre attività di un manipolo di uomini valorosi al servizio del Paese.
Così, finalmente, i tre pezzenti di Melfi, sorpresi a protestare ingiustamente contro i trattamenti riservati loro da quel galantuomo di Marchionne, se ne starebbero definitivamente a casa, invece di spacciarsi per vittime dell’arroganza padronale e del disprezzo per le regole del diritto.
E che con queste rivendicazioni di presunti diritti calpestati i lavoratori abbiano rotto, non v’è più dubbio. Ieri in Puglia ne tiravano le cuoia ancore tre, asfissiati mentre pulivano una cisterna, e s’è riaperta l’antica questione del rispetto delle norme antinfortunistiche nei posti di lavoro, norme che vengono sistematicamente eluse e che provocano alcune migliaia di morti all’anno. Ma si sa, la vita della gente vale poco al cospetto dei risparmi che si realizzano con l’omessa dotazione di degli strumenti di sicurezza e la disapplicazione delle cautele necessarie a prevenire gli infortuni sul lavoro. Lo ha detto anche quella testa fine di Giulio Tremonti, nel maldestro tentativo d’imitare il mitico Cetto La Qualunque, ma con risultati assai modesti: «La 626 è un lusso che non ci possiamo permettere». Come a ribadire che queste leggi e una magistratura che vigila sulla loro applicazione non sono più sopportabili per un paese civile, nel quale il movimento verso il progresso è sistematicamente intralciato da quattro stronzi che reclamano elmetti di sicurezza, guanti protettivi e altre assurde e costose amenità che gravano sui bilanci dei padroni: qualcuno ci lascia le penne?, beh, chi se ne frega, d’altra pare non è possibile interferire nelle scelte del tutto personali di suicidarsi. Anche questa è democrazia, un sintomo inoppugnabile di come i tempi siano talmente maturi perché i cittadini non abbiano più bisogno di qualcuno che dica loro ciò che debbono fare o ciò che sia lecito. Così, chi sia in pena per la propria salute o la personale incolumità, - in altri termini, chi ritiene non sia ancora giunto il suo momento di passare a miglio vita, - si attrezzi portandosi da casa il necessario e, in caso di dimenticanza, non stia a rompere con il supporto dei soliti comunisti.
Il ragionamento non pare faccia una grinza. Peccato che di comunisti in giro non se ne vedano più da un pezzo. Anzi pare che ludoteche e kinder house stiano organizzando per i più piccini, che grazie alla cosiddetta modernità non sono più in grado di distinguere un asino da un cavallo, una sorta di caccia al tesoro con l’obiettivo di individuarne qualcuno. Le scuole per i più abbienti, sembra invece abbiano organizzato visite museali, dove si custodisce ancora qualche reperto, protetto da sofisticati sistemi di sorveglianza.
Certo, dover prendere atto che dei comunisti non v’è più traccia è stato uno shock non indifferente, visto che il signor Berlusconi per anni ha ingannato gli Italiani con questa frottola. Gli stessi operai di Melfi s’erano illusi che, scoppiato il loro caso, schiere di umanità, armate di bandiere rosse e brandendo falci e martelli, avrebbero invaso le piazze per appoggiare la loro causa al canto di “avanti popolo alla riscossa”. Invece non è successo nulla. Un signore distinto sospettato di essere un affiliato alla congregazione rossa, di nome Bersani, intervisto sulla questione, ha tenuto a precisare che il suo colore preferito è il rosa e che comunque essendo i fatti in questione avvenuti in piena stagione feriale non era stato possibile raccogliere dai luoghi di vacanza dove s’erano recati neanche i quattro volontari che, generalmente, si prestano a goliardiche manifestazioni di pseudo-solidarietà, essendo il grosso degli iscritti al PD, - Partito Demagogico, - molto abbottonati e poco inclini a dar spunto al signor Berlusconi e soci per accendere il giradischi e suonare la solita solfa.
In ogni caso, fa trapelare il signor Bersani con il suo comportamento, è bene che i lavoratori si rendano conto che non è più possibile continuare su questa strada: versare incautamente il latte e chiedere a qualcuno di passare lo straccio. Non è più il tempo della solidarietà né delle manifestazioni di piazza, che distrae dall’impegno che richiede la lotta per mantenere la poltrona.
In questo scampolo di fine estate, contrassegnato dalle esilaranti gag regalateci dall’impareggiabile Cavalier Banana, - maestro di soap opere televisive, di giornali, e di dossieraggi, - da Fini e consorte, - ormai in procinto di passare alla Gabetti International, grazie alle loro comprovate esperienze nel settore immobiliare, - e dal sempiterno Bossi, - rimasto in canottiera chiuso in casa per tutta l’estate a sperimentare se tutte le angurie sono verdi fuori e rosse dentro e a farfugliare una straziante litania dal titolo “al voto, al voto”, - ieri abbiamo assistito ad un’esilarante kermesse di fine vacanze, dal titolo tutto un programma I balabiot, farsa in atto unico liberamente tratta da un’opera di Carlo Porta, che ha visto riuniti per l’appunto i guitti più rappresentativi del teatrino al governo. La trama della farsa, - che vedeva la partecipazione speciale di Tremonti, nel ruolo del dottor Mengele, data la sua esperienza in tecniche di pulizia etnica nel settore operaio e nel mondo del lavoro dipendente (tant’è che ormai è quasi scomparso), - e di un certo Calderoli, - già figurante in numerosi cortometraggi, ma promettente attore in ruoli di piromane e d’agente provocatore, - era incentrata sul rifacimento della mitica pièce Aspettando Godot, in cui stavolta però non s’aspettava nessuno, ma doveva decidersi su una questione di casini sì o di casini no, di amletica memoria. Alla fine la farsa, - che si conclude con un tuffo nelle acque del Lago Maggiore dell’intero cast, che approfitta della nudità scanzonata (balabiot) con la quale si presenta in scena, - si chiude con un messaggio di altissimo valore morale: continuiamo così che di casini ne facciamo a iosa e comunque ce ne abbiamo già troppi senza l’aiuto di nessuno.
E nel frattempo, tra una sceneggiata e una rissa, tra una minaccia di ricorso alle urne ed il silenzio dell’opposizione, tra un licenziamento e un nuovo caso di ladrocinio d’un potente, i servi della gleba pagano.

(nella foto, Umberto Bossi, ministro del governo Berlusconi e leader della Lega, mentre accenna al solito signorile e affettuoso cenno di saluto agli Italiani)

domenica, agosto 22, 2010

Fini, il coraggio del pentimento

Domenica, 22 agosto 2010
Il monsone Fini sta determinando nel quadro politico nazionale una situazione del tutto inedita e dai risvolti ancora non del tutto prevedibili, poiché rappresenta il primo scossone vero ad una concezione del governo dello stato assolutistica, personalistica e di pura opportunità che appesta le coscienze degli Italiani ormai da 16 lunghi anni.
Ed è paradossale che lo scossone, che sembra preludere ad un terremoto dagli effetti distruttivi sugli assetti di quella che fu trionfalmente salutata come la Seconda Repubblica, sia stato inferto al regime in atto proprio da una sua componente interna, sostituitasi in quest’opera devastatrice alle forze ignave dell’opposizione ufficiale.
E che il terremoto in atto sia di natura distruttiva è confermato dalle chiare e allo stesso tempi gravi e inequivoche dichiarazioni di coloro che lo hanno messo in onda, non limitate alle piccole schermaglie verbali su questioni marginali, che fanno parte della normale dinamica di contrapposizione delle idee e dei metodi di prassi politica, ma riguardano la natura stessa del berlusconismo, rimettendo in discussione il patto, -“scellerato”, si potrebbe dire oggi, - che ha celebrato appena pochi due anni fa il matrimonio tra gli ex fidanzati AN e Forza Italia. Un matrimonio clamoroso, avvenuto con un colpo di scena pirotecnico, all’insaputa quasi di uno dei due promessi coniugi, con una dichiarazione d’amore perenne fatta da uno spasimante deciso a mettere l’altro davanti al fatto compiuto, dal predellino di un auto al cospetto di migliaia di persone.
Come tutti i matrimoni consumati in fretta e furia, per quanto animati dai migliori propositi dei due amanti, ben presto le incompatibilità caratteriali tra coniugi sono venute alla luce, trasformandosi rapidamente in fratture insanabili sul metodo di governo della casa comune, sino a scivolare in divergenti visioni del mondo.
In questo clima di ménage avvelenato, Fini, minacciato d’esser cacciato da quel ch’era stato il nido d’amore, ha trovato la dignitosa forza di raccogliere frettolosamente la sua roba e andarsene tirandosi dietro la porta, anziché farsela sbattere in faccia, che avrebbe significato subire l’onta di uno sfratto dettato solo dall’ultimo atto in ordine di tempo di un compagno talmente in costante delirio d’onnipotenza da abbandonarsi a continui monologhi dittatoriali, senza lasciare alcuno spazio al dialogo.
Non contento della bravata, quasi per giustificare con il vicinato l’origine di quella rottura eclatante, Berlusconi non ha risparmiato all’ex consorte alcuna accusa, né politica né più prosaica di tradimento, falsità, opportunismo e deliranti annessi. E’ persino arrivato al punto di utilizzare schiere di servitori e quinte colonne per rimbambire il Paese con stupide teorie di improvvise sterzate politiche dell’ex alleato, tese a minare la sua credibilità, - sempre che ne conservi una, - al fine di sostituirlo con un colpo di mano alla guida del partito e del governo. E dove la maldicenza non è bastata, s’è servito dei media di famiglia per insinuare il dubbio che Fini sia più che un fedifrago. Un ipocrita affarista bigotto pronto a censurare i comportamenti altrui, ma incline come tutti a curare gli affaracci propri a vantaggio di parenti e di se stesso.
Davanti a quella che ormai è a tutti gli effetti una disgustosa soap opera dalle puntate interminabili come Beautiful, Fini e il manipolo di dissidenti che ha raccolto hanno rotto gli indugi e, - fatto mai avvenuto prima, - hanno lanciato alla volta dell’ex alleato e dei suoi scagnozzi messaggi chiari in grado di far impallidire qualsiasi intrepido ma non certo il Ciarlatano di Arcore.
Il berlusconismo, l’idea che ha della politica il suo leader, è un mix di «dossieraggio, ricatti, menzogna per distruggere l’avversario, propaganda stupida e intontita, slogan, signorsì e canzoncine ebeti», hanno dichiarato i dissidenti dalle pagine di Fare Futuro, rivista ufficiale dell’omonimo gruppo di riferimento a Gianfranco Fini. «Il senso di colpa per non aver capito prima, per non aver saputo e voluto alzare la testa», è veramente elevato, sebbene «oggi che gli editti toccano da vicino, può sembrare fin troppo facile cambiare idea» e persino che «ha ragione chi dice: perché non ci avete pensato prima?». Infine, ammettono i Finiani, «non c’è una risposta che non contempli un pizzico di vergogna. Un vergogna che, però, non prevede ora il silenzio, il ripetersi di un errore».
Dichiarazioni di questa natura vanno ben oltre la semplice critica rituale, perché implicano il metterci la faccia, un’ammissione di errore che, se pur tardivo, non può prescindere dalla sincera presa d’atto di chi ben ne conosce le conseguenze davanti ai propri elettori. Fini, ciò nonostante, preferisce correre il rischio di sputtanarsi così piuttosto che continuare un rapporto associativo giunto irrimediabilmente al capolinea e che nel lungo termine non avrebbe che potuto dimostrarsi fatale anche per lui: «Chi parla così merita un’apertura di credito: cioè di essere giudicato non da quel che ha fatto ieri, ma da quel che farà domani (specie in tema di libertà d’informazione e legalità)», scrive oggi su Il fatto quotidiano Marco Travaglio, che non può essere certo sospettato di generose simpatie nei confronti di Fini e dell’attuale governo Berlusconi.
Vedremo a settembre cosa succederà, se saranno elezioni come rivendica la Lega per ovvie ragioni di sondaggio, che la vedono favorita in questo processo di disfacimento del centro-destra, e come minaccia il premier, oppure ci sarà un lento riavvicinamento dei Finiani alle posizioni di questa maggioranza comatosa.
Comunque vadano le cose, il voto in primavera sembra fatto scontato, così come sembra ormai scontato il destino di Berlusconi, avviato consapevolmente sul viale del tramonto e per questo alla ricerca di ogni soluzione possibile che gli eviti la temuta ecclissi tragica.

sabato, agosto 21, 2010

Le buffonate di regime sull’eguaglianza

Sabato, 21 agosto 2010
E’ già qualche tempo che le reti televisive di stato inondano regolarmene gli schermi di uno strano messaggio, nel quale compaiono una serie di figuranti che recitano una tiritera a proposito dell’improbabile eguaglianza di tutti i cittadini difronte alla legge, senza distinzione di sesso, religione, razza, lingua, opinioni politiche e condizioni personali e sociali.
A questo messaggio i figuranti aggiungono poi che la è compito della repubblica rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono quest’uguaglianza e limitano la partecipazione dei cittadini alla vita economica e sociale del Paese.
Dopo il comprensibile smarrimento iniziale, ci si rende conto che quel cast è stato assoldato per diffondere la pubblicità di uno degli articoli della nostra Costituzione più disatteso ed equivoco, quasi si trattasse di una confezione di sottilette della cui bontà bisogna convincere la gente o di un dentifricio che promette di sbiancare i denti.
A ben guardarsi in giro ci sono miglia d’esempi che dimostrano come nel Paese reale le differenze tra i cittadini, tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri, tra cattolici e appartenenti ad altre confessioni, tra uomini e donne e così discorrendo sono tali da costituire un vero e proprio scandalo planetario, - se si guarda alla strettissima cerchia degli stati cosiddetti progrediti e civili.
Per quanto possa sembrare manicheo e persino fastidioso, va purtroppo registrato che l’avvento del berlusconismo e della sua cultura della supremazia dell’élite ha inferto un colpo micidiale al processo di traduzione in fatti concreti dei dettami dell’articolo tre della Carta costituzionale. Mai, come l’avvento del Cavaliere si era assistito ad un avvilimento della condizione femminile, sempre più relegata al ruolo d’oggetto per le morbose attenzioni di una schiera massiccia di maschi infoiati. Glutei, cosce, seni e quanto in grado di solleticare le fantasie inconfessabili dei maschi peninsulari abbondano, per non dire strabordano, dagli schermi televisivi e dalle riviste nazionali, con la giustificazione che il senso del pudore nazionale s’è ormai evoluto al punto tale che pochi si scandalizzano al cospetto di una mutanda esibita o di un capezzolo sgusciante casualmente da un decolté.
Ma il punto non è questo. La questione vera è che la donna continua a restare, - ed oggi più che mai, - un oggetto di concupiscenza esasperata, uno strumento per focalizzare l’attenzione, un essere idoneo solo a trasferire piacere, un bene di consumo usa e getta confezionato con un package accattivante. Non a caso lo stesso premier che si circonda di veline, di escort disposte a tutto persino nei festini organizzati per intrattenere ospiti internazionali, usa questi “diversivi sessuali” per consolidare il proprio successo personale e l’accredito del Paese.
Non parliamo poi delle discriminazioni violente alle quali sono sottoposti quanti dissentono dalla politica di regime. I comunisti, i rossi, pur se ormai sono argomento di ricerca paleontologica, ma hanno carme e ossa nella mente malata di Berlusconi e dei suoi seguaci, sono bersaglio di quotidiani attacchi scomposti, guerre senza quartiere d’annientamento al che se non fosse per l’impossibilita di procedere all’annientamento fisico del “nemico” non avrebbero nulla da invidiare allele operazioni di pulizia etnica perpetrate da Milosevic e dai suoi assassini Karadzic, Djukic, Jovan, Mladic, per citare alcuni dei galantuomini della storia recente.
Questi nemici non si combattono con i fucili ma con armi raffinatissime di distruzione fatte di dossier, offese al limite della sconcezza, editti bulgari ed altre leccornie simili, allo scopo di screditarne irrimediabilmente l’immagine e la credibilità, vere è proprie campagne di killeraggio morale.
Non diverso è il discorso sulle condizioni sociali e l’eguaglianza di trattamento davanti alla legge. C’è in questo Paese stomachevole una giustizia che non colpisce i ladri conclamati, i mafiosi ed i loro amici e fiancheggiatori e una giustizia che spedisce in galera il ladro di un cocomero; una giustizia che consente persecuzioni senza tregua verso chi magari non paga il canone alla televisione di regime e lascia del tutto impuniti mazzettisti di regime, aziende che evadono ma nell’orbita del potere dominante; una giustizia che punisce automobilisti che eccedono i limiti di velocità e che chiude entrambi gli occhi sui parlamentari che scorrazzano senza pudore a bordo di lussuosissime automobili messe a disposizione loro con pubblico denaro.
E gli esempi potrebbero continuare all’infinito, a rischio di annoiare chi legge con un elenco di ribalderie quotidiane sotto gli occhi di tutti.
Ma adesso occorre prendere atto di quest’attenzione del regime alle tante ingiustizie che ha radicato nella cultura del Paese, che per ragioni francamente incomprensibili se non sospette, tra un formaggino e un assorbente a tre veli, ha deciso che è giunta l’ora di rimuovere gli ostacoli alla piena eguaglianza dei cittadini.
Certo, basterebbe questo per richiedere la messa in stato d’accusa davanti al popolo di questa classe politica, dato che le agenzie di pubblicità, magari amiche di qualche amico, si saranno arricchite nell’approntare lo short, ma i committenti sanno già molto bene che il messaggio populista alla fine resterà lettera morta come lo è da oltre 60 anni e che il progresso etico di una nazione non è certo mortadella.

mercoledì, agosto 18, 2010

Anche i ricchi piangono

Mercoledì, 18 agosto 2010
Guardarsi allo specchio ed accorgersi di essere un italiano qualunque, dev’essere uno shock tremendo, ma che, a ben vedere, ha i suoi indubbi lati positivi, se non altro perché difficilmente potrà capitare di trovarsi coinvolti uno di quei drammi che, in fondo, fanno concludere che anche i ricchi piangono.
Sì, sarà dura passar la vita a farsi prendere a calci nel fondoschiena da un padrone che ti fa lavorare per quattro miseri soldi, giurando di non poter fare di più perché la crisi ha colpito anche lui. E poco rileva che questa peana te la faccia al telefono dallo yacht rigorosamente preso a noleggio e ancorato a Porto Cervo. Se per caso gli fai qualche battuta in proposito magari ti risponde che, per far contenta la moglie, la solita donna che capisce poco e non vuol sentir ragioni, s’è dovuto indebitare fino alla prossima estate per pagare le rate di quel noleggio, mentre la tua, più comprensiva, si contenta della vacanza mordi e fuggi del fine settimana, con tanto di panino e di spiaggia libera.
Poi pensi alla sfiga di Scajola, che dopo essere riuscito a comprare un modesto appartamentino con anni e anni di duro lavoro e sacrifici, s’è ritrovato a rimetterci pure la carriera per lo stupido scherzo di un burlone che ha raccontato ai quattro venti la storiella di pagamenti fatti per lui, ma a sua insaputa, per consentirgli d’acquistare quell’ambita casetta a prezzo modico. Sicuramente può anche risultare una sfortuna non avere amici così burloni, ma i tre locali popolari con un cesso solo per tutta la famiglia e magari pagati con mutuo trentennale, è più difficile che se li possano portare via, senza parlare della carriera che non c’entra affatto.
E che dire di Dell’Utri? Lui che s’è beccato sette anni in appello per aver semplicemente osservato qualche elementare precetto della chiesa, dar da mangiare agli affamati e vestire gli ignudi. Dell’Utri bibliografo, mecenate, anfitrione, cultore dell’epopea garibaldina, che si ritrova nei guai solo per avere ospitato un eroe di nome Mangano, che a differenza del prode di Nizza, aveva fatto il tragitto al contrario, da Marsala a Quarto, ma mosso dagli stessi nobili propositi, quelli di liberare il Nord del Paese dal tallone di un capitalismo neo-borbonico vorace, egoista, che nulla dà agli indigenti e che tiranneggia i ceti più poveri. Qualcuno potrebbe obiettare che nella spedizione, l’eroe Mangano, s’era portato dietro dei picciotti, ma l’obiezione è priva di significato, dato che fa perno solo su una banale questione terminologica, che nulla ha a che vedere con la grinta e la vocazione al sacrificio di questi intrepidi. La dimostrazione sta nella capacità che ha avuto questo tentativo, - non si sa ancora bene quanto riuscito, - di arruolare schiere di volontari sul posto, chiamati affettuosamente colletti bianchi, per distinguerli dalle camicie rosse dell’impresa precedente. E poi noto che il rosso è un colore che non va più di moda e provoca crisi epilettiche a Berlusconi, che dell’eroe Mangano è stato albergatore, sebbene ignaro degli alti sentimenti che animavano l’insigne ospite.
Ma vogliamo guardare al povero Verdini? Ecco un altro caso di perseguitato a causa della notorietà. Il poveretto, nato con il pallino della filantropia, passa la vita a raccogliere spiccioli per mettere su una banca, il cui scopo è aiutare la povera gente a comprare a rate frigoriferi, televisori, cellulari ed altre componenti essenziali per poterli illudere di condurre una vita dignitosa: cosa c’è di strano se tra questi bisognosi v’era anche qualche amico suo e qualche familiare? V’è forse qualcosa da condannare nel comportamento di colui che dà una mano all’amico? Secondo i vertici di via Nazionale, parrebbe di sì, visto che lì non hanno cuore e lo accusano di aver distratto somme ingenti a vantaggio di persone che non davano garanzia di solvibilità o, - contumelia delle contumelie!, - per affari nei quali era direttamente coinvolto. La tesi di Draghi e soci è di tutta evidenza priva di fondamento logico, ancorché esente da ogni minimo senso etico: ma i soldi si dovrebbero forse dare a chi già li ha?, s’è difeso il filantropo Verdini, e se è doveroso aiutare un amico si deve rifiutare la mano a chi, secondo la becera chiosa di via Nazionale, ha la sola colpa di appartenere alla cerchia familiare di chi tira le fila?
Non c’è più mondo, si potrebbe concludere e questa è la conclusione alla quale dev’essere arrivato il benemerito Bertolaso, sempre pronto a dare una mano, e non solo, con i suoi stacanovisti assistenti a terremotati, alluvionati e vari sinistrati dalla sorte. Lui, pronto anche ad organizzare faraonici eventi per contribuire all’immagine nel mondo di questo popolo di pellegrini, che si ritrova nella polvere per le invidie di chi non è stato invitato all’inaugurazione della Maddalena o al megagalattico centro sportivo e benessere di Roma, dove come il più classico dei guerrieri si concedeva qualche ora di relax nelle mani esperte di tritaossa professionali. S’è gridato allo scandalo per qualche mano caduta casualmente sotto a un camice, come se nel rilassamento si fosse in grado di controllare dove vanno le membra. Ma qualche malalingua ha voluto speculare interrogandosi dove andassero le membra al singolare e lì il discorso s’è fatto peloso, al punto da costringere il Guerriero a chiamare in sua difesa il mitico Bill Clinton, di cui non s’è mai accertato se amasse suonare il sax o piuttosto farlo suonare.
Ultimo in ordine di comparizione c’è adesso Fini, il Gianfrancone già fascista e poi post-fascista, che resosi conto dell’errore fatto a suo tempo nell’essere salito a bordo della limousine dal cui predellino strillava il Cavalier Viagra, stufo di vederlo sempre pimpante e così lontano dal viale del tramonto, ha deciso di sparigliare, esponendosi così alle ire dell’Otelma di Arcore, che gli ha scatenato pitbull ed altra fauna famelica alle costole per farlo sbranare. Come argutamente sono stati ribattezzati i due scriba di casa Berlusconi, i fondi di Littorio Feltri e di Prettypeter, supportati dai latrati di Capezzone, Cicchitto e similari, non lo lasciano in pace, tra storie di Scavolini economiche, comprate a Roma e dirette a Montecarlo, salvo invertire la marcia a Roncobilaccio, cognati furbi con la passione per le case e le belle auto (le Escort, decisamente proletarie, le rastrella dal mercato il Grande Silvio), moglie arrivista transitata persino dall’ufficio del famigerato La Russa (ma la notizia è durata l’éspace d’un matin). E l’interessato che fa? Naturalmente querela tutti, ma non apre bocca, ostentando la pacata sicurezza del cinese seduto sulla sponda del fiume, che sa che il cadavere del suo nemico dovrà presto o tardi transitare portato dalla corrente.
Che Italia triste questa del primo scorcio del terzo millennio. E mentre se ne va un Cossiga e un Bossi straparla di cocomeri e secessione, aspettiamo l’autunno nella speranza che, se s’andrà a votare, ci sia la primavera delle coscienze, che potrà sembrare anche una contraddizione a quanti non siano avvezzi alle tante cose illogiche, che ormai accompagnano la nostra esistenza quotidiana, ma senza la quale continuerà inarrestabile la corsa dentro al tunnel.

giovedì, agosto 12, 2010

Il Paese con l'etica del guano


Giovedì, 12 agosto 2010
Ebbene, occorrerebbe l’onestà intellettuale d’ammettere che se solo leggessimo le notizie che provengono dal giardino d’inverno della politica italiana senza sapere che si parla dell’Italia, convinti che riguardino un altro Paese, con ogni probabilità saremmo colti da una sensazione a metà strada tra il disgusto e il disprezzo. Non esiteremmo a definire quelle vicende l’espressione di un sottosviluppo sociale e culturale, nel quale le bassezze e le volgarità, lo scoopismo scandalistico e pruriginoso, la malversazione sfrontata dei leader, sono il condimento usuale di ogni pietanza politica, il terreno di confronto tra fazioni opposte che considerano la dignità del proprio ruolo e il rispetto per il popolo alla stregua di carta straccia.
Forse sorrideremmo pure amaramente all’idea che nel ventunesimo secolo esistano ancora realtà nelle quali il medio evo dell’etica e della morale è ancora così attuale.
Poi, quando ci rendiamo conto che non si parla di sperduti Paesi africani o di regioni asiatiche ancora ai margini della civiltà, il disgusto si fa rabbia, addirittura furore in qualche caso, visto che l’indegno spettacolo che ci offre quell’avvilente pratica di far politica in realtà grava sulle nostre teste e ci riprende in un’immagine di profondo squallore nei confronti del resto del mondo.
Per carità!, questo non vuol significare che esistano realtà indenni da scandali o malaffare che coinvolgano la politica dominante. La natura umana è tale da escludere l’illusione che da qualche parte vi sia un paradiso nel quale il bene si sia definitivamente affermato sul male, gli onesti siano i soli abitanti di quelle lande e la politica e il potere siano esercitati con spirito stacanovistico e di dedizione per l’esclusivo bene della collettività. Né è necessario scomodare Gesù rammentando il suo monito ai farisei a proposito della prima pietra da brandire contro gli altrui peccati.
Eppure quello che accade in Italia, o meglio la continuità con la quale nel nostro Paese vengono a galla vicende di corruzione, di devianza dalle regole della democrazia, prevalenza dell’interesse personale su quello generale, commistioni d’interessi e d’affari tra lobby non proprio cristalline e potere, il sistematico ricorso all’invettiva contro avversari e oppositori, la conclamata connivenza tra delinquenza organizzata e potere politico e via dicendo, sono sintomi straordinari di una gravissima patologia che non ha pari nel resto del mondo civile e in epoca moderna.
Peraltro, siamo l’unico Paese dichiaratamente di democrazia occidentale, che disperde un’infinità di risorse per restaurare fantasmi paleolitici di anacronistiche tirannie, sotto forma di impunità assoluta dei vertici della politica, di censure alla libertà di parola entrate persino nel mirino dell’ONU, d’imposizione di vergognosi segreti sugli intrallazzi o le perverse pulsioni sessuali che coinvolgono i ras al potere, di norme elettorali che assegnano ai capi partito ruoli di principi indiscussi con potere di nominare a piacimento addomesticati valvassori e valvassini, e di altre indecenze simili di cui sarebbe troppo lunga la lista, con uno spreco di risorse straordinario e senza precedenti.
Nel frattempo il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, dichiara attonito: «E’ un bailamme! », sintetizzando così un quadro politico che, tra risse e insulti, non è in grado di dare la minima risposta alle pressanti e irrisolte questioni del Paese; mentre Luca di Montezemolo, ex presidente della Fiat ed eminente maître à penser del capitalismo nazionale afferma senza appello che «il bilancio della seconda repubblica,» - quella governata da Silvio Berlusconi, - «è fallimentare. Il fallimento è certificato dalle parole di Berlusconi, che dopo quasi dieci anni da presidente del Consiglio si dichiara impossibilitato a governare per colpa delle istituzioni che non è stato capace di riformare». E infine, conclude Montezemolo, commentando il clima da guerra civile instauratosi dopo la fuoruscita forzosa di Fini dal PdL e il velenoso scambio di bordate tra il presidente della Camera e il capo del governo, «questa legislatura si sta chiudendo con un conflitto istituzionale e tra schizzi di fango, senza precedenti».
Quasi a confermare l’aria da basso impero che aleggia a Montecitorio e dintorni, non sono mancate alle affermazioni di Montezemolo le repliche pronte e piccate degli spavaldi giannizzeri di un PdL in piena crisi di nervi, a cominciare dalla nota del sottosegretario ai Beni e alle Attività culturali, Francesco Giro: «A giudicare dalle molte ovvietà scritte o ispirate da Montezemolo, la sua fondazione più che Italia Futura farebbe bene a chiamarsi Italia Qualunque, depressa e disfattista, l'esatto contrario di quello per cui lavora il Pdl e il suo fondatore Berlusconi». Ironica anche la reazione del ministro Rotondi: «Sono giorni che spiego al mio Pdl che sono tutti cascati nella manovra funzionale alla discesa in campo del presidente col ciuffo». «È una bella notizia la presa di posizione di Montezemolo. Speriamo che si decida a sciogliere i residui tentennamenti e compia una chiara e coerente scelta politica. Le idee e neppure i mezzi gli mancano per dimostrare ciò che vuole e, soprattutto, ciò che è capace di fare per il bene del nostro Paese. La democrazia si avvantaggerà di posizioni coraggiose e trasparenti», afferma Sandro Bondi, coordinatore nazionale del Pdl e ministro dei beni culturali. Infine Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl: «A Montezemolo l'ho personalmente detto più volte, tutti hanno diritto a partecipare alla vita politica. Poi però bisogna prendere i voti per contare. Capisco che, a quanto si legge, debba trovare spazio altrove dopo le esperienze imprenditoriali. Avrà tempo e modo per misurarsi. E capirà che è più facile parlare che raccogliere consensi. Intanto si preoccupi della Red Bull e dia una mano ad Alonso», - che equivale a un “faccia il suo mestiere, il signor Montezemolo, e lasci la politica a chi se ne intende,” cioè a noi, - aggiungiamo, - che abbiamo dato un grande esempio di rettitudine e di devozione agli interessi del Paese.
Un bel quadro, non c’è che dire, che apre un barlume di speranza per un’Italia migliore e, finalmente, degna di sedere nel consesso delle nazioni terzomondiste nelle quali l’etica s’è definitivamente persa in un mare maleodorante di interessi di bottega e di faide sordide, salvo poi simulare persino stupore davanti al disgusto della gente.

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mercoledì, agosto 11, 2010

Quando il magistrato rosso fa il guastafeste

Mercoledì, 11 agosto 2010
Adesso qualcuno griderà contro una giustizia che non perde occasione per confermarsi comunista. Una giustizia di parte, che si scaglia a testa bassa contro il potere, sia esso politico che economico, solo per il fatto di rappresentare la parte più forte.
Mentre c’è da attendersi questi commenti, gli operai di Melfi, protervamente licenziati a luglio dalla FIAT, rientrano in fabbrica per decisione del magistrato del lavoro, che ha ritenuto la decisione di Marchionne frutto di un comportamento antisindacale e, dunque, del tutto priva di motivazioni atte a giustificare un provvedimento così grave come il licenziamento.
Ricordiamo che i lavoratori licenziati, - tre, di cui due attivisti sindacali, - erano stati colpiti dal provvedimento di licenziamento perché accusati di sabotaggio, per aver bloccato un carrello sulla linea di montaggio durante uno sciopero. Lo sciopero era stato peraltro proclamato dalla FIOM CGIL per protestare contro gli accordi sottoscritti a Pomigliano, con i quali la FIAT aveva imposto il ricatto di chiusura dello stabilimento campano qualora non fossero state accettate forti e inique revisioni del sistema di indennità di malattia e dei riposi, con il pretesto di attivare norme più severe per combattere l’assenteismo.
L’accordo, sottoscritto da CISL e UIL, ma non dalla CGIL, aveva autorizzato il ministro Sacconi e i falchi di Confindustria, Marcegaglia inclusa, a dichiarare che l’intesa doveva considerarsi una svolta epocale nel sistema della relazioni industriali del Paese, poiché vedeva per la prima volta l’introduzione di meccanismi di coinvolgimento e responsabilizzazione dei lavoratori nel sistema di governo della produttività d’impresa, una responsabilizzazione che consentiva la sopravvivenza di uno stabilimento e la promessa di un rientro di produzione, - quello della Panda, - dalla Polonia all’Italia.
Naturalmente, nessuno degli entusiasti aveva precisato che la mortificazione dei diritti, alcuni costituzionalmente garantiti, non avrebbe prodotto alcun beneficio per i lavoratori, se non la continuità di un’occupazione in condizioni di maggiore frustrazione e di fatica. Ma per quanti hanno della fabbrica una concezione militare, di una caserma nella quale il motto di mussoliniana memoria “credere, obbedire e combattere” non è mai passato di moda, questi rilievi sono stati considerati del tutto privi di fondamento, al punto da attribuire a quanti ne osavano far menzione il classico malanimo eversivo di una sinistra ormai battuta ma sempre pronta a spolverare i vecchi e arrugginiti vessilli di un comunismo di maniera. Analogamente, la stessa sorta è stata riservata a quei benpensanti al di sopra d’ogni sospetto che hanno criticato ciò che in realtà ha costituito solo una forzatura, uno strappo improvvido d’una realtà industriale storica del Paese che ha costruito parte delle proprie fortune grazie anche al sostegno continuativo di incentivi massicci e generosi provvedimenti pubblici. Non va infatti dimenticato che mentre in piena crisi planetaria la FIAT godeva di sostanziosi sostegni produttivi sotto forma di incentivi alla rottamazione, il suo ad Marchionne faceva shopping negli USA con la scusa di dover traguardare all’espansione in un mercato come quello americano per garantire all’azienda un futuro di sviluppo e di continuità: come dire, con i soldi dei cittadini italiani, la FIAT s’è comprata pura la Chrysler e di questo bisognerebbe essergliene grata, così come bisognerebbe mostrare gratitudine quando minaccia di andare in Serbia qualora i lavoratori nostrani si rifiutino di trasformarsi in carne da macello per catena di montaggio a guisa di Indiani, Cinesi o Coreani.
Da qui l’alzata d’ingegno del grande manager Marchionne, convinto che nel clima ormai radicatosi in Italia fosse possibile dare una lezione esemplare a tre straccioni che avevano osato contravvenire ai suoi diktat con uno sciopero di protesta.
D’altra parte, dall’alto di un appannaggio di qualche milione di euro all’anno come si può pretendere che si possa avere senso del limite o del rispetto per le altrui condizioni? Questa sensibilità è persino venuta meno a parecchi sedicenti difensori dei diritti dei lavoratori, sindacalisti di lungo corso, che nell’avallare le decisioni assunte a Pomigliano, hanno creduto di essersi garantiti un futuro da politicanti ben pagati nelle file di quelle componenti politiche che ormai da tempo non puntano che a massacrare le condizioni di vita dei lavoratori per rimpinguare le tasche di altrettanto sedicenti imprenditori, legati al sistema da una tacita intesa di mutuo sostegno. Questo ci dicono la storia della privatizzazione Alitalia e le opere pie messe in piedi da Bertolaso e la sua cricca, giusto per citare le più recenti.
Così, in quest’epoca di ingiustizie assurte a regola, mentre Marchionne e la FIAT vedono per un attimo la loro arroganza stoppata da un giudice di colorazione sospetta, la Mondadori porta a casa un bel risultato a danno del povero contribuente: un risparmio di ben 164 milioni di euro sulla presunta evasione di cui era accusata dai tempi della fusione con l’Amef, grazie alla solita legge ad personam inventa da Silvio Berlusconi, - legge n. 40 del 25 marzo 2010, che ha consentito di estinguere un procedimento pendente con la sola oblazione del 5% del valore contestato.
Si consoli Marchionne, come dice un vecchio adagio per dieci porte che si chiudono c’è sempre un portone che si apre e, presto o tardi, qualche bel presente per fargli scordare l’amarezza dello smacco sicuramente arriverà, tanto i disgraziati a cui presentare il conto aumentano giorno dopo giorno coi tempi che corrono.

(nella foto, l'ad di Fiat, Sergio Marchionne)

martedì, agosto 10, 2010

Parenti ingombranti e colpevolezza preconcetta


Martedì, 10 agosto 2010
Non è ancora dato sapere con certezza se anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, è scivolato sulla classica buccia di banana, - anche se le truppe cammellate del premier Silvio Berlusconi non mostrano alcun dubbio, - o, più semplicemente, le vicende che hanno portato l’ex leader di AN alla ribalta delle cronache sono da considerare le solite strumentali carrellate di guano che si riversano su chiunque osi opporsi o persino dissentire dal pensiero unico del Divo di Arcore.
Resta il fatto che i talebani dell’informazione, Feltri e Belpietro, fiancheggiati da un drappello di manovali del terrorismo mediatico al soldo di quel potente e astioso padrone di buona parte del Paese, che ha invaso le istituzioni e le coscienze, non perdono l’occasione per sparare raffiche alla cieca contro Fini e i suoi fuorusciti.
Certo, al di là delle verità da accertare su una vicenda che probabilmente poco ha di rilevante sul piano penale, ma molto ha da chiarire sul versante squisitamente politico, Fini qualche problema ce l’ha veramente nell’ambito strettamente familiare, dove un ingombrante cognato e una suocera ambiziosa hanno dato a lungo prova di voler profittare della parentela con il presidente della Camera per personale tornaconto.
Sono giorni che la signora Frau, madre di Elisabetta Tulliani, compagna di Gianfranco Fini, viene sistematicamente citata negli articoli di numerosi quotidiani, in quanto - almeno formalmente - socia al 51 per cento della Absolute Television, la società che è riuscita a conquistare contratti in Rai per programmi dall'incerta fortuna ma, a quanto sembra, assai ben remunerati. Soprattutto per merito, - e anche su questo son state scritte pagine e pagine, - di suo figlio Giancarlo. Che non solo è finito con l'andare ad abitare nell'appartamento di Montecarlo che fu di Alleanza Nazionale, ma che pure, negli ultimi tempi, ha attraversato i corridoi dei piani alti della Rai con passo deciso, bussando a molte porte, e sempre sfoggiando un tono risoluto e l'aria di chi pensa di meritare un trattamento di particolare attenzione per il solo fatto di essere il cognato di Gianfranco Fini.
E che il rampollo della famiglia Tulliani, Giancarlo, debba essere un personaggio da prendere con le pinze, sembra assodato, visto che anche Luciano Gaucci, ex compagno di Elisabetta, ne ha dipinto un quadro a tinte forti, di un uomo ambizioso, arrogante, affamato di successo e di potere, sempre pronto a chiedere qualcosa per sé, giusto per ricavare vantaggi dalle frequentazioni dei suoi familiari. Così la vendita della famigerata casa di Montecarlo ad una società off-shore pare segnalata proprio da Giancarlo Tulliani, prima, e il successivo affitto proprio a lui, dopo, sono divenuti il pretesto per il muro di fuoco messo in piedi dagli squadristi berlusconiani.
Certo, a ben guardare e se non fosse per la serietà con la quale deve essere valutata la cosa, che vede un conflitto senza precedenti tra organi istituzionali basato su fatti del tutto personali, la questione potrebbe suscitare un qualche sorriso, dato che l’ex leader di un partito nato sulle ceneri d’un conclamato squadrismo è adesso vittima delle becere pratiche che per anni aveva condiviso, - una formidabile nemesi per l’ex leader di AN.
Ciò, comunque, nulla toglie alla scorrettezza con la quale il cavaliere Silvio Berlusconi punta a disfarsi di un oppositore scomodo e poco disponibile a piegarsi al filosofia del culto della personalità, che costituisce la base dell’indottrinamento del PdL e degli opportunisti che vi pascolano dentro.
Ancora ieri il ministro La Russa, ex camerata confluito nel PdL ed ex gerente di AN dopo la designazione di Fini alla presidenza della Camera, nel prendere le distanze dai fatti accaduti, peraltro durante la sua gestione del partito, ha definito «una tristezza» la vicenda nella quale è coinvolto Fini, omettendo di precisare se tale stato d’animo sia da imputare alla condizione di probabile prostrazione in cui è presumibile debba esser caduto il suo ex presidente di partito o, piuttosto, allo squallido spettacolo offerto dagli ex gerarchi di AN, prontamente balzati sul carro del vincitore Berlusconi, - lui compreso, - e attenti a smarcarsi nella vicenda, timorosi di dover mettere in discussione quella ribalta che grazie al PdL sono riusciti nel frattempo a conquistarsi.
Solleva poi qualche perplessità anche l’atteggiamento di Libero e de Il Giornale, - le armi di distruzione di massa del premier, - che danno in pasto all’opinione pubblica particolari sempre più precisi sulla vicenda, quasi si trattasse di materiale inedito e fortuitamente capitato nelle mani di Feltri e Belpietro. In realtà i due eminenti giornalisti stanno mettendo in pratica gli stessi metodi che per anni hanno condannato alla schiera dei cosiddetti "giustizialisti ad orologeria". Adesso c’è anche una “verità” ad orologeria, usata ad arte di volta in volta per diffamare, accusare, indebolire la credibilità della vittima di turno. Un bell’esempio di correttezza e di stampa libera e indipendente, esente dai condizionamenti del potere.
Appare, inoltre, sconquassata la motivazione con la quale si continuano a reclamare le dimissioni di Fini dalla carica di presidente della Camera, alludendo alle similitudini che intercorrerebbero tra il suo caso e quelli di Scajola o di Brancher. E’ evidente la confusione che si cerca di ingenerare nella pubblica opinione citando i casi dei due ex ministri, dato che almeno al momento non risulta che il melodramma Fini abbia generato un indebito arricchimento all’interessato, né sulla questione Fini abbia mai avanzato l'ipotesi di avvalersi di un eventuale legittimo impedimento in caso di indagini che lo dovessero vedere direttamente inquisito, come ha invece fatto il signor Brancher non appena insediatosi nel suo vacuo incarico di governo per sfuggire al processo nel quale era coinvolto.
Confessiamo di non aver mai nutrito grande simpatia per Fini, sia per le sue posizioni politiche né, tantomeno, per i trasformismi di cui s’è reso protagonista in questi anni, ma per lui proviamo un profondo rispetto, per l’atteggiamento tenuto nel corso di questa vicenda presumibilmente lungi dal potersi considerare prossima alla conclusione. Lo stesso rispetto che in ogni caso merita chiunque sia sfiorato da un sospetto di comportamento illecito o eticamente non corretto, almeno sino a quando gli indizi non divengano prove inconfutabili e documentate.
Saremo sicuramente di una scuola diversa da quella frequentata dai tanti modesti personaggi che bivaccano nelle bettole della politica corrente, ma il rispetto dell’altrui dignità e dell’innocenza presunta è un bene che va difeso ad ogni costo sino a prova contraria, senza distinzione di sesso, religione e fede politica. Ma probabilmente questi sono principi che non vengono insegnati al CEPU, accademia formativa della politica corrente.

venerdì, agosto 06, 2010

L’agonia del caimano

Venerdì, 6 agosto 2010
Comunque si giri la frittata, una cosa è certa in modo inoppugnabile: il cavaliere Silvio Berlusconi, e con lui il berlusconismo, è ormai sulla strada del tramonto definitivo, battuto, o meglio abbattuto, da quell’alleato dal quale mai forse si sarebbe atteso uno smarcamento così plateale e tumultuoso. Ma contrariamente a quanto potrebbe concludersi sull’onda plagiante di una stampa di regime, interpretata dai due scendiletto di carta del tronfio personaggio, Il Giornale e Libero, e dai megafoni prezzolati dei suoi cortigiani, il suo declino non è certo da attribuire alle pugnalate alle spalle di Fini e dei suoi dissidenti, - una colorita riedizione delle fatidiche idi di marzo, - quanto al totale fallimento della sua maniera di interpretare la politica e l’amministrazione della cosa pubblica, troppo spesso confuse con la rigida disciplina aziendale nella quale il padrone decide a proprio piacimento, perché rischia i suoi dané e s’avvale del protervo e spocchioso ghe pensi mi.
Governare una nazione non equivale a dirigere un’impresa, e il Consiglio dei Ministri non è un consiglio d’amministrazione all’interno del quale si può decidere con autoritaria disinvoltura di liberarsi di collaboratori scomodi o sgraditi. L’errore di Berlusconi, - se mai sia possibile ridurre ad unico fattore le centinai di corbellerie perpetrate dal personaggio, - è l’aver interpretato lo stato come una caserma, con tanto di generali e sergenti a cui distribuire ordini perentori, senza dialogo e senza lasciare alcuno spazio a quel virtuoso contraddittorio dal quale si genera il consenso. Una caserma vecchio stampo, nella quale un capo tirannico ha imposto linee d’azione scriteriate e opportunistiche, nella convinzione che la fama e l’ammirazione guadagnatasi nella vita civile fossero un valido passaporto per consentirgli di mutuare analogo successo indossando una consunta divisa da gerarca.
Il Cavaliere è caduto da solo, sotto i maldestri colpi sparati alla cieca contro chiunque abbia inteso mettere in discussione la sua concezione dello stato fatta di soperchierie, spadroneggiamenti, connivenze non sempre cristalline, abusi di ogni genere alla legalità per eludere la giustizia, insulti volgari al dissenso e altre ribaldaggini simili, nei panni del tirannello narciso non più in voga
Invano continua a far suonare il disco rotto dell’autoincensamento, rammentando agli Italiani, - che evidentemente considera meno che idioti, - che il suo è stato il «governo del fare», quello che «non ha messo le mani nelle tasche dei cittadini», come se inchiodare un intero parlamento per discutere di legittimo impedimento, processo breve e altre amenità simili possa costituire prova di un agire per il bene della collettività e non sia, piuttosto, la chiara evidenza di una sordida lotta per mettersi al riparo dai numerosi processi cui implacabilmente sarebbe sottoposto qualunque signor Rossi per uno qualsiasi dei reati di cui lui è accusato.
E se la squallida operazione Alitalia o le decine di ruberie perpetrate dai suoi fedelissimi con tangenti e mazzette non rappresentano un modo per mettere le mani nel portafoglio dei cittadini, dato che l'onere viene forzosamente addossato al contribuente, allora è proprio vero che gli asini volano o che le leggi di gravità sono pure teorie.
La verità è che il nostro personaggio non è uno sprovveduto, uno che alla fine di una tentata esperienza s’è visto perdente per fatalità o tradimento di coloro sui quali faceva maggior conto, ma è un furbone di tre cotte, che, conscio della gravità delle cose di cui è accusato e dei pericoli derivanti da un’eventuale condanna per quelle accuse, s’è messo in politica solo per avvalersi della vergognosa immunità di cui godono coloro che arraffano uno scranno e, per fugare ogni rischio, ha messo in croce l’intero Paese, nel tentativo di farsi riconoscere leggi ad personam che lo mettessero definitivamente al riparo da ogni pericolo.
Si faccia caso all’ultima sortita sulla questione dell’eventuale ricorso alle urne: prima del 14 dicembre prossimo, cioè prima che la Consulta si pronunci contro la vergognosa legge sul legittimo impedimento dichiarandone l’illegittimità. L’eventuale ritorno alle urne vanificherebbe quella sentenza e rimetterebbe in moto nel nuovo parlamento la giostra dell’immunità e quella dello studio di qualche nuovo provvedimento, teso a garantirgli quell’impunità che spasmodicamente cerca da sempre.
Nel frattempo e com’è consuetudine, le armate dei lacchè del Cavaliere si sono scatenate contro Fini e i suoi, preoccupate del calo di consensi che inevitabilmente produrrà la fuoruscita dell’ex leader di AN e cofondatore del PdL al partito e, con esemplare correttezza, accusatori dell’altrui giustizialismo ad orologeria, hanno iniziato una vergognosa campagna di denigrazione a puntate, tesa a screditare l’immagine del presidente della Camera.
E’ questo un ulteriore indicatore di quanto la cricca che s’annida al vertice del PdL abbia accusato il colpo e tenti di parare gli effetti della disaffezione montante dell'elettorato, che non sopporta più che le cronache politiche siano costantemente invase dalle squallide storie di sesso del suo leader o delle meschine vicende di giudiziarie di Scajola, Verdini, Dell’Utri, Caliendo, Cosentino, Brancher, Bertolaso e tante altre mezze tacche che gravitano alla greppia di Arcore, e che nessuno faccia invece qualcosa di concreto per il lavoro e l’occupazione.
Quando due anni or sono le urne sfornarono il nefasto risultato della vittoria berlusconiana fummo amaramente convinti che, tutto sommato, quel risultato alla lunga sarebbe stato motivo di grande disappunto per quanti scioccamente avevano votato l’Illusionista di Arcore, pur se i disastri che con quella scelta si sarebbero prodotti avrebbero finito per coinvolgere anche quanti s’erano espressi diversamente. I fatti ci hanno dato ragione, ma nel prendere atto della giustezza della previsione non c’è da rallegrarsi, non fosse che per il costo che la collettività tutta sta sopportando da quella sciagurata vittoria e per la consapevolezza che, cessato il vento della follia, occorreranno moltissimi anni perché il Paese possa riacquistare una fisionomia di normalità e si faccia definitiva pulizia del malessere sociale ormai profondamente radicato.

mercoledì, agosto 04, 2010

I cattolici contro l’indecenza della politica berlusconiana


Mercoledì, 4 agosto 2010
Adesso se n’è accorto anche il settimanale cattolico Famiglia Cristiana, che denuncia «il disastro etico è ormai sotto gli occhi di tutti», riferendosi agli organi di governo, - ministri, sottosegretari, responsabili di istituzioni e aziende di stato, - che costituiscono la struttura portante del berlusconismo.
Eppure, il fenomeno sicuramente planetario, ma che in Italia ha trovato un terreno di coltura assai fecondo, costituisce uno degli impegni sbandierati da oltre un trentennio da tutti i governi che si sono succeduti alla guida del Paese e uno dei punti principali nel manifesto di ogni i partito politico, persino da quelli che della corruzione, degli strumenti tangentizi e del malaffare hanno fatto un metodo di sopravvivenza politica e di manipolazione dell’opinione pubblica.
Chi potrebbe affermare di non aver sentito sulla bocca di uno dei leader politici presenti e passati giurare sull’impegno per una lotta serrata contro le mazzette e l’evasione, che sono poi madre e figlie del disastro etico di cui anche gli ambienti vicini alla chiesa oggi denunciano la presenza velenosa? «Nel nostro Paese, in un anno, l’evasione fiscale sottrae all’erario 156 miliardi di euro, le mafie fatturano da 120 a 140 miliardi e la corruzione brucia altri 50 miliardi, se non di più», denuncia Famiglia Cristiana, che aggiunge: «Quel che stupisce è la rassegnazione generale. La mancata indignazione della gente comune. Un sintomo da non trascurare. Vuol dire che il male non riguarda solo il ceto politico. Ha tracimato, colpendo l’intera società. Prevale la “morale fai da te”: è bene solo quello che conviene a me, al mio gruppo, ai miei affiliati. Il “bene comune” è uscito di scena, espressione ormai desueta. La stessa verità oggettiva è piegata a criteri di utilità, interessi e convenienza».
E non è un caso che questa tragica presa di coscienza, pur sempre tardiva, arrivi oggi, nell’era del governo Berlusconi, che nei due anni di guida del Paese ha avuto un numero straordinario di inquisiti, - Scajola, Dell’Utri, Cosentino, Verdini, Bertolaso e la cricca, Brancher, il premier medesimo e quel Caliendo del quale in queste ore si sta consumando il dibattito parlamentare per l’eventuale sfiducia, - nonostante all’esordio della sua esperienza avesse firmato un impegno di programma contenente impegni precisi nella lotta per la moralizzazione della politica e del sistema di governo della cosa pubblica. Non è un caso perché Berlusconi e i suoi sodali hanno dato un’immagine di sé e del Paese come peggio non s’era mai visto dalla fondazione della Repubblica e le ragioni sono presto dette: «Se è vero,» - incalza Famiglia Cristiana, - «come ha detto il presidente del Senato Renato Schifani, che “la legalità è un imperativo categorico per tutti, e in primo luogo per i politici, e nessuno ha l’esclusiva”, è altrettanto indubbio che c’è, anche ad alti livelli, un’allergia alla legalità e al rispetto delle norme democratiche che regolano la convivenza civile. Lo sbandierato garantismo, soprattutto a favore dei potenti, è troppo spesso pretesa di impunità totale. Nonostante la gravità delle imputazioni. L’appello alla legittimazione del voto popolare non è lasciapassare all’illegalità. Ci si accanisce, invece, contro chi invoca più rispetto delle regole e degli interessi generali».
La prova di quanto l’analisi tracciata dal settimanale cattolico sia la tragica istantanea del nostro tempo è dimostrata dalla feroce guerra scoppiata in casa PdL, conclusasi con l’incredibile cacciata di Gianfranco Fini, presidente della Camera, e dei suoi più stretti collaboratori, accusati di tradimento e di lavorare contro il governo che avevano contribuito a formare solo per aver reclamato il ripristino di una legalità sempre più minata all’interno del partito di maggioranza. Le stesse reazioni di Berlusconi, non solo e non tanto alle denunce finiane, quanto ad ogni manifestazione di dissenso, consentono a Famiglia Cristiana di concludere: «Una concezione padronale dello Stato ha ridotto ministri e politici in “servitori”. Semplici esecutori dei voleri del capo. Quali che siano. Poco importa che il Paese vada allo sfascio. Non si ammettono repliche al pensiero unico. E guai a chi osa sfidare il “dominus” assoluto», - dove il riferimento al capo del governo ed alla sua personale situazione di debito con la giustizia non potrebbe essere più esplicito.
Infine, conclude il giornale cattolico: «Che ne sarà del Paese, dopo la rottura avvenuta tra Berlusconi e Fini? La scossa sarà salutare solo se si tornerà a fare “vera” politica. Quella, cioè, che ha a cuore i concreti problemi delle famiglie: dalla disoccupazione giovanile alla crescente povertà. Bisogna avere l’umiltà e la pazienza di ricominciare. Magari con uomini nuovi, di indiscusso prestigio personale e morale. Soprattutto se si aspira alle più alte cariche dello Stato. Giustamente, i vescovi parlano di ”emergenza educativa”. Preoccupati, tra l’altro, dalla difficoltà di trasmettere alle nuove generazioni valori, comportamenti e stili di vita eticamente fondati».
Ma ciò che resta drammatico è il silenzio della gente, quella che sotto l’onda dell’entusiasmo per le promesse aveva espresso la propria preferenza per questo governo ed oggi subisce le conseguenze di uno sfascio passivamente e sfiduciata, quasi avesse definitivamente perso la speranza che esista una via per uscire da una spirale di malaffare e di aggiogamento senza fine.