lunedì, giugno 27, 2011

Così muoiono i rappresentanti de “l’Italia peggiore”

Giovedì, 27 giugno 2011
«Di precariato si vive male, anzi si può anche morire». Queste le parole del presidente del Consiglio regionale dell’Ordine dei Giornalisti pugliesi, Onofrio Introna, con le quali è intervenuto ai funerali di Pierpaolo Faggiano, giornalista pubblicista collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno, morto suicida ad appena quarant’anni compiuti perché incapace di tollerare ulteriormente la propria condizione di precario di lungo corso, con famiglia a carico.
Il caso di Faggiano è forse un esempio estremo di rifiuto di condizione di vita apparentemente inimmaginabili in un paese civile, in un paese che si picca di sedere tra le più importanti potenze economiche mondiali. Ma è, allo stesso tempo, la spia drammatica di come il fenomeno diffuso del precariato possa indurre a tragiche conclusioni una generazione di disperati abbandonati ad un destino senza futuro, di marginalizzazione spaventosa, a condizioni d’esistenza prive di dignità e di significato.
Questi sono i risultati del tanto declamato Decreto legislativo n. 30 del febbraio 2003, con il quale in ossequio ad un annosa reclamata flessibilità del mercato del lavoro furono introdotte anche in Italia un pacchetto di norme innovative che nelle intenzioni, ma solo in quelle, avrebbero dovuto favorire l’ingresso al lavoro di tanti giovani, vittime del mercato nero dell’occupazione o impossibilitati a collocarsi nel mondo produttivo a causa degli alti costi del lavoro non compensati da un’immediata capacità di performance produttiva.
Come è triste costume italiano, in breve il provvedimento è divenuto una formidabile escamotage per reclutare a tempo forze fresche a livelli retributivi più bassi rispetto a quanto stabilito dalla manodopera inquadrata a tempo indeterminato e senza alcun vincolo di legge per la loro dismissione. E il provvedimento, piovuto come una manna inaspettata per un tessuto produttivo storicamente incline allo sfruttamento esasperato del lavoro, ha avuto una diffusione tale da generare un esercito di disgraziati che alla fine del 2006, secondo i dati ISTAT, contava quasi quattro milioni di anime tra precari in attività e disoccupati già con un’esperienza di lavoro a termine.
Un esercito che, com’era facilmente prevedibile, è stato il primo a pagare il prezzo della crisi economica che ha colpito il pianeta tra il 2007 e il 2008 e che è tutt’ora in corso. Un esercito che è stato falcidiato senza pietà dalla necessità delle aziende di ridurre i costi a fronte di una crisi dei mercati e di un crollo verticale dei consumi, che hanno imposto fortissime contrazioni alla produzione di beni e servizi e, quindi, un taglio spietato degli organici.
Ma se ciò è storia attuale nota a tutti, considerato che il ricorso al precariato, a questa bengodi dello sfruttamento disumano, ha coinvolto tutti i settori produttivi, dalla pubblica amministrazione al privato, dall’industria ai servizi, è altrettanto storia attuale la politica di disinteresse con la quale i governi di sinistra e di destra che si sono succeduti da quel maledetto 2003 hanno affrontato la questione o hanno inteso porre rimedio ad una tragedia generazionale dalle dimensioni bibliche. Le grida di dolore di una generazione uccisa nella speranza con ferocia senza precedenti sono rimaste inascoltate e così oggi il Paese si ritrova con un tessuto sociale fatto di quarantenni e cinquantenni alla disperata ricerca di un espediente che consenta loro di sopravvivere. In un epoca peraltro contrassegnata dalla globalizzazione dei mercati, che impone alla permanenza nel mondo sviluppato l’esigenza di ripristinare termini di rigore e buon governo dei conti economici, a cominciare dalla spesa pubblica. Da qui una rarefazione delle risorse disponibili per dare nel breve termine un contributo significativo al rilancio dell’economia e, dunque, un impulso alle imprese a reinvestire e a ripartire con uno sviluppo dell’occupazione.
E’ una situazione drammatica, in apparenza senza via d’uscita, ma che non giustifica per questo sortite come «siete l’esempio dell’Italia peggiore» o che la nostra è l’Italia dei «bamboccioni», espressioni a dir poco volgari proferite per bocca di ministri indegni, che ritengono che la rimozione dei problemi vada fatta con l’invettiva a danno dei diseredati e non con opportuni provvedimenti che servano a rimuovere le cause di un fenomeno di per sé inaccettabile. Illudersi di rimuovere la polvere asfissiante sollevando un lembo del tappeto e nascondervela sotto è utile solo a perpetuare malsane condizioni di vita. E se queste malsane condizioni di vita derivano da uno stato di disoccupazione diffuso o da una precarietà selvaggia dell’esistenza, allora si stanno sottovalutando i rischi di una vera e propria rivoluzione sociale che presto o tardi esploderà e travolgerà nella violenza la comunità intera, provocando danni persino più incalcolabili di quelli prodotti da una proterva marginalizzazione sociale nella quale si sono costretti per anni migliaia di individui.
Né può sottovalutarsi che la caduta del governo delle sinistre è stata causata anche dal malcontento montante di fette di popolazione disillusa da politiche evanescenti di quella compagine in ordine ai problemi dello stato sociale, della politica dei redditi, dei provvedimenti sulle pensioni, delle iniziative a favore del mondo del lavoro. Grosse fette di elettorato si sono spostate a destra nell’illusione che Berlusconi, - immagine di un successo imprenditoriale senza precedenti, - fosse in grado di trasferire al Paese quel benessere di cui era portatore, negato loro da Prodi e compagni.
Le disillusioni che invece ne sono derivate sono questa volta maggiormente foriere di uno sconvolgimento che, così continuando, non potrà fermarsi ad un semplice ricapovolgimento di fronte: son venuti meno una parte e l’altra, destra e sinistra, quali punti di riferimento credibili e alternativi. E pensare di scalzare gli avversari con banali e rinnovate promesse non è più sufficiente per scongiurare un movimento di popolo che, trovato l’innesco giusto, sarà difficilissimo fermare.
«E' indispensabile»– ha esortato Introna a margine della tragedia che ha colpito Faggiano, uno dei tanti diseredati di una realtà non certo disposta a togliersi di mezzo come lui con un atto estremo - «che le Istituzioni si facciano carico nel loro complesso di interventi che possano determinare condizioni di occupazione certa e dignitosa per i giovani, all'altezza dell'impegno che la società ha chiesto loro per qualificarsi e laurearsi».
E’ facile per quanto ottuso rammentare che per guadagnarsi uno stipendio esistono lavori come quello di scaricare casse di frutta ai mercati generali, - come hanno ricordato Brunetta o Stracquadanio, - quantunque anche queste siano occupazioni oneste verso le quali è dovuto il giusto rispetto. Ma i saccenti moralisti in questione, - ai quali viene spontaneo chiedere il buon esempio, visto che nei rispettivi ruoli non sembrano troneggiare, - dovrebbero forse rammentare con un pizzico d’umiltà smarrita che è facile sparare idiozie stando comodamente seduti su poltrone che rendono ventimila euro al mese solo per vomitare acide stronzate.

(nella foto, il giornalista precario Pierpaolo Faggiano)

lunedì, giugno 20, 2011

Il cavallo bolso di Cassano Magnago

Lunedì, 20 giugno 2011
E’ un atto d’accusa, un atto d’accusa pubblico quello che Umberto Bossi sciorina a Pontida davanti ad una folla da grande evento, convenuta per esprimere tutto il malcontento, la rabbia per un movimento che sembra sempre più ingessato e in ostaggio al cavaliere Silvio Berlusconi e alle sue trame di palazzo. Un atto d’accusa per una politica più da infamia che da lode, che ha visto la Lega perdere insieme all’alleato PdL le amministrative, prima, ed i referendum, dopo, e che rischia adesso di perdere pezzi importanti della propria base elettorale, indispettita e delusa per l’infruttuoso coinvolgimento del partito in un’avventura di governo poco proficua se non addirittura negativa.
Ma nello sciorinare l’atto d’accusa, le sue invettive colorite e le minacce allo stesso Silvio, Bossi forse non si rende conto di effettuare una confessione impietosa dei propri insuccessi, del modo suicida con il quale ha condotto il partito nell’ultimo triennio, suicidio di cui non può che ritenersi che il principale artefice.
L’errore è stato quello di non staccare la spina ad una coalizione visibilmente incapace di creare le condizioni per uno sviluppo del Paese, incapace di evitare che il Nord fosse travolto dalla disfatta dell’economia, dalla crisi della piccola impresa e dell’artigianato, da quel baratro in cui è precipitato il nerbo della base leghista a causa delle scelte, - ma sarebbe il caso di parlare di “non scelte”, - di un governo esasperatamente concentrato a studiare le strade per l’impunità del suo leader e che, adesso sconfitto, brancola nel buio per trovare una soluzione possibile che eviti il ricorso alle urne e il sigillo al definitivo azzeramento di ogni ambizione padana.
Questo tragico epilogo è chiaramente presente a Umberto Bossi che arringa il suo popolo con un o si cambia oppure ognuno per sé, certo non immediato perché «Se facciamo cadere Berlusconi si va a votare, e questo è un momento favorevole per la sinistra». E il diluvio di fischi che accompagna quest’affermazione, accompagnato dal grido «secessione» è la spia evidente del massiccio malumore che serpeggia sul prato di Pontida contro lo stato maggiore leghista, anche se il furbo Umberto finge di non capire e sposta quella contestazione all’indirizzo dell’alleato: «Si può fischiare, è quasi fatale che la gente a un certo punto voglia cambiare; il governo di errori ne ha fatti», ma la Lega è ancora una compagine unita e determinata, a dispetto di quanto scrivono i «giornalisti stronzi». Sul punto interverrà anche Roberto Maroni, da tanti acclamato come il futuro presidente del consiglio, che nel riprendere il filo di questo ragionamento citerà la magistratura come uno dei poteri che lavorano per screditare la Lega: «Sui clandestini», - uno dei cavalli di battaglia del Carroccio, - «i giudici ci sono contro», dice Maroni, dichiarazione cui seguirà pronta la replica dell’ANM: «Provvedimenti sbagliati, che non sono stati fatti da noi».
Né mancano i riferimenti alle ultime trovate di un partito in visibile crisi d’identità ed alla ricerca spasmodica di qualche nuovo tema su cui catalizzare la rabbia dei lumbard. I ministeri al Nord, quel trasferimento di potere da Roma ladrona a Milano giusto per dare un senso al concetto di federalismo e di decentramento, - sebbene mai sia stato spiegato attraverso quale meccanismo che eviti i prevedibili maggiori oneri per la spesa pubblica dovrebbe attuarsi un’operazione del genere. «Berlusconi aveva già firmato il documento per trasferirli», - dichiara Bossi, - «poi si è cagato sotto», - sintetizzando con queste colorite affermazioni la fortissima contestazione scoppiata in casa PdL per voce di Alemanno, Polverini e Cicchitto al progetto.
E allora? Un percorso senza via d’uscita. Una condanna a continuare a governare con il socio scomodo nella speranza che accada qualcosa in grado di ribaltare la situazione e ridare alla Lega quell’appeal che sembra aver perso per il momento, possibilmente con l’avvio di quella preannunciata riforma fiscale, che riveda la tassazione a carico dei cittadini e di cui Bossi e soci potrebbero rivendicare una quota di paternità. Senza un’azione concreta, d’altra parte, sperare di riacquisire i consensi con le tante blaterate promesse di riforma costituzionale del numero dei parlamentari e del senato federale, con lo stop alle missioni militari, con la riduzione se non con la soppressione delle auto blu o con la revisione dei vincoli del patto di stabilità per i comuni che si sono dimostrati virtuosi, appare assai arduo, non fosse per le complicazioni procedurali che implicano le riforme costituzionali, i vincoli di carattere internazionale che condizionano la revisione degli impegni militari all’estero e l’esiguità del virtuosismo amministrativo, limitato a poche realtà comunali.
V’è infine un altro problema, non ciato da Bossi, ma estremamente presente nella lista delle priorità di cui tener conto. E’ la questione della revisione della legge elettorale, difesa sino a ieri per evidenti ragioni d’opportunismo da Silvio Berlusconi e non più gradita anche alla Lega, a maggior ragione nell’ipotesi in cui con il ricorso al voto il premio di maggioranza vada a qualche partito oggi all’opposizione, a danno del Carroccio.
Così al governo vengono concessi ancora sei mesi di vita. Sei mesi entro i quali qualcosa dovrà irrimediabilmente accadere se non per riprendere vigore almeno per limitare i danni. Dopo di che, almeno di miracoli, voltare pagine con il ricorso al giudizio dell’elettorato.
In buona sostanza, un discorso fiacco, sotto tono, quasi disperato in qualche passaggio, che la dice lunga su come la capacità di trascinare e motivare dell’attuale leadership della Lega sia in plateale crisi.
E che questa crisi non sia solo della leadership, ma attraversi ancor più profondamente l’intera struttura anatomica dei figliocci di Alberto da Giussano si può cogliere anche dalle incaute parole a ruota libera raccolte sul prato di Pontida: «Non si dimentichi mai lo spirito di ribellione che portò alla cinque giornate di Milano. Il popolo potrebbe ancora una volta averne abbastanza e ricorrere a quelle forme di lotta», afferma tanto improbabilmente minaccioso quanto convinto uno dei tanti delusi, dimenticando però che proprio a Milano qualche giorno fa il suo partito ha preso un dolorosissimo calcio nel deretano.

giovedì, giugno 16, 2011

Brunetta & Stracquadanio: il guano della politica

Giovedì, 16 giugno 2011
«Siete l’Italia peggiore» e «Il blocco sociale dei quattro milioni di dipendenti pubblici è più forte di noi: certo che la sinistra vince sul web, non fanno un cazzo. Se proprio lavorano, alle due del pomeriggio sono fuori».
Queste sono le affermazioni rispettivamente di Renato Brunetta, indegno ministro della Repubblica alla volta dei precari, di quell’esercito di disperati, sfruttato e senza futuro, che contraddistingue l’Italia del terzo millennio, e di Giorgio Clelio Stracquadanio, consulente del ministro della Pubblica Istruzione, Maria Stella Gelmini, passato alla storia recente per la sua celebrazione del “metodo Boffo” come sistema di lotta politica, entrambi rappresentanti non secondari del centro-destra al governo dell’Italia.
I due, che non sono personaggi isolati nel serraglio PdL, hanno una concezione della politica non come servizio ai cittadini, non come servizio per la realizzazione di condizioni migliori di vita per coloro che rappresentano, ma un’idea di occupazione di una posizione di potere dall’alto della quale è possibile sbeffeggiare, offendere e persino sputare su coloro che in qualche misura contribuiscono al loro parassitario mantenimento in un incarico parlamentare che non meritano e che contribuiscono con la loro volgare presenza a rendere giorno dopo giorno un’offesa alla dignità umana.
E paradossale che uno come Renato Brunetta, 19.500 euro mensili, cellulare, tessera cinema, teatro, mezzi pubblici e pedaggi autostradali, francobolli, ferrovie ed aerei, auto blu con autista, rigorosamente gratis, si permetta di svillaneggiare chi, peraltro senza aver fatto alcunché per sollevare la sua miserabile reazione offensiva, ha solo chiesto la parola nel corso di un convegno nel quale era invitato, presentandosi come un precario.
Parimenti il paladino del bon ton Stracquadanio, che da altro palco s’è sentito autorizzato a vomitare il consueto carico di fango che la sua meschinità gli fa generare in quantità simile ai rifiuti di Napoli nei confronti dei pubblici dipendenti. Pubblici dipendenti che a suo giudizio «non fanno un cazzo e smanettano sulla rete quando tornano a casa, sempre che non lo facciano anche sul lavoro». Proprio lui si permette di giungere a queste conclusioni, lui che è dipendente in servizio permanente effettivo di un parlamento che lavora dal martedì al giovedì, quando va bene, per uno stipendio da fame come quello che abbiamo denunciato porta a casa il suo degno compare Brunetta.
E la cosa preoccupante è che queste voci, queste considerazioni inqualificabili di squallido e violento oltraggio a chi non ha un lavoro o chi un lavoro ce l’ha, ma lo svolge per un tozzo di pane avvelenato, non sono le sole. Sono semmai quelle che emergono senza reticenza dalla cloaca di Montecitorio, quella fogna nella quale in nome del popolo si annidano parassiti intenti a gozzovigliare e a vomitar veleno sui cittadini che soffrono, che protestano o che, stanchi del fetore putrido che dai palazzi del potere si sprigiona, tentano con il voto di far capire che ora di finirla, è il momento di dire basta a questa infezione mortale che ha spaccato il Paese e che sta generando disperazione e odio.
Naturalmente i due geni della politica nonché prototipi di diplomazia e buone maniere non si fanno neanche sfiorare dal sospetto che il vento sia cambiato a causa della manifesta incapacità della fazione politica cui appartengono di dare risposte concrete allo sconfortante esercito dei senza futuro o a quei pubblici dipendenti considerati a torto l’origine di ogni disgrazia della finanza pubblica. E se quest’umanità ha oggi girato le spalle al centro-destra è perché ogni speranza è stata tradita, non certo perché si siano creati spontaneamente circoli di presunti "fancazzisti" o di sedicenti precari.
E’ vero, cretini si nasce e contro l’idiozia congenita non c’è cura medica possibile. La maleducazione e il disprezzo per il prossimo, invece, sono difetti gravi che si acquisiscono nel corso dell’esistenza, ma che a differenza dei deficit precedenti sono suscettibili di correzione. E il punto è proprio questo. Capire se i personaggi di cui si parla sono portatori di un deficit congenito o abbiano sviluppato qualche tara a causa delle loro esperienze e delle frequentazioni. Nel primo caso sarebbero irrecuperabili e sarebbe il opportuno che la politica, per la sua immagine e per la sua sopravvivenza, se ne liberasse al più presto: sarebbero casi senza speranza, meritevoli solo di compatimento. Nel secondo caso è sperabile che una buona dose di calcioni là dove non batte il sole, come cura correttiva, potrebbe consentire ai personaggi in questione di darsi una regolata e rientrare nei ranghi di quel consesso umano cui si dichiarano appartenenti, - anche se l'impresa appare ardua.
Certo è, in entrambi i casi, che una spazzatura di tale portata non s’era mai vista in quasi settant’anni di vita repubblicana. Sorge il sospetto che il centro-destra non abbia ancora capito che anche al suo interno s'impone una raccolta differenziata.

(nella foto, il duo Giorgio Stracquadanio e Renato Brunetta)

mercoledì, giugno 15, 2011

Il pizzo di stato

Mercoledì, 15 giugno 2011
La polemica sull’uscita dalla RAI di Michele Santoro non si è ancora spenta e già si delinea all’orizzonte l’ennesima querelle sulle nuove nomine nell’ente televisivo di stato e, come se non bastasse, la nuova puntata del dibattito sul canone.
Avevamo scritto alcuni giorni or sono che l’uscita di Santoro e la cancellazione dal palinsesto RAI di Anno Zero per volere di Silvio Berlusconi avrebbero prodotto un vistoso buco nei già malsani conti dell’emittente pubblica, con la conseguenza che la Lei, nell’informare il ministro Romani del colpaccio messo a segno con il definitivo allontanamento dello scomodo conduttore, aveva già chiesto che il governo programmasse un adeguato incremento delle entrate dell’ente, per evitare un ampliamento della voragine dei conti.
Prontamente Romani aveva garantito che la questione sarebbe stata esaminata a tempo debito dal governo, magari con l’approvazione delle norma incostituzionale che farebbe caricare il canone sulla bolletta elettrica, in modo da garantire un azzeramento dell’evasione, in barba ad ogni principio di certezza di un’imposizione connessa con l’effettivo possesso di un apparecchio radiotelevisivo. Poco importa a Romani ed al governo al quale appartiene muoversi con maggiore impegno per scovare l’evasione e, dunque, ricorrere ai mezzi legali per introitare le tasse. E’ più facile percorrere le scorciatoie, ancorché illegali, colpendo alla cieca ed imponendo un pizzo indiscriminato anche ai cittadini che una tv non possiedono o che, se ce l’hanno, non è detto che debbano necessariamente collegarsi agli squalificatissimi programmi della RAI. Sicché una nuova vertenzialità diffusa si disegna all’orizzonte, qualora il canone fosso imposto a chiunque sia titolare di un contratto di fornitura d’energia elettrica.
Ma la questione, a ben guardare, non è limitabile alla censura di questi atti di spocchiosa quanto miserabile arroganza di un governo che non sa far di meglio che abusare del potere che il ruolo gli attribuisce. La questione del canone va considerata sotto l’aspetto della interferenza pesantissima della politica nella vita della RAI, interferenza con la quale si pretende di ammannire al cittadina, senza alcuna possibilità di dissenso, ciò che il potere dominante ritiene più funzionale ai propri biechi interessi di parte.
Questo metodo di condizionamento dell’informazione e della cultura in generale è intollerabile e degno delle più squallide e esecrande dittature oscurantiste, che usano mezzi di persuasione di massa a supporto delle azione del regime. E che poi il cittadino debba pagare persino per il proprio indottrinamento pare francamente cosa che supera ogni limite di accettazione.
Se la RAI deve risanare il proprio bilancio lo faccia attraverso la rimozione degli assurdi paletti che impongono un tetto alla raccolta pubblicitaria, oppure, visto che gli strumenti tecnologici non mancano, trasmetta con segnale criptato fruibile esclusivamente da coloro che pagano un canone d’abbonamento ai suoi programmi, come d’altronde fanno innumerevoli emittenti come Sky. Ma la condizione essenziale è che la politica, quest’infezione maledetta che ammorba l’ente pubblico, esca definitivamente da viale Mazzini e governi il proprio gradimento con l’ausilio degli organi di partito, anche quelli d’altra parte pagati con i contributi forzosi dei cittadini.
La verità è che uno stato come il nostro rappresenta una vera anomalia nel consesso non solo dei paesi sviluppati ma persino di quelli civili, poiché i meccanismi di condizionamento dell’informazione, che non si fermano ai soli mezzi radiotelevisivi ma invadono prepotentemente anche la carta stampata, sono l’evidenza di una malattia gravissima che menoma la stessa democrazia. Il potere politico italiano si comporta come un vero e proprio politburo che intende sovrintendere e controllare nel tentativo di addomesticarne le ricadute l’informazione e la modalità con la quale viene erogata ai cittadini. Il potere dominante esige che si faccia omaggio a ciò che gli fa comodo ed impone la manipolazione o la censura delle notizie che considera scomode per la sua immagine e per il suo accreditamento; e per perpetrare questo liberticidio continuato impone nelle posizioni chiave amministratori, direttori e persino giornalisti, un esercito di pasdaran che infestano l’informazione come le pulci un randagio.
Bisogna comunque riconoscere che quest’invasione dell’emittente pubblica da parte della politica non è solo vezzo dei nostri tempi. Il governo in carica si muove sulla scia di una tradizione più che consolidata, che costituisce l’approccio storico con il quale maggioranze ed opposizioni hanno guardato il servizio pubblico, ritenuto luogo di scorribande lottizzatorie, terreno di conquista dal quale lanciare proclami automagnificanti o screditare gli avversari, - il tutto a spese dei cittadini finanche perseguitati da un campione d’impagabile protervia come l’URAR di Torino, estorsore ufficiale addetto all’incasso dei canoni d’abbonamento o alla sollecitazione dei recalcitranti (veri o presunti).
E allora è ormai tempo di dire basta a questo sistema, dove ogni servizio, anche quello che apparirebbe follia far pagare è utilizzato da una politica senza scrupoli per proprio tornaconto vessando il cittadino. E se qualcuno di coloro che siedono in parlamento ha effettivamente a cuore la libera informazione e la salvaguardia dei redditi dei cittadini, - anche il canone ha un suo valore, - allora che venga allo scoperto e si faccia promotore di un referendum di civiltà come quello della privatizzazione della RAI, che cancellerebbe l’odioso balzello del canone e, soprattutto, tolglierebbe definitivamente dalle mani della politica l’uso mostruoso della tv come strumento di manipolazione di massa.

martedì, giugno 14, 2011

Ed ora a Sant’Elena!

Martedì, 14 giugno 2011
Ha perso!, e di brutto.
Non vi sono scuse o alibi. Ha invitato gli Italiani ad andare al mare, come aveva fatto il suo padrino Bettino Craxi, nella speranza così di impedire che il quorum referendario potesse essere raggiunto, ma non ce l’ha fatta. Gli Italiani, quelli che non votano Pdl, ma anche parecchi di coloro che hanno a suo tempo votato per i partiti che costituiscono l’attuale coalizione di governo, hanno espresso con il voto il loro verdetto: quattro NO decisi, che non lasciano alcun margine ad interpretazioni strumentali o a manipolazioni di sorta. E insieme con lui, il tracotante Silvio Berlusconi, convinto sino alla fine di avere a che fare con un esercito di coglioni e di senza cervello, come lui stesso ha definito i dissenzienti dalla sua linea, gli hanno dato il benservito, hanno detto basta alla sue spericolate scorribande per sovvertire leggi, inquinare la fiducia nelle istituzioni, irridere gli avversari, farsi comodamente i fattacci suoi ed esimersi con ogni squallido stratagemma dal farsi giudicare per i reati che gli vengono da anni contestati.
E dire che sino a poche ore prima aveva persino provato a truccare la legge sottoposta a referendum, quella sul nucleare, nella convinzione che un make-up improvvisato, spacciato per modifica delle norme contestate, potesse impedire quel plebiscito popolare che lo condanna a lasciare senza appello lo scranno di presidente del consiglio e a ritirarsi, con le sue gambe prima che coattivamente, a vita privata.
Adesso non gli resta che restare al mare a prendere il bagno, quel mare dove aveva suggerito si recassero gli elettori, che per lui dovrebbe rappresentare un’alternativa più dignitosa di un eventuale bagno penale vero e proprio che non può escludersi alla luce della caduta di quel legittimo impedimento costruitosi ad arte proprio per rallentare il corso della giustizia. D’altra parte anche l’adombrato ricorso al processo breve, come surrogato del bocciato legittimo impedimento, appare adesso più improbabile, dato che Giorgio Napolitano è difficile possa firmare una legge di questa portata sulla scorta dell’inequivoco risultato del referendum. Votando anche per l’abrogazione del legittimo impedimento “ad premier e ministri”, il popolo italiano ha espresso un fragoroso no alle leggi ad personam. Alle leggi privilegio che hanno consentito a Silvio Berlusconi di godere della prescrizione o addirittura, come nel caso del processo All Iberian 2, di farla franca dall’accusa di falso in bilancio perché “il fatto non costituisce più reato”. Dunque, un ulteriore tentativo per farla franca finirebbe per mettere a repentaglio anche l’altissima credibilità che il Presidente della Repubblica s’è guadagnato nel quinquennio del suo mandato con atti di indubbio equilibrio ed equidistanza.
E allora non resta che Sant’Elena, un luogo remoto in cui ritirarsi per leccarsi le ferite e meditare sulla propria miseria morale, dove magari potersi finalmente concedere qualche Bunga Bunga ristoratore, al riparo da occhi indiscreti e da invidiosi bacchettoni.
Ma la caduta del caudillo Silvio non è priva di strascichi e di coinvolgimenti, poiché con lui precipitano definitivamente nella melma tanti cortigiani, a cominciare dai servi striscianti che lo hanno sostenuto e ne hanno difeso disperatamente le ragioni, ai soliti giullari che infestavano i vagoni della sua carovana, che troppo si sono esposti per poter pensare di scendere da quei carri e tentare la scalata a qualche altra carovana di passaggio.
La lista è lunghissima al punto da far ritenere che per il futuro si parlerà di terza Repubblica, poiché nella disfatta di Silvio Berlusconi sono coinvolti in tanti, anche personaggi della cosiddetta opposizione, che , se Berlusconi ha perso, non possono certo dire d’aver vinto.
Già, perché non bisogna dimenticare sotto l’euforia dei risultati referendari che non c’è compagine politica, a parte quella di Vendola e di Di Pietro, che possa cantar vittoria, avendo guardato ai referendum sino alla loro vigilia con un certo distacco o scetticismo. Non è infatti quella referendaria una vittoria di Bersani e del PD, né tantomeno di Fini e del Fli o di Casini e l’UDC. Quest’ultimo, poi, non va dimenticato come sia stato tra i suggeritori della demenziale legge sul legittimo impedimento, bocciata con il 96% dei voti popolari. C’è poi l’incredibile posizione di Bossi e della Lega, che da un lato è pienamente responsabile dello scempio istituzionale perpetrato da Silvio Berlusconi, ma dall’altro deve fare i conti con uno smaccato dissenso al suo interno, – Zaia, Maroni, Cota e soprattutto il popolo veneto, forte componente della base elettorale leghista, sono andati a votare contro l’invito del loro leader, - che non può escludersi possa rappresentare uno dei motivi di resa dei conti nel prossimo fine settimana a Pontida, dove è prevista l'ennesima kermesse leghista in vista anche del passaggio parlamentare di verifica della maggiorana di governo del 22 giugno prossimo.
Certo è che i risultati referendari, giunti a pochissimi giorni di distanza dalla disfatta delle amministrative, non possono archiviarsi senza conseguenze. Lega e PdL non possono pensare di continuare a governare il Pase nel crescente distacco, per non parlare di vera e propria avversione, dei cittadini, pertanto una sterzata decisa si impone ineluttabile. Allo stesso tempo i segnali forti d’allarme che rompono i timpani della maggioranza devono condurre l’opposizione a riconsiderare la modalità con la quale sino a questo momento si è posta quale alternativa, e suggerire l’apertura di un tavolo negoziale tra le sue anime affinché venga individuato un leader, il criterio con cui sceglierlo ed un programma di governo alternativo a quello disastroso della destra attuale. I tempi sono orami stretti e tutto potrebbe precipitare nell’arco di qualche ora e giungere impreparati all’eventuale appuntamento equivarrebbe a sprecare forse l’ultima occasione.

sabato, giugno 11, 2011

Ecco perché siamo in una dittatura

Sabato, 11 giugno 2011
Quando si parla di dittatura viene in mente un sistema politico in cui le libertà d’espressione, di movimento, di confessione politica e persino religiosa sono sottoposte ad un controllo stringente dell’élite politica dominante, che determina la modalità con la quale quelle libertà si possono esercitare ed i meccanismi di censura cui sono sottoposti i cittadini nell’esercizio di quelle modalità.
Nulla qualifica il livello di intensità con il quale i cosiddetti regimi totalitari esercitano il controllo o applicano i limiti alle libertà suddette, poiché il grado di autoritarismo ha modalità diverse di esplicitarsi. Anzi nella maggioranza dei casi tenta di mascherarsi sotto forme di un falso democratismo attraverso il quale, in nome di un non meglio specificato ordine pubblico, pace sociale, principio di sicurezza generale, vieta comportamenti ritenuti destabilizzanti o classificando manifestazioni altrove ritenute di libertà come eversive dell’ordine costituito. In altri termini, l’autoritarismo assolutistico iraniano è ben altra cosa dell’autoritarismo siriano, quantunque, alla luce dei sommovimenti in corso in quest’ultimo Paese, sia oggi ben più difficile distinguere ed attribuire una maggiore ferocia repressiva all’uno o l’altro sistema. Per quanto esecrabili, queste forme di governo hanno il “pregio” di essere assolutamente visibili ed ai cittadini è lasciato l’onere di subirle o di organizzarsi anche in armi per rovesciarle.
Diverso è il caso delle dittature striscianti o delle false democrazie, nelle quali un’oligarchia assume il potere in virtù di libere elezioni e da quel momento perpetra un lento e continuato tentativo di stravolgimento delle regole democratiche per garantirsi con il paravento di quel consenso popolare una sopravvivenza duratura nel tempo.
Questo, com’è facile intuire, è il caso italiano, dove una coalizione politica, forte di una legge elettorale truffaldina e degna dei peggiori stati sudamericani, ha ritenuto persino “legittimo” ricorrere al mercato dei parlamentari e acquistare la maggioranza che, a causa di dissensi interni a quella coalizione, era venuta palesemente meno.
Peraltro, il “parlamentare-mercato” non è stata che l’ultima manifestazione di una modalità proterva e arrogante d’intendere l’esercizio del potere, poiché nel governo del neo-caudillo Silvio Berlusconi, si è assistito a numerosissimi fenomeni di esproprio delle prerogative parlamentari e ad uno sconfinamento sistematico dell’esecutivo nell’assunzione di decisioni in materie già disciplinate da leggi, persino costituzionali, e regolamenti che non avrebbero consentito le innovazioni imposte per iniziativa del consiglio dei ministri, per quanto poi ratificate da un parlamento chiaramente tenuto in ostaggio. Dimostrazione di questo sovversivo metodo di intendere ed esercitare la politica sono gli scontri istituzionali tra il presidente del consiglio, beneficiario di quei colpi di mano, e l’Alta Corte, la magistratura, la presidenza della Repubblica e la presidenza della Camera o i tentativi di estromettere il parlamento dal controllo democratico di ingenti e rilevanti capitoli di spesa pubblica, che s’intendeva affidare ad organismi fuori controllo come la Protezione Civile.
Parimenti, sono segnali di una deriva golpista strisciante i tentativi non andati a buon fine d’imbavagliare l’informazione o di condizionare pesantemente il servizio radiotelevisivo pubblico, attuando canagliesche epurazioni di personaggi ritenuti scomodi a causa del successo ottenuto nella conduzione di trasmissioni di denuncia della svolta autoritaria in atto. Michele Santoro è l'ultima vittima di questa purga culturale cui si sottopone la nazione.
Fra qualche ora si apriranno i seggi elettorali allestiti affinché i cittadini si esprimano a favore o contro ben quattro proposte referendarie. Anche questi referendum sono il frutto di una gestione del potere dittatoriale, poiché - ancorché non averli abbinati alle recenti tornate per le amministrative, con l’evidente obiettivo di indebolire la possibilità che si raggiunga il quorum necessario per la loro validità, moltiplicando peraltro scelleratamente gli oneri organizzativi, - il governo ha tentato sino all’ultimo di bloccarli, inventandosi norme truffaldine sul quesito più importante, quello sul nucleare, con una leggina varata in fretta e furia, che non cancellava il ricorso all’energia atomica, ma ne posticipava nel tempo ogni decisione.
Di fondo, deve esser chiaro che al governo Berlusconi con ogni probabilità non interessa nulla del risultato dei referendum sul nucleare e sull’acqua, ma l’obiettivo rimane salvaguardare le norme sottoposte a referendum che riguardano un pezzo di impunità del cittadino Silvio Berlusconi, quelle sul legittimo impedimento, che l’eventuale raggiungimento del quorum potrebbe far decadere lasciando il neo-caudillo in balia di quelle magistratura tanto odiata e definita spregevolmente “rossa” solo perché riluttante a sottomettersi al suo controllo.
Ed è questo che stringe la panoramica sul quadro: l’Italia non è più un paese democratico e non lo è più da tempo, segnatamente da quando Silvio Berlusconi, tycoon di discutibile successo, pidduista affiliato di Licio Gelli, esempio universale di gravissimo conflitto d’interessi ed improvvisato politico per squallido tornaconto, ha deciso di esordire nell’agone della politica, con l’unico scopo di poterla fare franca dalle innumerevoli responsabilità penali derivanti da atti compiuti ai tempi della cosiddetta prima repubblica, le cui conseguenze con la scomparsa dei suoi padrini del tempo potrebbero rivelarsi oggi esiziali per lui e per l’impero che gli è stato consentito di costruire.
Ecco perché la partecipazione al voto referendario è importante. Perché è forse l’ultima occasione per costringere questo personaggio ad andare via, per salvare il Paese dal definitivo salto nel buio che rischia di effettuare con la sua improvvida presenza, per dire basta con una dittatura di fatto che va sempre più radicandosi e che soffoca le libertà.

giovedì, giugno 09, 2011

La disfatta di Capranica

Giovedì, 9 giugno 2011
L’esterno del teatro Capranica è gremito. Una lunga teoria di limousine, cocchi e auto blu, messe a disposizione dai padroni ai convenuti, sfila lenta e ordinata. Da questi mezzi scendono silenziosi uomini e donne, in divisa grigia o blu per gli uomini, in nero con merletto bianco per le donne. Tutti indossano rigorosamente guanti bianchi di lino, simbolo inequivocabile della professione che svolgono per conto dei padroni di quei mezzi. Sono i camerieri, i servi, che si sono dati convegno in questo teatro romano per un disperato appello ai loro padroni, primo fra tutti Silvio Berlusconi, affinché mutino rotta e diano rilancio al ruolo politico che svolgono e così non compromettere il lavoro di tanti servitori, che rischiano, con la caduta dei loro signori, di restare disoccupati.
Spiccano le figure di Giuliano Ferrara, Mario Sechi, Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti, comitato promotore di questo meeting di servi indomiti e speranzosi, che in una sala gremita lanciano il loro grido di dolore e si augurano vengano ascoltate le loro preghiere, affinché Silvio Berlusconi, presente con una figura di cartone e primus di una nobiltà politica in caduta verticale, ritorni ai fasti del passato con un’azione convincente e incisiva, che ridia all’élite che rappresenta una dignità ed una credibilità persa con la bruciante sconfitta alle amministrative.
Sanno Ferrara, Belpietro, Sallusti e tutti i convenuti che la loro credibilità, la loro capacità di porsi ad esempio di una plebe che guarda loro come alla creme di un servilismo quasi animalesco, come quello di una muta di cani un tempo randagi e adesso fedeli, pronti ad azzannare con scellerata crudeltà chiunque abbia osato attaccare il padrone, è in bilico e i cellulari degli accalappia cani che si nascondono nelle viuzze adiacenti il Capranica lasciano presagire cosa accadrà alla definitiva sconfitta dei loro padroni, gli stessi che esortano là in disperato appello.
E l’appello vuole e deve essere forte. Per renderlo ancora più efficace il capo della servitù, il leader di questa mesta teoria di camerieri, Giuliano Ferrara, coinvolge nel dibattito anche alcuni degli esponenti della “nobiltà” presenti in sala (Daniela Santanché, Alessandra Mussolini e i ministri Giancarlo Galan e Giorgia Meloni), emeriti Signor Nessuno, divenuti membri di un oligarchia di potere grazie alla loro inclinazione naturale ad ubbidire silenti ad ogni ordine del Principe di Arcore, pronti a subire qualunque umiliazione personale pur di restare attaccati al carro del potere guidato dal loro duce. Poi, giusto per conferire una dignità improbabile a questa autoconvocazione, sono stati chiamati al meeting tre "infiltrati" di sinistra: Piero Sansonetti, Ritanna Armeni e Marina Terragni, nella convinzione che la presenza di un potenziale dissenso possa da un lato conferire alla kermesse la facciata di una democraticità da sempre estranea all’ideologia dei partecipanti e, dall’altro, ringalluzzire la coesione qualora qualcuno dei pellegrini dissidenti sciorini una qualche critica o invettiva nei confronti del Duce Massimo.
Ed è ciò che avviene, quando Marina Terragni in un impeto di crudele chiarezza decide di spiegare ai presenti che «Berlusconi è vecchio, è muffa, ai giovani non piace più». Sono bordate di fischi e insulti, sintomo evidente di quanto la verità faccia male e conferma di quanto il meeting, l’appello della giornata, finirà per essere solo un tentativo senza speranza. Eppure forse la stessa cosa la pensa Sallusti che, tra il serio e il faceto, esordisce spiegando che quello messo in scena al Capranica è un vero e proprio «regicidio» e che per tale reato c'è la «pena di morte» e c'è da credergli, lui con quella faccia se ne intende e di morti con la penna qualcuno l'ha già fatto. «Attenzione a buttare una classe dirigente vincente» avverte il direttore de il Giornale, facendo esplicito riferimento al "triumviro" Denis Verdini che ha da poco lasciato la sala. Ma da Ferrara a Sechi, passando per Feltri e Belpietro, il messaggio è chiaro. «Il premier è indebolito» - spiega il direttore de il Foglio - «smetta di vivacchiare; rimedi a questa situazione negativa rimettendosi in gioco e avviando una battaglia per il risveglio della politica». «O Berlusconi cambia» - gli fa eco Sechi, direttore de il Tempo di Roma - «o gli elettori cambiano lui».
Maurizio Belpietro, incapace di abbandonare il ghigno che gli disegna normalmente il volto, non ha dubbi: «Bisogna ascoltare di più l'elettorato. Sarà anche sgradevole sentirselo dire, ma è un fatto che la sconfitta ci sia stata». Ma Feltri è pronto a recuperare, a distribuire la necessaria dose di coramina ad una sala in evidente disagio: «Non facciamo funerali in assenza della salma, perché il campionato è ancora lungo e in testa c'è ancora il Pdl. E poi bisogna arrivare al 2013 in condizioni di vincere le elezioni, perché la sinistra non c'è. Se l'avversario sarà Bersani e la sinistra vince io vengo qui e mi sparo». Feltri qui conclude alla Mastella, nella speranza che almeno lui, uomo di parola, voglia tener fede all’impegno qualora i fatti dovessero confermare la sua ipotesi.
Anche i Signor Nessuno non sfuggono alla logica del processo che sembra aver preso il sopravvento sul tema originario della kermesse. Galan, ad esempio, invita a riflettere sulle «promesse del '94 che non abbiamo mantenuto», quelle del famoso “patto con gli Italiani” siglato da Silvio Berlusconi in una storica sceneggiata nella trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa. Daniela Santanché chiede che Berlusconi sia messo nelle condizioni di comandare di più (sic!), dando la sensazione con la sortita che per tutto il tempo in cui hanno parlato gli altri avesse più la testa ai festini del Billionaire di Briatore che al tema in sala. Alessandra Mussolini ritiene che il Cavaliere sia mal consigliato e cita ad esempio la scelta del candidato alle amministrative di Napoli: «Lettieri sembrava un agente immobiliare», quasi che quella categoria professionale debba ritenersi impresentabile o indegna della politica. Peccato che nessuno dei presenti, - evidentemente psicologicamente addomesticati, - non abbia chiesto alla signora post-fascista perché la faccia non ce labbia messa lei: chissà, magari avrebbe avuto avuto maggior successo elettorale quella di una “vaiassa” come ebbe a definirla Mara Carfagna. Ma la voglia di cambiare passo è nell'aria. Occorre «spalancare le porte alla partecipazione popolare» esorta il ministro Meloni, ammettendo con giovanile candore come, a dispetto del suo nome, il PdL sia un partito nel quale la parola libertà sia ad uso e consumo del suo leader piuttosto che del popolo che dichiara pomposamente di rappresentare.
E sì, da un gruppo di servi ci si può attendere un buon servizio o la preparazione di un buon pranzo, non certo una fucina d’idee. D’altronde lo sosteneva già il grande Machiavelli: tutto con me e niente senza di me. E Capranica chissà che non passi alla storia come la Caporetto del “Berlusca”.

(nella foto, una manifestazione al Teatro Capranica di Roma)

mercoledì, giugno 08, 2011

RAI, chi paga i minori introiti del dopo Santoro?

Mercoledì, 8 giugno 2011
Sono passate poche ore dalla conclusione di killeraggio ai danni di Michele Santoro e del suo Anno Zero e già all’orizzonte si paventa ciò che qualunque persona di buon senso aveva temuto.
La defenestrazione di Santoro realizzata nel disprezzo di ogni regola di pluralismo e di democratico rispetto per quel 20-25% di ascoltatori che sistematicamente si collegavano su RAI 2 il giovedì per seguire Anno Zero, trasmissione di denuncia degli abusi e dei misfatti di un governo e di una politica protervi e liberticidi, ha evidenziato la voragine nei conti dell’azienda televisiva pubblica, che nel nuovo palinsesto dovrà misurarsi con un deficit amplificato dal venir meno dei proventi pubblicitari incassati grazie a quella trasmissione.
Ovviamente questa mancanza di capacità gestionale in un paese civile dovrebbe di per sé rappresentare un motivo più che sufficiente per mandare a casa , magari con tanto di azione di responsabilità, i vertici dell’azienda pubblica, che per compiacere il mandante di un’operazione spazzatura, Silvio Berlusconi, hanno determinato le condizioni per un danno gravissimo e difficilmente reversibile all’erario statale.
Con queste premesse, adesso, scrive Carmelo Lopapa oggi su la Repubblica, «il governo studia l'aumento del canone. Una bella cura da cavallo, stavolta, non l'euro e 50 centesimi del ritocco 2011. Ci sono i costi del servizio pubblico che galoppano, certo, ma dal prossimo anno andrà compensato - tra le altre voci in perdita - anche il mancato introito pubblicitario del prime time del giovedì su Raidue, che con Santoro e Anno Zero ha garantito dal 2006 incassi a sei zeri».
La notizia è semplicemente pazzesca e conferma, che in omaggio ai vizi e ai capricci del signor Berlusconi, i cittadini saranno ancora una volta chiamati a pagare per colmare i buchi creati nelle casse pubbliche a fronte di scelte mentecatte, di faide personali che nulla hanno a che vedere con la corretta gestione della cosa pubblica.
«Quando ieri mattina il ministro alle Comunicazioni Paolo Romani ha chiamato il direttore generale Rai Lorenza Lei» - continua Lopapa - «per congratularsi del benservito a Michele Santoro, per aver compiuto "con successo" la missione nella quale aveva fallito per due anni l'ex Mauro Masi, l'impegno (verbale) è stato preso. La dg le congratulazioni le ha incassate, ma ha anche esternato tutte le sue preoccupazioni per le prospettive non rosee dell'azienda di Viale Mazzini. E l'ex imprenditore televisivo milanese, vicinissimo al premier, su questo è stato in grado di sbilanciarsi, promettendo un intervento del governo».
E allora? Sulla base di queste considerazioni due sarebbero i provvedimenti urgenti che dovrebbero essere adottati in una realtà minimamente seria. In primo luogo sarebbe necessario un intervento della magistratura contabile, che accertasse la sussistenza di danni intenzionali arrecati all’ente televisivo dalla condotta di tutte le parti in causa - dirigenza RAI, singoli ministri e presidenza del consiglio, - e intimasse ai colpevoli il doveroso risarcimento. Il comportamento di Lorenza Lei, neo-direttore generale, in questa vicenda non è forse così trasparente come vorrebbe farsi credere; così come non è del tutto comprensibile quello di Paolo Garimberti, presidente RAI, e del suo consiglio d’ammistrazione. In secondo luogo sarebbe auspicabile che si facesse finita con questo ladrocinio legalizzato del canone, meccanismo attraverso il quale si scippa a milioni di abbonati un contributo con il quale si è costretti ad assistere, ancorché non interessati, a queste mostruose buffonate di stato e all’impiego di quel denaro per risolvere infami duelli e vendette personali.
E di quest'andazzo è altamente responsabile anche la sinistra, quella sinistra che si dichiara progressista e illuminata e che poi non perde occasione per inzuppare il biscotto nella tazza del potere, accontentandosi nella fase d’alternanza di qualche scantinato da cui gestire il sottogoverno dell’informazione. Questa sinistra deve avere il coraggio di prendere posizione e chiedere l’immediata soppressione del canone obbligatorio, in modo che la RAI cammini con le proprie gambe e chi la dirige sia rispedito a casa qualora non dimostri d’essere in grado di applicare la buona diligenza nella gestione e nello svolgimento del proprio ruolo. E’ troppo comodo combinare disastri, sperperare risorse e poi chiedere ai cittadini di sostenerne l’onere. Quella della RAI è un’altra situazione Alitalia, orchestrata da un modo criminale di fare la politica, che soffoca ogni spazio possibile, e che i cittadini incolpevoli sono chiamati a sopportare senza alcuna possibilità di reagire.
Non è né possibile né tollerabile che avvalendosi di un’arroganza senza pari si continui a fare e disfare dal patrimonio pubblico qualunque scempio e restare persino impuniti. Se per un capriccio di Berlusconi la RAI ha deciso di privarsi di una gallina dalle uova d’oro come Michele Santoro, allora sia l’Arrogante di Arcore a pagare e se, come è assolutamente probabile, il responsabile di questo miserabile default della televisione pubblica non lo farà, allora che finalmente i cittadini si rifiutino di pagare il canone, quel balzello ignobile che sempre più assume con i politicanti che ci ritroviamo le connotazioni di un pizzo, di un’estorsione intollerabile.

(nella foto, Lorenza Lei, neo dg RAI)


martedì, giugno 07, 2011

Santoro lascia, vincono i killer

Martedì, 7 giugno 2011
Ce l’ha fatta. Finalmente la RAI, la sedicente televisione pubblica, quell’ente foraggiato forzosamente con i soldi degli Italiani, il cui compito principale dovrebbe esser quello di erogare informazione culturale, s’è liberata di un collaboratore scomodo. Non un infingardo collaboratore come i tanti che si annidano nei corridoi di Saxa Rubra e che sotto la protezione del politicante di turno porta a casa uno stipendio di tutto rispetto per scaldare la sedia o servire con melense quanto stucchevoli trasmissioni il proprio protettore, ma un collaboratore che in questi anni ha contribuito a migliorare i disastrati dell’azienda pubblica bilanci con la produzione di una trasmissione tra le più seguite e, quindi, gettonate dalla pubblicità.
Michele Santoro lascia la RAI, colpevole di non essersi mai piegato ai voleri di una dirigenza servile e meschina posta ai vertici di quell’ente solo per fare da grancassa al presidente del consiglio in carica, nonché proprietario di un impero mediatico in palese concorrenza e che non ha mai fatto mistero di voler utilizzare quell’impero per sostenersi nelle sue campagne politiche con l’indottrinamento degli ascoltatori.
«Non poteva andare avanti all'infinito. Non si può restare per sempre in un'azienda che non ti vuole. Da anni la tv di Stato ostacola il programma d'informazione più visto della televisione italiana, nonostante gli introiti pubblicitari e il prestigio che i record di ascolti di Anno Zero garantiscono», ha commentato a caldo Marco Travaglio, che di Santoro è stato collaboratore di quella gettonatissima trasmissione. «Sono riusciti» – continua Travaglio- «ad affondare l'ammiraglia della loro flotta. Si sono sparati sui piedi, sport in cui eccellono da 15 anni a questa parte. Sono dei geni a farsi del male. Ogni colpo che danno alla Rai è qualche milionicino che entra nelle casse di Mediaset, è ovvio». E il vignettista Vauro, editorialista fisso di Anno Zero e amico di lunga data di Santoro ha commentato: «Da questa Rai ci si può aspettare qualsiasi cosa».
Le colpe di Santoro e della sua trasmissione? Non essersi piegati ai diktat di una banda affarista che avrebbe voluto al posto di Anno Zero una trasmissione improntata al sostegno incondizionato di Berlusconi e del suo governo, alla magnificazione delle tante assurdità cui si è assistito in politica dall’avvento del Cavaliere, ma che allo stesso tempo, forte di un 21% di share, drenava rilevantissime risorse economiche agli introiti pubblicitari del gruppo Mediaset. Poco rileva che la trasmissione di Santoro ospitasse costantemente sia esponenti dell’opposizione che della maggioranza. Ciò che di fatto ha sempre turbato il sonno di Silvio Berlusconi e i suoi fedeli è che nelle trasmissioni di Santoro si parlasse di argomenti tabù, si toccassero tasti assai delicati dello spericolato ruolo di Berlusconi in tante vicende economiche e finanziarie del Paese, i suoi processi, i suoi rapporti con la mafia, la corruttela perpetrata per inquinare le indagini a suo carico, le sue vicende private con avventuriere del sesso e minorenni. L’attacco subito da Santoro, reo di mettere costantemente a nudo il sovrano, è stato senza precedenti nella storia delle democrazie occidentali: dall’editto Bulgaro di licenziamento, al tempo in cui dalla televisione fu allontanato anche Enzo Biagi, agli scontri senza esclusione di colpi con il manichino Masi, inviato a viale Mazzini con il precipuo compito di farlo fuori.
Ma ciò che stupisce ulteriormente nella vicenda non è tanto la conclusione che vede un Santoro stanco abbandonare l’agone RAI, quanto l’insipienza con la quale gli organi di garanzia di quell’ente hanno permesso che il divorzio si consumasse nella più assoluta indifferenza, confermando che anche quegli organi, in fondo, erano e si qualificano per l’ignavia e l’incapacità di assumere una posizione chiara in difesa della cultura, dei diritti degli utenti, del rispetto per le regole non solo nell’ambito del diritto del lavoro, ma anche della correttezza dei rapporti umani. Paolo Garimberti, presidente dell’emittente pubblica, sotto gli occhi del quale s’è consumata ogni sorta di porcheria della vicenda RAI-Santoro e che oggi se ne esce con un «Ho profondo rispetto per il diritto di ciascuno di essere artefice del proprio destino», ben sapendo che il destino di Santoro era segnato da tempo, e che nei fatti mai ha mosso un dito per far valere quel minimo d’autorità che la carica gli attribuisce per intervenire nell’assurda situazione, avrebbe il dovere di andarsene a casa qualora avesse un minimo di dignità e di rispetto verso se stesso. Non è certamente tollerabile per un capo azienda prendere atto di perdere uno dei pezzi pregiati della sua produzione senza muovere un dito o, al più, sprecare ridicole considerazioni di circostanza sul diritto riservato a ciascuno di noi di scegliersi la strada per il futuro.
In questa prospettiva l’uscita di Michele Santoro dalla RAI, ancorché non preluda al reimpiego delle sue indiscusse capacità professionali presso altra emittente televisiva con ulteriore danno per viale Mazzini, è una sconfitta gravissima per la televisione pubblica, per i cittadini costretti a pagare il canone, per la credibilità e l’onestà intellettuale di quanti dirigono l’ente pubblico, peraltro profumatamente pagati con il danaro dei cittadini-sudditi, costretti a subire l’ennesimo atto di violenza di un regime marcio nell’essenza di chi lo incarna e degli zerbini sui quali si toglie il fango che accumula continuamente sotto le scarpe.

mercoledì, giugno 01, 2011

Grillo è il diminutivo di grilletto?

Mercoledì, 1 giugno 2011
«Vince il sistema, l'Italia di Pisapippa». Questo è il titolo con il quale la maggior parte dei giornali pubblicano oggi il punto di vista di Beppe Grillo, leader del movimento dei “grillini” cinque stelle, sui risultati delle elezioni di Milano.
Il comico genovese, - che è probabilmente vittima degli effetti della una sbornia post-elettorale con la quale deve aver festeggiato i risultati conseguiti dalle sue liste a Bologna e Milano, - non lesina invettive contro Pisapia, ribattezzato Pisapippa, e Niki Vendola che lo sosteneva, definendo la vittoria elettorale del candidato della sinistra un trionfo del “sistema”, «quello che ti fa scendere in piazza perché hai vinto tu, ma alla fine vince sempre lui. Che trasforma gli elettori in tifosi contenti che finalmente ha vinto la sinistra o alternativamente, ha vinto la destra. Qualcuno ha detto al Pdmenoelle che "È facile vincere con i candidati degli altri". Già, ma chi sono gli altri?. Pisapia» - attacca Grillo - «avvocato di De Benedetti, tessera pdmenoelle numero UNO (che ha per l'ingegnere svizzero gli stessi effetti taumaturgici della mitica monetina di Zio Paperone), Fassino deputato a Roma e sindaco a Torino che vuole la militarizzazione della val di Susa, Vendola che costruisce inceneritori insieme alla Marcegaglia, destina 120 milioni di euro di denaro pubblico della Regione Puglia alla fondazione San Raffaele di Don Verzé, padre spirituale di Berlusconi e mantiene privata la gestione dell'acqua? Il Sistema ha liquidato Berlusconi e deve presentare nuove facce per non essere travolto. Se sono vecchie, le fa passare per nuove. Se sono nuove le fagocita con la tessera di partito e ruoli di rappresentanza».
Insomma, un’insalata russa, magari infettata con tanto di escherichia coli – che va di moda – per squalificare il significato di un cambiamento radicale di approccio alla politica da parte dell’elettorato e presentare il proprio movimento, sicuramente di rottura, ma privo di qualsivoglia progetto credibile e strutturato, come l’unico in grado di rappresentare il nuovo.
Che Grillo sia personaggio di rottura con una concezione di politica tradizionale, basata sul compromesso, sull’accomodamento, sul piccolo cabotaggio e l’imbroglio, non v’è dubbio alcuno, ma da qui ad ergersi ad alternativa seria e credibile in un sistema certamente malato ma in grado di poter variare la rotta con le opportune cure, francamente, pare improponibile.
Non basta premere continuamente il grilletto sugli avversari, - che nel caso di Grillo sono indistintamente tutti, come se l’esagitato genovese fosse trincerato in una sorta di Fort Apache, - poiché le alternative si costruiscono con le proposte, con metodi di governo differenti e di contrapposizione, non certo con un qualunquismo fine a se stesso, a caccia del consenso di una fetta di società sbandata, senza speranza e senza bandiera.
Sintomo del disagio che ha suscitato l’improvvida sortita di Grillo è la reazione di una parte dei suoi sostenitori, che non è ha accolta con favore le sue sparate. In molti hanno accusato Grillo e i grillini di qualunquismo, altri li invitano a rilassarsi e a non essere contro a prescindere. «Caro Grillo» - scrive un lettore del suo blog sul quale ha pubblicato le riflessioni su Pisapia - «criticare è giusto e sacrosanto, ma qualche volta bisogna anche confrontarsi con la realtà e proporre alternative percorribili, mettersi in gioco e rischiare la propria verginità».
Raffaele Cirillo fa invece notare che «Ha vinto colui che è stato scelto e votato dal maggior numero di cittadini milanesi. Il sistema, che lei Beppe Grillo lo voglia scrivere con la maiuscola o la minuscola, è questo: i cittadini votano ed eleggono il proprio sindaco», come dire che la democrazia è anche libertà di scegliersi il proprio rappresentante ed esigere rispetto per quella scelta, che non può essere condannata ancor prima che si siano acquisite effettive ragioni di critica. E Piergiorgio Giarratana: «Ho la netta sensazione che l'unico obiettivo che ti poni è quello di assicurare lunga vita ai tuoi avversari altrimenti non avresti più ragione di esistere neanche tu. sinceramente mi hai stancato. non è possibile che chi vince le elezioni diventa automaticamente un tuo nemico». E questo giudizio pensiamo racchiuda la grande verità sul successo di Grillo e le sue truppe di guastatori assatanati.
Chissà se il simpatico cabarettista genovese sarà in grado di rendersi conto che dal momento in cui ha deciso di entrare in politica non potrà più continuare a sparare battute senza senso e prive di contenuto, peraltro incapaci di stimolare quella risata che come comico gli riusciva egregiamente. Il Paese è infarcito di profeti e oracoli dozzinali ed è ora che anche Beppe Grillo capisca che certi metodi di propaganda idiota, nei quali proprio lui non dovrebbe cadere, sono quelli che hanno determinato il tramonto del suo grande avversario Silvio Berlusconi.