lunedì, settembre 29, 2008

I cento padri del successo



Lunedì, 29 settembre 2008
Come nella tradizione i parenti del morto già litigano per l’eredità a funerale ancora da farsi. I sindacati, quelli confederali, quelli che per decenni hanno tenuto testa a generazioni di imprenditori per “la difesa dei lavoratori e la dignità della classe operaia” e che da anni combattono una sordida lotta tra sigle, ma non perché debbano affermare una supremazia pragmatica di rappresentatività, quanto per cannibalizzare tessere ai perdenti, rivendicano un ruolo determinante nella chiusura della vertenza Alitalia-CAI e, pertanto, avrebbero diritto alla riconoscenza di quel popolo di navigatori dell’aria, che deve alla fermezza con la quale hanno condotto la difficile trattativa la CISL di Bonanni, la UIL di Angeletti e la CGIL di Epifani la possibilità di rimettersi alla cloche di un aereo o a servire un the caldo a bordo al passeggero di turno. A questa autorivendicazione di merito si associa l’UGL della Polverini, che uscita dalle cantine nelle quali ha per anni ripassato la letteratura sulle corporazioni del ventennio, grazie alle porte apertegli da quella destra al governo sempre in bilico tra modernità e nostalgia, si attribuisce adesso patente di forza sindacale significativa nella medesima trattativa.
Come in una riedizione della Battaglia di Maclodio di manzoniana memoria, a sinistra risuona lo squillo delle trombe di Veltroni, segretario fantasma di un opposizione ombra, che rivendica il ruolo fondamentale delle sue missive nell’ammorbidimento della CGIL ed in quello tardivo di Colaninno e soci. Da destra naturalmente non poteva che seguire lo squillo delle trombe berlusconiane, che rammentano al popolo come con il salvataggio Alitalia l’ennesimo impegno elettorale sia stato mantenuto, a dispetto di denigratori e pessimisti.
Non c’è che dire. C’è da essere contenti che la vicenda si sia conclusa positivamente, anche se, per non rischiare di fare come un certo allenatore portoghese, che s’autoincensa a piè sospinto al limite dell’irritante supponenza, bisognerebbe rammentare a questi interessati angeli custodi del popolo ex Alitalia che contano i risultati e quelli, quando arriveranno, saranno tutti da verificare in quanto a bontà.
Nel frattempo il carro funebre con il caro estinto non s’è ancora schiodato dal portone, né è ancora nota la spesa per il funerale, anche se i governanti in carica, con gesto ammirevole d’invidiabile senso d’umana partecipazione, hanno già deciso che queste saranno a carico dello Stato, così come saranno a carico del pubblico bilancio le spese per il mantenimento delle miglia di caduti rappresentati da coloro che non troveranno collocazione nella nuova Alitalia.
Come ebbe a dire in modo pittoresco un noto comico che aveva visto bene, in politica v’è grande inclinazione a pratiche omosessuali, ovviamente con l’utilizzo delle terga altrui. E la conclusione di questa triste vicenda n’è riprova, dato che il costo per il funerale – che si mormora con cauto ottimismo potrebbe ammontare ad oltre 2,5 milioni, - sarà interamente a carico del cittadino, il quale parimenti sosterrà la spesa per il trattamento di mobilità settennale per i caduti cui prima s’accennava.
Si badi bene, storcere il naso davanti a questo tripudio d’entusiasmo per l’epilogo della vicenda Alitalia non significa si preferisse piuttosto il fallimento della Compagnia, con le catastrofiche conseguenze che ne sarebbero derivate su tutti i lavoratori occupati in quel carrozzone sgangherato. E’ che non ci si dà pace delle ragioni del fallimento di una trattativa con il pretendente precedente, con quella Air France che aveva prospettato condizioni indiscutibilmente migliori per dipendenti e debiti di Alitalia, rispetto a quelli incassati oggi da questi maitre à penser del sindacato e della politica dall’intesa con la CAI.
E se si può capire il giubilo di un capo di governo, che pur di concludere la trattativa positivamente e così confermare la personale credibilità verso il proprio elettorato, avrebbe probabilmente persino cacciato di tasca sua i soldi per chiudere l’affare, meno comprensibile è la soddisfazione di quei sindacalisti che per fare ciò che hanno fatto sono andati a Canossa, passando per le Forche Caudine di ricatti, minacce e imposizioni e della politica e dei filantropi della cordata acquirente, oltre ad aver giocato palesemente sporco con i cittadini pagatori. E costoro, che devono ringraziare solo le malformazioni croniche agli apparati uditivi ed oculari della pubblica opinione se non vengono bersagliati con il lancio di uova di dubbia freschezza, pretendono pure riconoscenza per la qualità del ruolo svolto?
E’ non si perde tempo ad enumerare le tante cose rimaste volutamente in ombra in questa trattativa, che non sono certo di secondaria importanza, ma che verranno al pettine quanto prima come i classici nodi nei capelli.
Fra le tante cose che avremmo voluto vedere, da inguaribili sognatori quali siamo, avrebbe dovuto esserci una presa di posizione della magistratura nei confronti degli ex manager della ex Alitalia, che a detta dei politici – gli stessi che ce li avevano messi, - dei sindacalisti, dei dipendenti, degli azionisti e della stampa sono i veri ed unici responsabili del disastro. Chiamare a rispondere delle proprie responsabilità qualcuna di queste eminenze, - che magari nella confusione ha lasciato in fretta e furia l’azienda con tanto di liquidazione da superenalotto, - sarebbe stato un bell’esempio di Paese che cambia, che non ricorre solo alla battuta di qualche caratterista che dà del fannullone ai propri dipendenti senza far seguire i necessari provvedimenti, che è consapevole che il pesce che perde la freschezza comincia a puzzare dalla testa e non dalla coda e che i dipendenti, come i cittadini, rispecchiano fedelmente vizi e virtù di chi impartisce loro gli ordini. Queste omissioni non sono solo criticabili perché inosservanza delle norme di legge, ma costituiscono vere e proprie opportunità perse per dare il segno che non è solo lo scoop politico il piatto preferito di chi amministra la giustizia ma anche la corretta modalità con la quale si gestiscono le aziende, specialmente quando impiegano denaro pubblico e comunque mettono a rischio posti di lavoro.
Ma è lecito pretendere che si chiarisca quale è stato il ruolo di Intesa S. Paolo in tutta la vicenda, consulente del governo nella valutazione di Alitalia, anzi consulente di CAI nell’acquisto, anzi socio nella cordata che ha acquisito, anzi prestasoldi di Carlo Toto, patron di AirOne? E’ doveroso far chiarezza sulle ragioni che hanno attribuito ad Alitalia una valutazione pressoché analoga alla Compagnia aerea di Toto? E’ legittimo che si chiariscano i conflitti d’interesse che gravano su parecchi dei soci della cordata CAI?
Il caso Alitalia farà sicuramente scuola, anche perché arriva in un momento storico nel quale spettri autoritari e di regime stanno prepotentemente prendendo corpo. Come sostiene Inviato Speciale, quotidiano online: «Per questi motivi il laboratorio Alitalia è importante, oltre le specifiche contrattuali definite per i dipendenti. Mai come prima, in tutta la storia repubblicana, la palude ha visto i sindacati confederali così mescolati ai partiti di riferimento o ai poteri di rifermento. Mai si è visto un governo così impegnato a fare un affare, fino al punto di giocare su qualunque tavolo pur di favorire i propri beniamini. Per i più anziani, una volta, i comunisti stavano coi lavoratori, i liberali con gli imprenditori ed i democristiani saltavano tra le due parti. Alla fine si trovava un ‘compromesso’». Oggi, in un’epoca in cui il paradosso sembra essere divenuto normalità, i comunisti si sono estinti, i liberali stanno sempre con gli imprenditori ma si sono trasformati nel loro braccio armato e parlano il linguaggio del manganello e i democristiani continuano a saltare da una parte all’altra, non per fare compromessi ma per partecipare al banchetto del potere. E al di là di questi giochi, di questa fiction in cui orgoglio, dignità, sentimento non hanno più cittadinanza, c’è l’esercito dei replicanti, quello dei senza diritti, coloro la cui esistenza è funzionale alla sopravvivenza della razza padrona: chissà se Alan E. Nourse avrebbe mai immaginato nel lontano 1974 che le fantasie di The Bladerunner sarebbero divenute tragica realtà all’alba del terzo millennio.


(nella foto, Corrado Passera, a.d. di Intesa S. Paolo ed autore del piano Fenice di privatizzazione Alitalia. Consulente del Governo, è divenuto consulente della CAI e, successivamente, entrato nella compagine azionaria di questa società, acquirente di Alitalia)

domenica, settembre 28, 2008

Alitalia, un accordo che non chiude la partita


Sabato, 27 settembre 2008
Chi ritenesse conclusa la vicenda Alitalia per effetto della firma dell’intesa con la CAI di questa notte da parte dei piloti probabilmente è in errore, perché parecchi sono i nodi ancora insoluti. Primo fra tutti l’adesione all’accordo da parte del personale di assistenza al volo (Avia e SDL), che ha rimandato a lunedì ogni decisione e che non può escludersi che chieda di ottenere qualche piccola modifica relativamente al numero degli esuberi dei propri rappresentati, come è avvenuto per i piloti, che hanno firmato dopo aver ottenuto la garanzia dell’assunzione a part time di 139 unità ulteriori rispetto a quelle previste dal piano e, soprattutto, hanno portato a casa lo status dirigenziale per la categoria.Un altro nodo riguarda il reale numero degli esuberi, che definiti in 3.250, non è mai stato chiaro se debbono riferirsi al solo organico Alitalia (17.500) o includano anche l’organico AirOne (5.000) e quello di Volareweb, il cui nome non è mai emerso nel corso della trattativa. In altri termini, se l’organico della nuova Alitalia è stato fissato in 12.500 dipendenti e la somma dell’organico delle due Compagnie confluenti si attesta a circa 22.500 unità, l’esubero risultante è pari a 10.000, che decurtato delle risorse per le quali si prevede il reimpiego in attività di manutenzione tecnica, amministrativa e call center (2.700 circa), raggiungerebbe la ragguardevole cifra di 7.000 dipendenti. Né su questa cifra sembra consolare il ragionamento di chi, con l’intento di minimizzare, rammenta che un buon numero di queste risorse ha un contratto di stagionalità con Alitalia e, dunque, la questione sarebbe ridimensionata dal mancato rinnovo di questi contratti, trascurando con una certa dose di cinismo che comunque di lavoratori si tratta.Un ulteriore ombra che si delinea all’orizzonte è rappresentata dall’eventuale arrivo di un partner straniero, che auspicato dalle organizzazioni sindacali sembra aver incontrato l’interesse di Air France e di Lufthansa. Entrambe le Compagnie, - la cui presenza dell’una per ovvie ragioni non può che escludere l’altra, - hanno lasciato intendere che potrebbero concorrere alla cordata di salvataggio a condizione che lo scenario in corso si chiuda con la cosiddetta pace sociale, ma con modalità di partecipazione differenziate in ragione delle rispettive strategie aziendali: filosofia multihub per Lufthansa, accentramento del traffico su Parigi per Air France. Questa diversa impostazione gestionale non è marginale, poiché nel primo caso troverebbe rilancio il ruolo di Malpensa e Fiumicino non dovrebbe subire grosse modificazioni rispetto al traffico corrente. La presenza di Air France costituirebbe invece un boccone difficilmente digeribile per gli interessi della Lombardia, che da sempre fa pressioni affinché dal nuovo assetto di Alitalia Malpensa non debba subire penalizzazioni, e da sempre grida a gran voce per bocca del suo Governatore e dei politici locali che un piano che mortifichi la missione dell’hub varesino imporrà la stretta di intese con compagnie aeree straniere concorrenti.Certo è che, comunque si concretizzi la presenza di un socio straniero nel capitale della CAI, è difficile possa accettare un ruolo di secondo piano nelle scelte gestionali della nuova Alitalia, non fosse che per la competenza specifica nel settore aeronautico, che nessuno dei soci può vantare a parte Toto, con buona pace del discutibile principio di italianità auspicato da Berlusconi.Rimane infine il problema della redditività legata alla scelta delle rotte da esercire. Mentre c’è da registrare un ulteriore significativo passo avanti rispetto alla prima versione del piano industriale, che ha visto incrementare le tratte da 65 a 137, rimane l’incognita relativa alle destinazioni effettive, che se dovessero essere riproposte come in origine, cioè europee ed italiane, esporrebbero la nuova Alitalia ad un impatto concorrenziale non indifferente, dato che si muoverebbe in un mercato in cui è forte la presenza di compagnie low cost in grado di erogare servizi a prezzi stracciati, grazie ad una politica di compressione al minimo dei costi, cosa che non appare immediatamente proponibile per il vettore CAI. D’altra parte il load factor, indicatore di punto di pareggio di un vettore aereo su ogni singola tratta, per una compagnia agli esordi e con costi gestionali abbastanza rilevanti come quelli con i quali parte la nuova Alitalia, non consentirà politiche di prezzi accattivanti anche sulle direttrici di grosso traffico.C’è da augurarsi, dunque, che i quesiti ancora insoluti trovino rapidamente una loro composizione, dato che nel settore del trasporto aereo ormai la struttura dei costi fissi è tale da non ammettere né avventurismi né approssimazione e la concorrenzialità si gioca sul governo dei costi variabili, aspetto sul quale sin dal suo esordio la nuova Alitalia non pare avere ampio margine di manovra.Va infine ricordato, ma non per questo di secondaria importanza, che l'operazoine dovrà superare indenne l'esame di Bruxelles, che dovrà dare il placet all'intesa sottoscritta ed all'acqusizione da parte di CAI di Alitalia, AirOne e Wolareweb. E sull'esito di questo passaggio non va trascurato qualche dubbio, particolarmente riguardo alle problematiche connesse con la prevista bad company, nella quale dovrebbero confluire i quasi 1,5 milioni di passività della vecchia Alitalia (che fine faranno gli 1,1 milioni di passivo AirOne non è ancora noto), poiché tale bara debitoria resterà in carico al Tesoro, che accollerà ai cittadini l'onere del suo azzeramento: non si tratta forse, sotto al tra forma , di aiuti di stato? Certo, si potrebbe sempre ribattere ai Commissari comunitari che lo smaltimento di questi rifiuti tossici sarà dirottato a Chiaiano per essere incenerito con la tanta spazatura che ammorba non solo la Campania ma tutta la Repubblica

lunedì, settembre 22, 2008

Autoritarismo di destra e rinascita della sinistra


Lunedì, 22 settembre 2008
I fatti delle ultime settimane stanno rendendo dirompente il dibattito sulla crisi incalzante nella nostra società. Ciò non perché l’argomento non sia stato di ricorrente attualità in ogni tempo, quanto per l’escalation che sta subendo in modo strisciante e inarrestabile il quadro sociale, economico, culturale e politico, in altri termini i fondamentali nazionali, a partire dagli storici eventi consuntivati con i risultati delle ultime elezioni politiche.
Per quanto non si possa discutere sull’influenza che ogni aggregazione umana subisce dall’effetto di una globalizzazione inarrestabile, la trasformazione e, in più di qualche caso, la frantumazione di storici “blocchi ideologici” di riferimento, più o meno forti in alcune realtà piuttosto che in altre, ha sicuramente contribuito con un perverso meccanismo causa-effetto a determinare processi tentativi di ridisegno della mappa culturale e dei valori della comunità, il cui esito non è ancora compiuto, ma di cui si percepiscono i tendenziali approdi.
La disgraziata esperienza del governo Prodi, coacervo di una sedicente sinistra obbligata a sommare forze contraddittorie e con radici divergenti per presentarsi con la necessaria autorevolezza egemone, ha segnato il capolinea di un’esperienza incapace di trasformare in fatti compiuti decenni di ambiziose aspirazioni di giustizia, equità, riscatto di categorie storicamente deboli. La sua implosione s’è originata non tanto nell’improbabile tentativo di descrizione di una rotta comune tra Bertinotti e Mastella, giusto per citare due estremi inconciliabili, quanto nell’aver privilegiato vuote ed antistoriche battaglie di principio e di facciata e nell’incapacità di affrontare in concreto le vere emergenze alla base del riscatto di quelle categorie sociali radice del consenso. Lo scenario creatosi sulla base di queste premesse, contraddistinto da risse improduttive nell’ambito della coalizione e da un gioco di veti incrociati in una palude di tragico immobilismo, ha dovuto fare i conti con il revisionismo prematuro di una parte delle forza storiche della sinistra, alla ricerca di una nuova identità egemonica.
La nascita del PD, con la confluenza al suo interno dei residui del vecchio liberismo clericale-progressista e dell’ala realista dei DS, in una nuova aggregazione populista affidata ad una leadership ecumenica prostrata all’altare della rivalutazione dei modelli strombazzati dagli avversari, incapace per questo di esprimere comunque un qualsiasi tratto di continuità con il passato, ha determinato una crisi di identità senza precedenti, dato che il linguaggio espresso dai nuovi predicatori non differiva nella sostanza da quello di un opposizione maggiormente compattata e definitivamente più accreditata nel propagandare modelli di governo in grado di rispondere alle esigenze di un contesto sociale promiscuo e stratificato.
L’inevitabile sconfitta delle sinistre ed il confinamento al ruolo di opposizione della neocompagine progressista, ha avuto il duplice effetto di confermare come la momentanea alternativa a Berlusconi rappresentasse solo un vicolo cieco e senza prospettiva e che il destino del Paese non potesse che propendere verso il modello da tempo invocato dalle destre. Questo d’altra parte si confermava con la revisione precipitosa attuata dagli scampoli dell’ex-comunismo militante incarnato dai DS. L’indiretta conferma di legittimazione culturale e prospettica, avallata altresì dall’inaudita migrazione di intere fette d’elettorato da Diliberto, Bertinotti e Pecoraro Scanio al PDL o alla Lega di Bossi, hanno impresso all’attuale leadership politica la convinzione che i cittadini siano disposti a sacrificare buona parte di quelle libertà, che, in fondo, non hanno prodotto valore aggiunto alle condizioni di vita, per un sistema di governo in grado di garantire maggiore sicurezza, più ordine, attraverso il ripristino di regole di certezza divenute evanescenti. Sfortunatamente questo bisogno risponde ad un’emozione disillusa, ad una interpretazione della realtà basata sulla perdita di riferimenti certi, e non ultimo alla sordida rabbia verso una politica opportunista e inconcludente sempre più avulsa dalle esistenze ed intenta all’esercizio dei propri giochi di potere. Poco rileva che queste emozioni siano il frutto non dell’assenza di regole di vivere comune quanto della loro inosservanza e della loro sistematica elusione nel tempo.
Di fronte a questo rigurgito di reazione, concretizzato con l’esercito nella strade cittadine, con una reintroduzione di meccanismi impropri di valutazione del rendimento scolastico, con l’assalto senza esclusione di colpi al sindacato, con i proclami contro la prostituzione di strada, con i giri di vite sull’immigrazione, che rammentano un’ormai sopita epoca di autoritarismo invasivo e becero e che costituisce il potente oppiaceo ai reali problemi di una comunità allo stremo, – afflitta dall’insostenibilità del regime dei prezzi dei beni primari, da una disoccupazione ed un’occupazione precaria dilaganti, dalla squallida qualità dei servizi essenziali, dalla terziarizzazione violenta dell’economia, dall’incremento esponenziale della povertà e della ghettizzazione di interi nuclei familiari e così via, - il cittadino conduce la sua vita obnubilata e assuefatta, convinto che non sia possibile un sistema alternativo in grado di rispondere in modo più adeguato alle sue esigenze. Anzi vede in questa deriva antistorica l’unica via possibile e capace di garantire una convivenza sempre più problematica e messa sistematicamente a repentaglio dalle spinte corporative di “categorie straccione” verso le quali e necessario mantenere lo status quo per non esservi fagocitati.
L’errore più grossolano che può compiersi davanti a questo stato di cose è il concentrare l’attacco su di un falso bersaglio, quel berlusconismo considerato a torto l’origine dei mali della nostra società, sui quali ha trovato fertile humus una cultura già infettata da modelli qualunquistici e marchiata da un egoismo individualista di portata planetaria. Il berlusconismo è stato solo uno stile casereccio di tradurre in modelli di aggregazione, – o di disgregazione, se si preferisce, - le istanze multiple di una società post-industriale indotta dal benessere post bellico e dal bombardamento mediatico al consumismo sfrenato. Questa società dopo la caduta del nemico storico del “blocco occidentale”, l’impero autoreferenziale comunista, ha definitivamente smarrito il senso dei confini tra buono e cattivo, lecito ed illecito, che da sempre aveva costituito il termine di raffronto tra libertà e negazione della stessa. Il dissolvimento di questo muro non solo ideale tra civiltà ha consentito un rapidissimo import/export di modelli negativi e problematiche alle quali non si era forse sufficientemente preparati. L’assunzione di modelli consumistici emulativi da parte dei cosiddetti “paesi liberati”, ha corrispondentemente imposto per l’Occidente l’assunzione di fardelli di solidarietà che mal si contemperavano con il crescente individualismo delle società sedicenti più evolute, chiamate a sostenere l’onere di una modernizzazione tecnologica senza precedenti e di creare le condizioni per uno stile vita sconosciuto ai tempi della cortina di ferro. E, nel suo piccolo, il fenomeno ha un suo emulo in Italia, dove anni di sussidi sprecati per il riscatto e l’ammodernamento del Mezzogiorno, hanno alla fine generato una “questione settentrionale” ed una Lega insofferenti del depauperamento delle proprie risorse in nome di una riscatto di un Sud refrattario, risorse che nel tempo hanno solo ingrassato la rendita del malaffare e di una politica corrotta al suo seguito. Questo degrado, dunque, non è un fenomeno nazionale, ma è il prodotto di un’inesorabile trasformazione globale che ha interessato le economie più floride ed è debordato a livello universale grazie ad un sistema mediatico senza confini.
In questo quadro, dunque, è erroneo continuare a concentrare il proprio fuoco di sbarramento sul berlusconismo, che di fondo incarna il revanscismo delle classi più abbienti della nostra società alle quali si sono tacitamente alleate le frange di una borghesia sempre più in procinto di precipitare nell’orrore della povertà disperante. Il privilegio che ha riservato Prodi alla politica di rigore e di risanamento, politica necessaria ma gravata in massima parte sui redditi fissi e su le classi medie, non poteva che trasformarsi in un poderoso acceleratore per quell’opposizione politica che, di una stratificazione sociale forte e pilotata, ha da sempre fatto il proprio credo.
Questa divaricazione così netta di missione, che sebbene non dichiarata al rango di neoideologismo, marca il confine tra quella destra e quella sinistra di cui è difficilissimo cogliere varianti progettuali di primo acchito, è la vera questione con la quale deve misurarsi l’opposizione, che non può continuare a trasmettere un’immagine di edulcorato dissenso nel tentativo di acquisire il suo sdoganamento nella pubblica opinione. Né sembrerebbe vincente un ritorno alla pratica dello scontro frontale duro e di principio, dato che da un muro contro muro vi potrebbe essere il concreto rischio che l’alternativa al governo Berlusconi fosse una definitiva svolta autoritaria da cui sarebbe ancor più problematico sperar venire fuori. E’ più probabile che un ricambio alla guida del PD, che faccia piazza pulita di tutti gli impresentabili padri degli errori sin qui commessi senza la quale il movimento non acquisirebbe la necessaria credibilità, corroborato dall’individuazione di un progetto di largo respiro, che in qualche misura recuperasse una certa ortodossia, ed un’azione di forte impegno e di presenza nel territorio, possano costituire le basi possibili di un’inversione di tendenza. L’altro aspetto da non sottovalutare è il principio sempre valido che è con l’unione che si vince e non con i distinguo, che allargano distanze e marcano differenze. AN che sicuramente ha una base ideologica radicata, ma che ha perso quote significative del suo peso in conseguenza delle ricorrenti tarature che ha fatto nelle sua progettualità, oggi confluisce in quel PDL con il quale ha sì affinità elettive, ma che non ha certo analoga visione nostalgica del mondo. Questo passo avanti che si richiede al PD di riaggregare le forze orfane di una sinistra boccheggiante appare in definitiva come l’unica possibile via da percorrere in vista di un rinnovato ricambio politico alla guida del Paese e che faccia recuperare a chi conserva ancora qualche speranza la convinzione che non tutto sia perso ma che si debba solo attendere che la nottata passi.
(nella foto, Enrico Letta membro della direzione del PD)

sabato, settembre 20, 2008

Alitalia: una trattativa già segnata sul nascere

Sabato, 20 settembre 2008
Il fallimento delle trattative per la cessione dell’Alitalia alla CAI, che qualcuno da destra e da sinistra sta cercando di recuperare in base al principio del “tanto meglio tanto peggio” e mentre un deluso Berlusconi continua a stillare veleno contro Cgil ed Anpac, accusate di essere le uniche e vere responsabili dell’eventuale fallimento della Compagnia, costituisce gioco forza un momento di pausa, che consente di fare il punto sulla situazione, magari per precisare quanto sino ad oggi non è stato detto, né dalle parti in causa né da una certa stampa sedicente obiettiva e d’informazione, che dimostra con le sue omissioni come abbia piuttosto subito qualche condizionamento dagli attori di questa miserevole vicenda.
Il piano Fenice. Intesa S. Paolo viene incaricata dall’attuale governo, che la nomina advisor, di elaborare un piano di salvataggio per l’Alitalia, che ne definisca valore, piano industriale di rilancio, dotazione di capitale, organici, tratte operative, costi sostenibili e prospettive di redditività.
La banca elabora sì un piano, di cui peraltro lo stesso Berlusconi si innamora, ma mette in piedi una cordata di imprenditori nazionali, la CAI, che sposa quel piano e decide di avvalersi per l’avvio e la gestione della trattativa con le parti sociali della consulenza della stessa banca, che da quel momento si ritrova in evidentissimo conflitto d’interesse, su cui nessuno indaga o muove il minimo sospetto.
Il piano, presentato al tavolo del negoziato come “blindato”, prevede la fusione di Alitalia con la concorrente AirOne di Carlo Toto ed ai due vettori aerei viene rispettivamente accordata la seguente valutazione: poco più di 300 mila euro per la vecchia Alitalia, proprietaria di 140 aeromobili e affittuaria di altri 100 aerei e titolare di slot per decine di milioni, e 300 mila euro alla AirOne, proprietaria di qualche decina di slot e con una flotta di 65 aeromobili interamente noleggiati, che gravano sul bilancio in modo rilevante causa l’elevata rata di leasing garantita dalle banche. Il passivo di Alitalia, pari ad 1,4 miliardi all’aprile di quest’anno, confluirà nella cosiddetta bad company e l’onere sarà a carico dei contribuenti, dato che il marciume resterà in carico al Tesoro. L’AirOne, nonostante le più contenute dimensioni rispetto alla concorrente da impalmare, presenta una situazione debitoria vicina al miliardo all’inizio del corrente anno: nulla si dice circa la confluenza dei debiti in questione, ma logica lascerebbe presumere che il matrimonio sarà consumato nella buona sorte così come nella cattiva, cioè con accollo alla bad company anche di questo debito, che il mitico Pantalone sarà chiamato a soddisfare in comode rate.
Sulla questione esuberi si è assistito ad un valzer di numeri, peraltro mai smentiti, a dir poco vergognoso, dato che si è sempre parlato di 3.000/3.250 eccedenti, senza che in concreto i dati siano stati verificati. Il complesso dell’organico delle due società è infatti pari a 22.500 dipendenti circa, dunque se si assume che i dipendenti dichiarati assorbibili dalla CAI erano stati stimati in 12.500 (tra l’altro dopo il rilancio di Colaninno a poche ore dal fallimento della trattativa di assumere altri 1.000 dipendenti), gli esuberi totali avrebbero dovuto ammontare a 10.000 unità, cioè ad una cifra mai emersa nel corso della trattativa né evidenziata da alcun organo di stampa.
Il piano industriale presentato dalla CAI prevedeva l’esercizio di 65 rotte con 140 aerei, tra europee e nazionali, talune già abbondantemente coperte da compagnie low cost, con le quali entrare in concorrenza è da ritenersi più che avventuroso, che nelle previsioni degli estensori del piano – ma sarebbe più appropriato parlare di speranze – avrebbero dovuto condurre al pareggio di bilancio nell’arco di un biennio. Nulla si diceva dell’esercizio di rotte intercontinentali, in gestione diretta o in partnership o code sharing con altri vettori, tratte sulle quali si gioca l’effettiva redditività di una compagnia aerea. Come ha rilevato qualche attento osservatore, «anche ipotizzando un incremento non trascurabile di efficienza, con un aumento significativo del fatturato medio per velivolo, ci si dovrebbe attendere comunque una riduzione molto elevata del fatturato complessivo della CAI rispetto all’aggregato delle due compagnie preesistenti, che non trova tuttavia corrispondenza nel piano industriale. I media riportano un valore di 4,3 miliardi di euro, destinato a crescere negli anni successivi sino a 5,2 miliardi, mentre il dato aggregato di Alitalia e AirOne era nel 2007 di 4,9 miliardi. In sostanza mentre nel 2007 un aereo delle due compagnie produceva in media 20 milioni di ricavi, già nel primo anno di attività della nuova Alitalia ne porterebbe a casa ben 31 milioni (il 56% in più). Un risultato strabiliante, non c’è che dire, per degli imprenditori che non si sono mai occupati in precedenza di trasporto aereo, con l’eccezione del solo Toto, che non pare abbia brillato per efficienza manageriale al cockpit di AirOne».
La trattativa. Costituisce l’aspetto più anomalo dell’intera vicenda. I dipendenti Alitalia aderiscono a ben 9 sigle sindacali, rispettivamente ANPAC, ANPAV, AVIA, UP, SDL, FIT-CGIL, FILT-CISL, UIL Trasporti e UGL, oltre ad avere una RSA, che sin dall’inizio delle trattative è stata tenuta fuori dai negoziati: in ogni caso uno spezzatino, spesso corporativo, in cui è difficile districarsi. Le sigle confederali e l’UGL costituiscono insieme poco più del 21,0% degli iscritti al sindacato, quindi sono largamente minoritarie rispetto al peso dei raggruppamenti autonomi e di categoria; in particolare l’UGL rappresenta una percentuale priva di significato nel panorama descritto.
Nonostante i numeri sopra detti, il vertice della CAI ed il Governo si ostinato a convocare al tavolo quali interlocutori privilegiati della trattativa i Confederali e l’UGL e con questi ha preteso sino all’ultimo istante di concludere un accordo, che consentisse di considerare chiusa la questione Alitalia. E tale risultato era stato in parte raggiunto con l’intesa sottoscritta nel corso di una nottata di trattative con CISL, UIL e UGL e l’elaborazione di un documento programmatico che dava il via libera all’operazione CAI, tra le più che motivate proteste delle sigle sindacali escluse. La stessa CGIL, desiderosa di non incorrere nello stesso gravissimo errore commesso alcuni mesi or sono con la firma dell’intesa sul welfare e riforma delle pensioni, riteneva opportuno comunicare la propria adesione con riserva al documento, riserva da sciogliere solo a condizione di realizzare una larga convergenza con le sigle sindacali escluse dal tavolo della trattativa e rappresentative di quasi l’80% dei dipendenti della Compagnia. Com’è noto, tale convergenza non si è realizzata e la CAI ha comunicato il ritiro dal tavolo del negoziato.
Sorprendentemente al tavolo della trattativa non è mai stato chiamato alcun rappresentante della AirOne, il cui personale avrebbe comunque dovuto seguire le sorti di quello Alitalia o, come si può presumere dal silenzio nel quale è stata confinata la cosa, pagare persino un prezzo più elevato di quello riservato ai dipendenti Alitalia, come si trattasse di un organico figlio di un dio minore.
Le osservazioni. Dalla cruda sintesi emergente dai dati sopra riportati, - reperibili da chiunque avesse voglia di dedicare qualche giornata del proprio tempo alla consultazione dei vari articoli di giornale, siti web, blog e stampa on line, dato che le omissioni sulla completezza dell’informazione in quest’occasione sono state esemplari di come il regime abbia ormai soffocatola anche libertà di cronaca, - appare chiaro come la questione Alitalia presenti più di qualche buco nero, di cui imprenditoria, finanza e politica, hanno collusive ed omissive responsabilità. Si tratta di un pasticcio rancido nel quale non è secondario persino il ruolo di alcuni sindacati, ai quali i fumi dell’autoritarismo galoppante devono aver dato alla testa ed hanno fatto dimenticare loro che la democrazia è maggioranza, non certamente violenta imposizione del proprio ruolo anche nelle realtà in cui non si conta niente. Queste pratiche invasive e protagonistiche, che si sublimano nell’acquiescenza al potere dominante e che lasciano sottintendere la difesa di un inconfessabile tornaconto, in nome del quale si è disposti a sacrificare gli interessi di tanti e, se necessario, persino la faccia, sembrano riportare all’epoca dei sindacati gialli, ormai persi nella memoria, ma, a quanto si constata, mai sopiti nel perverso immaginario di qualche leader attuale.
Altrettanto sprezzante non può che essere il giudizio su certe rappresentanze del capitalismo e della finanza nostrana, formatosi ad una scuola di bassi compromessi e devotamente riconoscente in ogni circostanza possibile a quella classe politica che ne sponsorizza le azioni e ne ispira l’iniziativa. La superficialità con la quale si è vergato un documento lacunoso ed approssimativo e lo spaccio dello stesso per pomposo piano industriale non è solo un offesa ai lavoratori che guadagnano da vivere per sé e le loro famiglie nei carrozzoni che i loro padroni chiamano aziende, ma è uno schiaffo ai milioni di Italiani che hanno sborsato di tasca loro il contributo per mantenere in vita questi carrozzoni, costretti ad elargire stipendi e liquidazioni principeschi ai loro manager pusillanimi, spesso incapaci persino di gestire il proprio bilancio familiare, ma collocati in posti di prestigio solo per lecchinaggio alla politica. Non meno dure critiche possono rivolgersi alla politica, e non solo quella rappresentata da Berlusconi con la quale certamente s’è toccato il fondo, ma che sarebbe del tutto arbitrario ritenere in via privilegiata responsabile del disastro Alitalia. Nella catastrofica storia di Alitalia hanno responsabilità le decine di governi che dalla sua costituzione si sono succeduti alla guida del Paese, che hanno imposto assunzioni clientelari, l’accettazione di accordi sindacali demenziali, la gestione di tratte prive di ritorno economico, l’acquisizione di compagnie di amici in situazione fallimentare, l’impiego di manager amici ed amici degli amici, incapaci di distinguere un aereo da un pallone meteorologico, politiche di gestione della flotta suicide sul piano finanziario
Lascia altresì perplessi l’atteggiamento della magistratura, particolarmente quella contabile, che non rilevi alcunché di meritevole d’indagine nel comportamento di un advisor pubblico, sul quale grava il dovere di fedeltà nei confronti del mandante e che non si pone invece alcun problema di accettare incarico della stessa natura da parte di una delle parti in causa nel processo di collocazione dell’azienda di cui ha condotto stima. Ma quali sono gli assets che hanno consentito di valutare AirOne al pari di una compagnia con un avviamento costruito in quasi 60 anni d’attività? Ci dica Intesa S. Paolo se è estranea alle operazioni finanziarie di Carlo Toto, così rimuovendoci il dubbio che tanta clemenza nei confronti di AirOne non sia piuttosto il frutto del tentativo di salvataggio di quella compagnia che dell’Alitalia.
La smetta questo premier zimbello del mondo con la solfa monomaniacale che tutto ciò che gli va storto per imperizia, per incapacità o per semplice sbruffoneria sia colpa dei comunisti: se mai così fosse, cosa che purtroppo non è, causa l’estinzione del somatotipo, l’opposizione avrebbe fatto solo il proprio dovere alla luce dei dati, a dispetto della sua radicata visione del mondo fatta da un principe e dei vassalli. Spenda ogni tanto un po’ del suo tempo a meditare sulla critica ed impari a rispettare l’altrui opinione, specialmente se poi pretende che gli avversari gli portino rispetto. La trattativa della CAI è fallita perché basata su presupposti irricevibili e poco trasparenti, oltre che per la palese insufficienza del piano di rilancio. L’esser delusi per aver fallito nel mantenere una promessa fatta agli elettori è comprensibile, ma è molto più dignitoso ammettere la sconfitta per non esser riusciti a costruire una cordata credibile che accusare istericamente i compagni di banco del proprio insuccesso. I grandi uomini sanno assumersi la responsabilità dei progetti andati male e, parimenti, sanno mantenere un comportamento umile davanti al successo. Coloro, invece, che martellano con accuse infondate gli altri addossando loro il frutto delle proprie incapacità sono destinati alla lunga al dileggio e a scomparire nell’oblio.
Sbaglia infine Enrico Letta e chi con lui si schiera nel chiedere alla CGIL un ripensamento e di firmare l’improponibile accordo con la CAI, non solo per la valutazione che anche lui dovrebbe fare dei dati riassunti sopra, ma perché non faccia l’errore di ritenere che un gesto populista suggerito ad Epifani può fargli guadagnare l’accredito presso un elettorato in cui le ferite, provocate dalla sciagurata esperienza Prodi, sono ancora sanguinanti. Rammenti il signor Letta che la difesa della democrazia talvolta può rendere impopolari ed al cospetto della reazione può passare persino per eversione. Ma meglio correr questo rischio che allinearsi mestamente.

giovedì, settembre 18, 2008

Le radici del default morale e culturale italiano


Giovedì, 18 settembre 2008
L’onda nera che giorno dopo giorno sembra sovrastare le coscienze degli Italiani ha un nome preciso, Silvio Berlusconi, ed affonda le sue radici nel decadimento morale e culturale del Paese consolidatosi nell’ultimo quindicennio di storia repubblicana.
Correva l’anno 1992 quando un gruppo di giudici della Procura di Milano, avanguardia nella lotta alla criminalità dei colletti bianchi, apriva un capitolo nuovo nella storia giudiziaria del Paese e con una serie concatenata di iniziative metteva in luce quanto da sempre si sapeva e si mormorava nei corridoi a proposito di un sistema di malaffare radicato e largamente diffuso, che coinvolgeva la vita economica e politica. Naturalmente, mentre si sapeva da dove si partiva, era difficile immaginare a quel tempo dove un’indagine su un certo Mario Chiesa avrebbe condotto, così come e nonostante le tante voci, l’opinione pubblica non poteva minimamente sospettare che il cancro, che via via veniva alla luce, potesse coinvolgere personaggi ai vertici della politica e dell’economia nazionale.
E’ superfluo ripercorrere la storia di “mani pulite” e ricordare i nomi altisonanti che in quelle vicende si trovarono coinvolti. E’ molto più istruttivo rammentare che, a parte qualche ladro di galline e qualche carriera politica stroncata prematuramente (Craxi, Goria, Gava, De Lorenzo, Forlani, Previti, giusto per citare qualche nome di rilievo), in realtà le inchieste si chiusero con un sostanziale nulla di fatto e con la disgregazione del pool milanese, la cui credibilità fu minata dal discredito dei tanti mezzi d’informazione al servizio dei potentati occulti, minacciati dalle indagini.
E’ di quegli anni la ormai famosa discesa in campo di Silvio Berlusconi, che spinto, a suo dire, dal desiderio di fornire un contributo politico diretto alla democrazia del Paese, ma in verità motivato dalla necessità di difendersi con ben altri armi che solo quelle avvocatizie dalla decina di inchieste aperte a suo carico, fonda Forza Italia, il partito-azienda, e promuove un fuoco di sbarramento mai visto in una democrazia moderna contro la magistratura e contro gli apparati investigativi che sui suoi poco leciti affari indagano. Nel frattempo, come per miracolo, la Fininvest, società proprietaria dei suoi canali mediatici, che denuncia debiti astronomici, nell’arco dei successivi sei mesi dalla discesa in campo del Tycoon di Arcore e la sua elezione alla guida del governo, risana la situazione di esposizione verso le banche ed inizia una vera e propria opera di disinformazione culturale attraverso Rete Quattro, Canale Cinque e, soprattutto, Italia Uno, che si rivolge al pubblico più giovane e, quindi, più esposto al plagio mediatico.
A rischio di veder travisate le nostre considerazioni in moralismo bigotto, - di cui non siamo portatori né comunque sarebbe nelle nostre intenzioni, - ma con l’obiettivo di rendere palpabile l’analisi, è opportuno condensare la descrizione del bombardamento mediatico percepito cui ci ha sottoposto la televisione berlusconiana dall’esordio dell’ormai mitico Drive In, con l’avvertenza che Berlusconi non è certo l’inventore di questa TV spazzatura e che, in sua assenza, comunque la spazzatura ci sarebbe stata ammannita da qualche altro “benefattore” mediatico, ma è lui che con l’abuso l’ha trasformata in strumento di oppio delle coscienze.
Così i modelli di una società improbabile, fatta di formose signorine disponibili e ammiccanti, di belle auto, di gadget tecnologici tanto desiderabili quanto inutili, di un consumismo deleterio ed effimero, prendono rapidamente piede, forgiando intere generazioni di teen agers alla percezione di un mondo surreale, nel quale l’apparire ha netta supremazia sull’essere e dove anche i rapporti umani, intrisi dei nuovi valori usa e getta, si disgregano implacabilmente. La programmazione di queste emittenti è un’orgia di cinematografia violenta e bullista, di format demenziali, di squallidi sketch spacciati per cultura alternativa, di trasmissioni affidate a coatti manipolatori del sottobosco, di ostentazione sfacciata di apparati anatomico-sessuali ipertrofici, di oscene riprese di dementi rinchiusi in una finta casa a turpiloquiare o a scambiarsi effusioni tali da fare impallidire il mitico Le Ore, di smidollati prezzolati per raccontare le proprie squallide avventure o a caccia di fidanzate e amanti alla corte di quella Maria De Filippi esponente di spicco della cultura mentecatta, e così via, comunque di palese istigazione ad un degrado morale contrabbandato per modernismo dei costumi, ma che, nei fatti, determina uno scenario sociale di riferimento privo di identificazione e prospettiva.
In questa giostra di cosce, glutei, seni prosperosi, ragazze compiacenti e giustizieri impuniti, si è formata più di una generazione di ragazzi, illusa che la vita quotidiana dovesse e potesse essere riprodotta in copia ricalco a quella vista sul piccolo schermo, senza freno morale e, quel che è peggio, in modo acritico e massificato, le cui ambizioni massime avrebbero dovuto sintetizzarsi nello sballo in discoteca e nel rimorchiare la squinzia di turno. Ecco allora promosse a modello di riferimento le orrende visioni che ammorbano le strade metropolitane, pullulanti di risicate mutande sexy che emergono dal girovita, di camicette svogliatamente slacciate su seni acerbi fintamente prosperosi, di braghe con cavalli penzolanti, di scarpe da ginnastica con ammortizzatori tecnologici e antidirapamento, magari indossate da fanciulle con le quali la natura è stata avara e da giovanotti per i quali l’orrido è modello d’eccellenza.
A quest’orda di rincitrulliti, ormai endemici, fa eco la schiera dei rincoglioniti consenzienti, costituita da coloro che affidano esclusivamente al valletto Emilio Fede o a Paolo Liguori l’esclusività della loro informazione sui fatti del mondo. Costoro, affetti da fideismo patologico, grave e persistente, sono usi consegnarsi ai telegiornali di questi signori e non guardano se non occasionalmente notiziari concorrenziali, né leggono un giornale o una rivista, almeno per sottoporre a verifica ciò che hanno già sentito. Sono come chiusi dentro una scatola, nella quale fanno rapidamente ritorno quando raramente sollevano il coperchio, seriamente convinti che ciò che hanno visto o udito nel venirne fuori non può che esser frutto di una controinformazione di stampo comunista, e per questo falsa e distorcente la verità; - qualcuno di nostra conoscenza ebbe tempo fa a dichiarare con fierezza che a suo giudizio l’informazione più seria era quella di Striscia la Notizia, meritevole di additare al pubblico ludibrio i malfattori e le vessazioni cui soggiace giornalmente il cittadino. In quanto alla politica, è cosa sporca di per sé e, certamente, non vale la pena perdere il proprio tempo per sentirsi raccontare valanghe di insulse bugie.
Pur nel rispetto delle altrui vocazioni, che se non può vietare di far critica non può parimenti imporre condivisione, ciò che da questo quadro desta più di qualche preoccupazione è il fatto che questa fauna costituisce di fondo la base del consenso elettore di Berlusconi e che l’Italia del terzo millennio sia ormai in una sorta di irreversibile deriva etico-culturale, che per “necessità” ha contaminato anche la cosiddetta opposizione, costretta a misurarsi con un avversario con il quale non ha alcuna affinità di retroterra, ma che la costringe a scendere su un terreno di confronto con il quale non ha dimestichezza. Questa mancanza di praticantato populista la rende timorosa ed esposta agli attacchi dell’avversario, che non tralascia alcuna occasione per tacciare di comunismo retrò o di ossessione anti berlusconiana ogni iniziativa messa in campo per arginare lo strapotere del Cavaliere o per riconquistare consensi. Questa debolezza congenita, che sfocia talora in pavido autolesionismo, non ha d’altra parte consentito di varare alcun provvedimento legislativo contro il conflitto d’interessi durante il governo delle sinistre, con il risultato che oggi ci ritroviamo in sella un Berlusconi ringalluzzito e forte di uno strapotere conquistato per demerito degli avversari più che per merito proprio.
Il PD di Veltroni, che obtorto collo è rimasto l’unico faro nella nebbia fitta calata dopo lo storico ridimensionamento della sinistra, è sempre più incapace di esercitare un ruolo di contrapposizione allo strapotere rappresentato dal neoperonismo di Berlusconi, così chiuso nel suo autoreferenzialismo egemonico e così intento ad impartire eleganti lezioni cattedratiche di collaborazionismo costruttivo, dimentico che l’opposizione si esercita nelle strade, nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nelle università, dove quotidianamente si concretizzano le violente sopraffazioni di un regime che sta dimostrandosi non conservatore ma profondamente reazionario, arrogante e nostalgico di un autoritarismo ai più ormai sconosciuto.
Il progetto della presumibilmente estinta P2, - di cui Berlusconi costituiva membro organico, - appare sempre più in corso di realizzazione e perfezionamento, grazie ad un sistema politico nel quale è presente un partito unico di governo, forte e largamente sostenuto dal consenso popolare, che gestisce con mano ferrea i gangli della vita pubblica, stabilendo persino chi dovrà occupare le liste elettorali e rappresentare i cittadini, che perpetra una guerra sordida per addomesticare sindacato e dissenso, forte dell’imponente concentrazione nelle sue mani dell’informazione mediatica, della leadership dell’economia e della finanza e del presidio invasivo delle istituzioni.
Un’opposizione che sia incapace di percepire questa realtà sostanziale e si fermi alla superficie, che consideri il suo compito istituzionale esaurito nell’espressione del suo dissenso nei salotti culturali, dimentica che le battaglie per la democrazie e la libertà si giocano con tutti i mezzi, anche con il costante richiamo alla dura contestazione di piazza, non può che essere fallimentare ed impone un immediato ricambio organico di leadership che le inoculi la necessaria vitalità e fermezza.
E’ evidente, dunque, come il certosino lavorio ai fianchi del sistema democratico, perpetrato quasi con scientifica metodologia nell’ultimo quarto di secolo dalle ambizioni mai sopite di forze oscure, di cui Berlusconi è esponente e Gran Maestro, abbia provocato l’inesorabile caduta delle tensioni morali, dell’attenzione e della partecipazione dei cittadini, il cui disgusto per la politica è il sintomo più significativo. L’aver abiurato, poi, principi ideologici incontrovertibili, come l’esistenza di un proletariato e di un sottoproletariato – rappresentato oggi dai milioni di precari sfruttati e dal crescente numero di poveri e disperati che affliggono la nostra società – in nome di un modernismo di maniera e solo per smentire l’immagine maligna su cui ha giocato il populismo conservatore del Cavaliere, ha trasmesso, a coloro che avevano creduto di ottenere il loro riscatto con la sinistra, la definitiva sensazione di esser rimasti orfani ed in balia di un sistema, che ormai li vede solo come un disprezzabile fardello, qualunque sia la colorazione politica.
D’altra parte, è già dai lontani anni ’80 che v’è denuncia dell’incapacità delle sinistre, rimaste arroccate a difesa di nostalgici stereotipi, di percepire le profonde trasformazioni intervenute nel tessuto sociale e nel mondo del lavoro, fatte di nuove professioni e, quindi, di nuove istanze di rappresentanza non più massificabili nell’immagine di una manualità operaia morta da tempo. Questa sinistra cieca e massimalista, incapace di revisionare il proprio ritardo culturale, anziché continuare a concentrare la sua attenzione sul vero avversario di classe, costituito da un capitalismo che mai assumerà un volto umano e che giorno dopo giorno si spersonalizza nella globalizzazione, ha stupidamente allargato il fronte del confronto, individuando in impiegati, tecnici e funzionari un ulteriore nemico da battere, piuttosto che percepire queste categorie emergenti come il risultato dell’inevitabile trasformazione tecnologica delle prestazioni umane ed aggregarle ad una riformulata strategia di lotta di classe. E questo errore, - mentre attecchivano le pratiche manipolatorie e di plagio messe in atto dalla reazione, - ha nel tempo condotto alla definitiva sconfitta di un intero establishment politico. Né il PD attuale sembra avere le credenziali etiche e di guida per ricompattare un tessuto sociale lacerato ed allo sbando.
Difficile prevedere se e come il Paese potrà riallineare il piano inclinato sul quale gravita in pericoloso e inarrestabile scivolamento. Certo è che sino a quando l’autore – o comunque l’acceleratore - di questo processo continuerà indisturbato ad imporre le sue regole, schiacciando i cittadini sotto il suo tallone e nella più completa assuefazione, difficilmente potranno esserci inversioni di tendenza. Né pare ci siano al momento proposte alternative tali da controbilanciare o erodere il consenso che gode. C’è da sperare solo che, in pieno delirio d’onnipotenza, chi ha contribuito in modo determinante a ridurre così il Paese, illudendosi di avere imposto un regime irreversibile, si faccia presto o tardi lo sgambetto da solo e metta in luce le sue perversioni.

mercoledì, settembre 17, 2008

Demenzialità tra calcio e politica


Mercoledì, 17 settembre 2008
Qualche giorno fa, a proposito degli indecorosi sproloqui cui sono sempre più frequentemente avvezzi i nostri politici, avevamo richiamato un vecchio adagio, secondo il quale tener chiusa la bocca e dar l’impressione di esser stupidi è talora meglio che aprirla e confermare quei sospetti.
Il richiamo, come c’era d’attendersi, non è purtroppo arrivato a destinazione ed in questo valzer crescente di stupidità è incappato questa volta il Ministro dell’Interno Roberto Maroni, intervenuto a margine della querelle da Caffè Sport in corso tra José Murinho, allenatore dell’Inter, e Pietro Lo Monaco, amministratore delegato del Catania Calcio.
La vicenda, diventata nel giro di qualche ora tragica dal comico iniziale, prende il via dalle dichiarazioni di Lo Monaco ai danni di Murinho, secondo le quali l’allenatore portoghese meriterebbe solo “calci sulle gengive” per le altezzose esternazioni cui è avvezzo sulle sue qualità di tecnico e sui suoi successi.
Fin qui non ci sarebbe che da registrare la maleducazione di un Lo Monaco che ricorre a fraseggio da stadio – giusto per restare in tema – per apostrofare un personaggio che, a dire il vero, non sembra fare grandi sforzi per farsi apprezzare per la modestia ed il senso della misura; fraseggio di cui l’interessato è certamente consapevole di doversi accollare la responsabilità nei confronti della giustizia sportiva, - notoriamente meno tollerante di quanto non sia la giustizia ordinaria. C’è infine da rilevare che l’episodio si inserisce in un clima già avvelenato dalle polemiche per il divieto imposto alla tifoseria del club calcistico etneo di seguire la squadra in trasferta per motivi di ordine pubblico e al risultato del campo, che ha visto l’Inter di Murinho prevalere con un certo affanno sull’avversario per due a uno, grazie a due autoreti della compagine ospite.
La miscela era pronta e mancava solo l’innesco per farla esplodere. Ma a questo pensava don José Murinho, che, anziché ringraziare la sorte per la vittoria regalatagli, con l’arrogante supponenza di cui è maestro, affermava: “Il valore espresso dalla mia squadra è tale che vincere per 5 a 1 sarebbe stato più rispondente a quanto s’è visto in campo.”
Pur non volendo giustificare le dichiarazioni di Lo Monaco, siamo dell’avviso che il ricorso agli insegnamenti del mitico principe Antonio De Curtis, cioè ad una sonora pernacchia per ribattere ai deliri di don José avrebbe probabilmente pareggiato il conto, ma è noto che certe facezie sono la risposta di coloro che guardano alle cose in modo spassionato, canzonatorio, mentre nel DNA del tifoso c’è il coinvolgimento, la rabbia, il senso dell’umiliazione che fanno dimenticare non solo le buone maniere, ma anche e, soprattutto, che in fondo il calcio è un gioco e, com’è regola dei giochi, la fortuna fa sempre la parte del leone.
Ma è a questo punto che la cronaca ordinaria di una domenica di calcio e di altrettanto ordinari strascichi da dopopartita diventa un affare di stato nel senso più pieno del termine: un Ministro della Repubblica, sodale d’un partito di conclamati villani, di insurrezionalisti, di razzisti sfacciati e dichiarati e che ha fatto dell’istigazione alla violenza, con tanto di minaccia di richiamo alle armi ed esibizione di scassati cingolati, con invettive contro la capitale e vilipendio della bandiera e dell’inno nazionale, il modello vincente della propria identità, scende in campo per redarguire Lo Monaco ed accusarlo di istigare alla violenza.
Davanti a questa trasudazione di incoerenza bene fa Lo Monaco a rammentare al Ministro di non essere lui a capo di un partito politico che della violenza ha il culto e che la predica viene da un pulpito irrimediabilmente squalificato. Male fa, invece, nel rincarare la dose continuando una sterile quanto pericolosa polemica con Murinho, che, indiscutibilmente, dovrà dimostrare con i fatti e non con le tronfie dichiarazioni di essere il grande direttore tecnico che sostiene.
Patetica è, infine, la sortita del procuratore federale Stefano Palazzi, che, nel deferire alla commissione disciplinare il dirigente del Catania, ha addotto le seguenti motivazioni: " [per aver espresso] nel corso di dichiarazioni pubblicate da organi di stampa, giudizi lesivi della reputazione di altro tesserato e idonee a costituire, direttamente o indirettamente, incitamento alla violenza", poiché, con quest’ultimo richiamo, sembra aver adottato il provvedimento in omaggio pedissequo alle richieste di Maroni.
E se questo è il calcio, se questo è sport e, soprattutto, se questo è lo spessore dei politici del nostro sconquassato Paese, beh, una pernacchia a tutti e non se ne parli più, ché ci sono cose più urgenti e gravi nel quotidiano di cui occuparsi e darsi pena.


(nella foto, Pietro Lo Monaco, a. d. Catania calcio)

martedì, settembre 16, 2008

Alitalia, la fiction continua


Martedì, 16 settembre 2008
Più passano le ore e più la vicenda Alitalia assume connotazioni di vera e propria tragedia nazionale, intrisa peraltro di foschi messaggi sullo stile con il quale questa coalizione di governo e l'imprenditoria nazionale intenderà regolare i conti con i il mondo del lavoro.
Sull’Alitalia sono stati sprecati fiumi d’inchiostro per descriverne le criticità, il ruolo della politica, i comportamenti corporativi del sindacato e le dichiarazioni di Berlusconi, mentore di un progetto industriale di salvataggio dai contorni indefiniti e, comunque, dalle poche notizie trapelate, insufficiente se non già morto sul nascere.
Ovviamente, la stampa nazionale, sperabilmente affetta da scoopismo rosa più che interessata all’analisi critica dei contenuti, poco ha detto circa la reale inconsistenza del progetto Fenice elaborato da Corrado Passera di Intesa-S. Paolo, preferendo fare da grancassa alle dichiarazioni ora di Berlusconi, ora di Sacconi, ora di qualche vedette sindacale, ma lasciando intatto il velo di mistero che ammanta il progetto sposato dalla CAI, cordata di imprenditori in corsa per rilevare le ceneri di Alitalia, o la pochezza delle prospettive industriali sulla quale in piano di salvataggio sembra costruito.
Un piano che, di fondo, sembra fare un favore al solo Carlo Toto, proprietario della comatosa AirOne, che, in proporzione alle dimensioni aziendali, registra un debito complessivo tale da fare impallidire gli analisti al capezzale Alitalia. Un piano che prevede una valutazione di 300 milioni di euro per la vecchia Alitalia ed un analogo valore per la AirOne, che non tiene dunque in alcun conto il valore storico del marchio, il prestigio internazionale, la dimensione della flotta e la proprietà degli slot della Compagnia di bandiera – il cosiddetto avviamento – e pone sullo stesso piano ciò che potrebbe assimilarsi al raffronto tra un padroncino ed una grande impresa di trasporto. Se ciò non bastasse, non può non tenersi conto del fatto che Alitalia possiede circa 150 aeromobili, che con i noleggi portano il parco a 240 aerei, mentre la Compagnia di Toto vanta una flotta di 60 aeromobili, certamente più moderni dei Super 80 Alitalia, ma interamente a noleggio e le cui rate sono state garanite dalle banche (sarebbe interessante sapere se Intesa- S. Paolo ha in qualche misura coinvolgimento in questa operazione di leasing, ndr). Come riferisce il quotidiano on-line l’Inviato SpecialeAirone è nei guai. Gli aerei sono mezzi vuoti ed è in perdita. Fino a giugno del 2008 il rapporto tra i posti disponibili e quelli occupati da viaggiatori è stato il più basso d’Europa tra le quasi trenta compagnie dell’Aea. Nel 2007 ha perso 32 milioni ed il fatturato è stato di 785 milioni. Alla fine del 2007 aveva novecento milioni di debito, salito a oltre un miliardo nei primi sei mesi del 2008. L’eplosione del passivo è determinata in gran parte dall’acquisizione degli Airbus 320, collocati in Irlanda e affittati a Airone.” Ed è davanti a quest’evidenza che il quotidiano in questione si pone il serio interrogativo se l’operazione CAI-Alitalia non sia piuttosto diretta al salvataggio di AirOne che a quello della Compagnia nazionale.
Certo è che il mitico piano industriale del CAI, che prevede l’assorbimento di circa 11.500 dipendenti degli attuali 17.500, con un esubero di 3.250 persone a valle del reimpiego di 2.750 unità in attività di manutenzione, call center ed amministrazione, indica in 65 rotte, tra nazionali ed europee, il business del nuovo vettore, che opererebbe con un capitale di un miliardo e raggiungerebbe il pareggio nell’arco di 2 anni.
Dato che non occorre essere esperti di trasporto aereo per capire che la redditività si gioca sulla concorrenzialità delle tratte intercontinentali e non certo nel breve e medio raggio, ingolfato dalla presenza di decine di compagnie low cost, e che nel piano CAI nulla si dice circa le partnership da mettere in campo per gestire quelle rotte, è intuitivo come il progetto sembri nascere zoppo se non già abortito sin dal suo concepimento.
Allo stesso modo non è facile comprendere perché con queste premesse sia a suo tempo fallita la trattativa con Air France, che prevedeva un assorbimento dei debiti Alitalia, pari a 1,4 miliardi ad aprile 2008 (chissà a quanto ammontino adesso), il versamento di un miliardo a titolo di capitale di funzionamento, oltre all’inserimento a pieno titolo del marchio nel consorzio Sky Team di Air France- KLM. Gli esuberi erano stati definiti in circa 2.500 unità, dunque largamente al di sotto di quelli indicati nel piano Fenice-CAI, e gli aeromobili sarebbe stati mantenuti in proprietà, sebbene soggetti al rinnovo con mezzi più moderni.
Davanti a queste evidenze il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ancora ieri, approfittando della gratuita tribuna propagandistica messagli a disposizione dal fedele Bruno Vespa, non ha mancato di tuonare contro i sindacati, che, a suo più che qualificato ed interessato avviso, sarebbero gli unici responsabili dell’eventuale fallimento delle trattative e dell’Alitalia qualora non si giungesse ad un accordo sulle basi sin qui illustrate….. - e, bontà sua, ci ha risparmiato l’ennesima denuncia di congiura comunista dietro l’evolversi fallimentare dei negoziati in corso! Anche in questo caso, tuttavia, non è chiaro se nell’affermazione di Berlusconi vi sia semplice malafede o palese ignoranza del ruolo rappresentativo degli interlocutori sindacali che siedono al tavolo, visto che il nucleo più consistente dei lavoratori Alitalia non si riconosce nella Triplice confederale e l’UGL della Polverini e di Panella, probabilmente sdoganata al ruolo di componente significativa solo in omaggio agli amici di AN, ha un’incidenza percentuale pari ad un prefisso telefonico.
Da questi fatti emerge come lo scontro in atto sull’Alitalia sia di natura politica, uno scontro che deve veder trionfare o l’inguaribile ottimismo di Berlusconi, con la realizzazione delle sue improbabili promesse al popolo che lo ha rispedito inopinatamente a Palazzo Chigi, o il ruolo egemonico del sindacato istituzionale, quello di comodo, che, pur di restare sulla breccia e non perdere il proprio privilegio di sedere ai tavoli di confronto più importanti per le sorti dell’economia del Paese, è pronto a svendere l’esistenza di lavoratori e famiglie annesse, con un cinismo esemplare mascherato da senso di responsabilità e della misura. Come sostiene l’Inviato SpecialeAd un osservatore distaccato, lontano dalla necessità di supportare una tesi piuttosto che un’altra (come dovrebbe essere per tutti i giornalisti, obbligati ad essere indipendenti) sembra di osservare della gente in bilico su un piano inclinato, dei dilettanti, che giorno dopo giorno rubano un minuto al disastro, pensando di poter trovare in quel tempo trafugato una soluzione possibile. Va avanti così da giorni ed intanto il paziente si aggrava. Solo che qui non si tratta di un malato di morbillo, ma di ventimila persone, di un indotto non quantificabile, di mogli, mariti, figli. Non è ammissibile che rappresentanti del governo, imprenditori non esperti nel settore (tranne Toto, che però possiede una compagnia in coma) e sindacalisti, - sottolinea il quotidiano, - disegnino le linee di sviluppo industriale per un’azienda del trasporto aereo a partire da esigenze di carattere politico, di categoria, di parte. Una cosa è certa, - conclude il quotidiano, - la demagogia dell’italianità sta mostrando il ritardo culturale di una classe dirigente. E la cattiva informazione fornita ai cittadini da una stampa che si ostina a non vedere i volti, gli occhi, il disorientamento di questo popolo di Alitalia, perché troppo occupata a tagliare ed incollare pezzi di comunicati stampa ufficiali, dimenticando la vita delle persone. Un’italianità che non ha difeso in passato la chimica, l’industria dell’elettronica, la telefonia. La ‘Patria’ è stata utile, nel caso di Alitalia, per trovare un ulteriore argomento per vincere delle elezioni. In questo non c’è un principio ‘alto’ di identità nazionale, ma il disprezzo peggiore per chi quell’identità rende possibile: i cittadini e tra loro i lavoratori di Alitalia.
Chissà, - è il caso di aggiungere in attesa della prossima puntata della horror fiction Alitalia, - quanto questa triste vicenda non stia disegnando il nuovo modello di relazioni industriali dell’epoca Marcegaglia.

domenica, settembre 14, 2008

Alitalia – Sbobba riscaldata



Domenica, 14 settembre 2008
Più passano le ore più emerge come sulla vicenda Alitalia l’illusionista Berlusconi abbia venduto la pelle dell’orso prima d’averlo ucciso. Ed emerge pure come la vendita dell’improbabile trofeo fosse il frutto di un operazione di bracconaggio, visto che d’orsi in circolazione non ce ne sono più tanti e, quei pochi che restano, costituiscono fauna protetta dagli schioppi dei cacciatori della domenica. In altri termini, lo scetticismo sulla capacità di creare una cordata credibile che fosse in grado di risollevare dalla polvere i resti dell’Alitalia e rilanciarne marchio, attività e prestigio erano tanti e stanno trovando conferma negli sviluppi della trattativa tra la CAI, la mitica cordata tutta italiana di salvataggio e le parti sociali su esuberi e condizioni salariali. Non c’è infatti uno straccio di piano industriale che faccia capire le ragioni per le quali si dovrebbe trattare su un numero di esuberi di oltre tremila persone e su riduzioni salariali per il personale superstite che dovrebbero aggirarsi intorno al 30% del’attuale retribuzione. Sì, perché tra squallidi colpi di teatro intimidatori e al limite del ricatto e minacce concretizzatesi con il commissariamento della Compagnia, la roulette russa sugli esuberi continua e c’è chi parla di 2000 anime, mentre voci più attendibili di seri analisti del comparto prevedono, sulla base delle intenzioni di ridimensionamento desunte dalle scarse informazioni sul progetto CAI, un’ecatombe vicina alle 7000 persone. Di certo questi numeri hanno fatto infuriare il Capo del Governo, preoccupato di perdere la faccia con il proprio elettorato se l’ammontare degli esuberi finali non fosse al di sotto di quello individuato nel corso della fallita trattativa con Air France e qualora per gli stessi non fosse individuata un’alternativa di reimpiego. Altrettanto certa appare la tignosa ostinazione dl pool di salvataggio al taglio dei salari dell’organico superstite, che, come in ogni trattativa che si rispetti, è considerato il cancro dei conti Alitalia.
La vicenda Alitalia è una delle storie più squallide di questo altrettanto squallido Paese. Una storia fatta di immondi rapporti incestuosi tra politica e sindacato che si è trascinata nel tempo sino a questo epilogo immorale, in cui una buona parte del “capitalismo straccione” – come D’Alema definì l’imprenditoria di casa nostra qualche anno fa - , blandito dagli ammiccamenti del pavone Berlusconi, ha percepito la possibilità di realizzare l’ennesimo affare, portandosi a casa il nome di un’azienda nota in tutto il mondo con quattro spiccioli ed accollando all’erario il pagamento dei debiti pregressi del vettore di bandiera. Quest’indirizzo è più che palese, dalle intenzioni del signor Toto, patron di quell’AirOne che, nel suo piccolo ha in rapporto più debiti di quanto non né abbia l’Alitalia, e che già escluso dall’asta precedente per l’inconsistenza della sua offerta, s’è ringalluzzito per la possibilità di rientrare in gara ed ha avanzato la proposta di sottoscrivere quasi un terzo del capitale della CAI non con danaro sonante, ma con un equivalente conferimento di non meglio specificato ramo d’azienda: cosa intenda conferire rimane un mistero, visto che i suoi aerei, cioè l’unico asset di un vettore aereo, sono in leasing e, dunque, non pare possieda altri cespiti di valore. C’è da credere che la proposta celi il disegno di trasferire alla bad company nella quale dovrebbero confluire i debiti della moribonda Alitalia gran parte delle passività di AirOne, che in questo modo si ritroverebbe come per incanto completamente affrancata.
Analoghe considerazioni possono farsi per giustificare la partecipazione del signor Benetton al progetto, che da anni fa shopping nel settore dei trasporti (stazioni ferroviarie, autostrade ed autogrill, aeroporti di Venezia, Torino, Firenze) che avrà valutato come intrufolandosi nel capitale della nuova compagnia possa tornargli utile nel momento in cui, guarda caso, la stessa dovrà servirsi dei suoi aeroporti. Il signor Aponte, napoletano di Ginevra e patron di quella MSC che opera nel trasporto marittimo di container e nella crocieristica di lusso, giura invece che il suo interesse al progetto è motivato dalla possibilità di sviluppare ampie sinergie tra il suo business e quello aeronautico, sinergie che, con ogni probabilità, sono nelle prospettive dello scooterista ed ex telefonico Colaninno, emerito signor nessuno arricchitosi grazie alle regalie ricevute dal governo D’Alema con la privatizzazione della Telecom. Tra i volti noti dell’operazione c’è anche un certo signor Ligresti, palazzinaro di lungo corso ed assicuratore consolidato, che molto per caso si è aggiudicato la maggior parte dei progetti di riqualificazione cementizia dell’area ex fiera di Milano, quella Milano feudo del suo rappresentante in politica Ignazio La Russa, ministro della difesa del governo in carica e segretario pro tempore di AN, e così coinvolta nelle vicende della moribonda Alitalia.
Ma se questo costituisce il quadro della situazione in corso, non può dimenticarsi che l’Alitalia si trova nelle condizioni in cui è a causa delle politiche scellerate imposte al suo management dai governi che negli anni si sono succeduti, management sicuramente addomesticato, ma non per questo unico responsabile del dissesto della società; management tacciato spesso d’incapacità e incompetenza, ma stretto nella morsa del potere politico ed un sindacato, appoggiato a sua volta dalla politica, che lo ha costretto ad accordi onerosissimi. Giusto per citare qualche brano di storia, chi non ricorda l’epoca Nordio e le imposizioni cui fu soggetto per rinnovare la flotta? Cinquemila miliardi di debiti che hanno segnato il futuro della società. E chi non ricorda l’accordo sulla mobilità del personale al nuovo hub di Malpensa? Uno spreco immane di danaro in trasferte per hostess e piloti che hanno continuato a mantenere la propria sede a Roma.
Il mondo aeronautico, come qualunque settore d’attività industriale, è governato da precise leggi economiche e da sempre è noto che un load factor (indice di riempimento di un aeromobile correlato ai costi di gestione) inferiore al 70-75% rende la gestione di una tratta antieconomica. Alitalia è stata costretta per anni a gestire per volontà politica tratte con un indice del 64-65%, nonostante l’evidente antieconomicità delle stesse. Né è stato sufficiente per contrastare lo sfacelo, che giorno dopo giorno s’ingigantiva, inventarsi formule come il wet leasing su alcune tratte per tenere sotto controllo i costi, dato che le falle erano talmente tante da non poterle essere turate con della semplice stoppa. E, infine, non può essere sottaciuta la scellerata politica di fagocitazione dei mille piccoli concorrenti che nel tempo hanno provato a darle battaglia sui cieli nazionali: ATI, Itavia, Azzurra, Alpi Eagles ed ultima Volare, che, anziché essere abbandonati al loro destino, per imposizione politica sono entrati a far parte del grande calderone Alitalia, con debiti e personale, determinando in modo esponenziale le condizioni per il suo dissesto. Ovviamente tutte queste operazioni, garantite dai trasferimenti del Tesoro alle casse di Alitalia, sono state effettuate non per creare una grande compagnia aerea in grado di reggere la concorrenza secondo i principi dell’economia di scala, ma hanno soddisfatto le mire elettorali dei vari sponsor politici che di volta in volta si sono succeduti al capezzale dei piccoli vettori sull’orlo del fallimento costringendo Alitalia ad intervenire per il loro salvataggio: qualcuno spieghi, perché Volare, con sede a Busto Arsizio, dunque in pieno territorio d’influenza della Lega, coinvolta in incredibili storie giudiziarie e sull’orlo del fallimento sia finita nel calderone del già decotto vettore della Magliana se non con il precipuo intento di ingraziarsi Bossi e soci.
Naturalmente Berlusconi, a cui non difetta l’astuzia populista, come un disco incantato davanti alle critiche o agli scetticismi sul progetto in atto continua a ripetere che si tratta del solito disfattismo comunista, così come sono da imputare alla sinistra i misfatti che nel tempo hanno creato le condizioni per il crack Alitalia. Fortunatamente adesso c’è lui, il grande prestigiatore in grado di cavare conigli dal cilindro a getto continuo. C’è solo da augurarsi che i conigli escano vivi e non affetti da congenite patologie che ne compromettano la salute sin da subito, oltre al fatto che tra di loro non vi sia sotto mentite spoglie uno squalo o un coccodrillo.

(nella foto, Roberto Colaninno presidente della società CAI in predicato di rilevare Alitalia)

mercoledì, settembre 10, 2008

Federalismo cinico


Mercoledì, 10 settembre 2008
Adesso che Calderoli ha scoperto le carte della Lega sul federalismo ed i nodi cominciano a venire al pettine è anche più chiaro il significato delle recenti affermazioni di Bossi circa la necessità di resuscitare l’appena defunta ICI. E l’insistenza su questo tasto è tale da non ammettere fraintendimenti ed equivoci: i Comuni hanno perso la fonte più rilevante delle loro entrate e adesso boccheggiano alla ricerca di nuovi meccanismi d’introito per garantire il mantenimento dei servizi ai cittadini e, in molti casi, per pagare gli stipendi ai propri dipendenti.
Nel frattempo, il Governo centrale, con i suoi inutili apparati, il Parlamento e le centinaia di istituzioni pressoché inutili che divorano il bilancio dello stato continuano imperterriti i bagordi, dato che un centesimo non è stato tagliato dalle loro dotazioni e della tanto auspicata pulizia di privilegi feudali cui godono i nostri sedicenti rappresentanti politici non si parla più.
Certo, Berlusconi deve passare notti insonni, divorato come sarà dal dubbio che prima o poi il giocattolo messogli in mano dai quattro rissosi che l’hanno preceduto, più per demerito loro che per merito suo, si sfasci a causa di un assestato colpo di coda di quella Lega, a cui tutto si può dire, tranne che d’essere distratta o incoerente rispetto al grande tema del federalismo con il quale si gioca ormai da anni il sostegno incondizionato della propria base elettorale.
Il punto è che Berlusconi non può consentire a sua volta che gli elettori gli rinfaccino di averli tulurpinati con il più classico gioco delle tre carte: oggi ti tolgo l’ICI e domani te la reintroduco, magari con un altro nome. Di sicuro non può permettersi di stringere all’angolo Bossi e le sue orde, pertanto è pensabile che schiere di fattucchiere, alchimisti e sciamani stiano sperimentando con tanto di pentoloni ed ingredienti magici la pozione migliore per risolvere l’intricata faccenda. Ovviamente non trattandosi di trasformare ranocchi in principi azzurri né disgustose racchie in avvenenti veline, ma di trovare soldoni sonanti l’impresa appare disperata, dato che gli Italiani sono ormai da tempo con le pezze lì dove non batte il sole e sotto le braghe pare sia ormai di moda non mettere più le mutande, sì da risparmiare qualche spicciolo da dirottare all’acquisto di pane e pasta.
Naturalmente l’opposizione insorge, ma questa volta non è sola, perché, sebbene con diverse motivazioni, l’urlo è bipartisan. La Russa ha tuonato contro l’ipotesi di Calderoli, affermando che “mai ci saranno nuove tasse fino a quando AN sarà al governo”, mentre Veltroni sulla reintroduzione dell’ICI ha parlato di “un provvedimento sul quale non potrà mai essere d’accordo”. Berlusconi smentisce qualunque ritorno al passato, ma al di là dello slogan non anticipa nulla sulle soluzioni possibili per contentare la Lega e non scontentare gli elettori.
Ma a prescindere da queste polemiche di fine estate su una questione che, se non affrontata con la dovuta cautela, rischia di divenire l’esplosivo su cui far saltare la coalizione come è avvenuto per la precedente con la riforma delle pensioni, è istruttivo leggere il progetto Calderoli, che sin dalle prime righe lascia trasparire come il suo, più che federalismo, sia in realtà una definitiva divisione del Paese in aree ricche ed are povere. Assunto che il fulcro del progetto è l’azzeramento dei trasferimenti dalle Regioni al centro, trasferimenti che trovano impiego in una sorta di redistribuzione solidale a favore delle aree meno ricche del Paese, il futuro immaginato con l’attuazione di tale disegno vedrebbe regioni fortemente indebitate e costrette a tagliare servizi o a tartassare i propri cittadini e regioni opulenti con surplus accantonati perché dotate di infrastrutture socio-economiche di tutto riguardo.
Un progetto così concepito, almeno sino a quando quest’Italia potrà fregiarsi del titolo di stato unitario, appare francamente improponibile. Né va dimenticato che le ingenti risorse del Nord sono anche il frutto di un’emigrazione dal profondo Sud, che ha creato solide basi di benessere, ma non ha trasferito l’allocazione di quelle risorse che avrebbero potuto consentire all’area meridionale della Penisola di affrancarsi.
Né sarebbe lecito controbattere alla precedente considerazione elencando i fiumi di contributi stanziati con la Cassa per il Mezzogiorno, prima, e con Sviluppo Italia o la Comunità Europea, dopo e nel corso degli anni, poiché in questo caso si aprirebbero capitoli spiacevoli sul ruolo della politica nostrana nell’allegra quando non truffaldina gestione di queste provvidenze e sulla funzionalità che il Sud ha avuto nello sviluppo del Nord, grazie alla produzione di un esercito industriale di riserva di marxiana memoria. A comprovare questo incancrenito stato di cose vi è la perseverante politica ancora in atto di sottodotazione del Sud: collegamenti ferroviari e stradali da terzo mondo, assenza di industrializzazione forte e di grandi dimensioni, in grado di generare un positivo effetto emulativo, sistema malavitoso e di corruttela mai sradicato e diffuso, mancata incentivazione delle vocazionalità territoriali, sostanziale arretratezza dell’economia primaria e forte frammentazione del settore commerciale , elevata concentrazione delle opportunità di lavoro nell’ambito della pubblica amministrazione, che generano insostenibili costi per l’erogazione di servizi non supportati, peraltro, da una adeguata qualità.
In questa prospettiva, il federalismo non può che suonare come il presagio di una rinascita di scontri sociali di difficile governo, in quanto i sacrifici che sarebbero imposti alla collettività meridionale dal ridimensionamento dei consumi e dei servizi mal risponderebbero ad un tessuto nazionale, che, almeno nello stile di vita, già da tempo ha azzerato ogni distanza regionale. Evidentemente coloro che parlano di federalismo in modo serio e non certo opportunistico e cinico,come fanno i maggiorenti della Lega, ai quali non par vero di aver surrogato con la forza lavoro extracomunitaria i Meridionali disperati degli anni ‘50/’60, non possono non tenere in debito conto le sciagurate distorsioni che si introdurrebbero per effetto della regionalizzazione indiscriminata delle risorse autoctone. Uno stato che perdesse il senso dell’equità solidale non sarebbe più tale ed imprimerebbe una spinta secessionista alle aree più ricche ed un moto di ribellione nelle aree più sfortunate del Paese, - le cui conseguenze non sono prevedibili in un’epoca nella quale si assiste sempre più al trionfo degli egoismi ed alla rivolta cruenta dei disperati. E’ altrettanto vero che non è più possibile accettare un Paese a due velocità, con un Nord che continua a tirare il carro ed usufruisce largamente al di sotto di ciò che produce, ed un Sud a rimorchio, che sperpera in inauditi parassitismi la rendita sociale proveniente dalla ripartizione solidale della ricchezza nazionale.
Se non avessimo certezza di predicare utopia potremmo dire che forse è arrivato il momento definitivo di cambiare registro e creare le condizioni per un governo d’unità e d’emergenza nazionale, che, superati i biechi ed insulsi interessi di parte, ed affronti, scevro da condizionamenti ideologici e politici, una nuova “questione Paese”, che estirpi le cancrene più vistose, prima che si trasformino in inguaribili metastasi, e ridia fiducia e voglia di fare alla gente, a quella gente che vede ormai nella politica il vero ed unico nemico, un mostro che gradatamente e inesorabilmente giorno dopo giorno avvilisce il vivere civile e la speranza. E’ evidente che se il federalismo in discussione non soddisferà questi requisiti avrà già fallito sul nascere i suoi obiettivi.

venerdì, settembre 05, 2008

Avanti, adagio tra un proclama ed una balla


Mercoledì, 27 agosto 2008
Sono ormai passati quattro mesi dall’insediamento del nuovo governo Berlusconi. Poiché ci sembra che il nuovo esecutivo abbia, come previsto, privilegiato inizialmente la gestione degli interessi personali del suo premier, nonostante i gran di proclami su una serie di emergenze nazionali, è interessante dare uno sguardo a ciò che è stato fatto o è in movimento, sì da togliere eventuali alibi a quanti, memori della distrazione popolare, verranno prima o poi a magnificare “gli straordinari risultati conseguiti”.
Sicurezza. Avevano ragione La Russa e Maroni. L’impiego dell’esercito nelle grandi città ha consentito la riduzione dei reati e, dunque, già nelle speranze dei due valenti Ministri di Difesa ed Interni aleggia l’ipotesi di prorogare l’impiego dei militari per un semestre ulteriore dalla prevista scadenza.
Si badi bene, non che i due Ministri, con tanto di claque filo-governativa, abbiano spiegato agli Italiani quali siano stati i reati scesi per effetto dell’impiego miracoloso di quattro bersaglieri o di un manipolo di paracadutisti, ma è sufficiente che nell’immaginario collettivo si radichi una sensazione di maggiore sicurezza, con la presenza di qualche divisa color kaki in giro per le strade, per considerare il gioco fatto. Che poi l’evasione fiscale, il tangentismo, la malversazione ed i condizionamenti mafiosi siano rimasti immutati, in barba allo show montato dai sedicenti paladini della legalità, poco importa, visto che questi sono considerati peccati veniali nel nostro malato sistema sociale. E che nel mentre qualche turista olandese venga aggredito, rapinato, stuprato e massacrato di botte in piena Capitale in barba a qualche furiere di ronda, in quella Roma nella quale Alemanno, della stessa confraternita di La Russa, fa il sindaco da qualche mese e che dichiara più sicura, è da considerare solo un incidente nel percorso di militarizzazione delle città in atto. Comunque, l’episodio serve a rinforzare l’idea che la sicurezza sia effettivamente un’emergenza e che la proroga nell’impiego dell’esercito sia l’unico rimedio a questa sorta di barbarie in cui versa ormai il Bel Paese.
Poco importa che la scomparsa di qualche Nigeriana da un angolo di strada si stia pagando a prezzo di un rigurgito autoritario dimenticato dai meno giovani, grazie agli oltre settant’anni di pseudo democrazia, e noto alle nuove generazioni solo per averlo letto sui libri di scuola o per averlo appreso dalle cronache riferite a qualche Paese mentecatto in cui la democrazia è solo un termine nel dizionario.
Bene fa Famiglia Cristiana a denunciare lo sconcio di uno stato costretto dalle inconfessabili mire dei suoi governanti a ricorrere all’esercito piuttosto che a potenziare gli apparati naturali preposti al presidio della sicurezza dei suoi cittadini. Anzi, mentre si allestiscono garitte e filo spinato agli incroci più pericolosi delle grandi città, nei confronti di questi apparati prende corpo la più ottusa delle politiche di contenimento dei costi, contrassegnata da sfrondamento della spesa per il loro supporto logistico ed operativo: se non fosse che la situazione è ormai ad un intollerabile livello di guardia da non lasciare troppo spazio all’ironia sarebbe il caso di suggerire a Berlusconi ed alla sua troupe di scenografi di film gialli di smantellare definitivamente le strutture di Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria e di appaltare il tutto alla miriade di società private di vigilanza che pullulano per il Paese, che, in fondo e con maggiore dignità, sarebbero in grado di svolgere a bordo di una Panda i compiti oggi affidati ai cosiddetti servitori della giustizia, impossibilitati a mettere in moto le volanti per mancanza di carburante. In quanto alle carceri, sarebbe più produttivo e dignitoso affidarne la gestione a qualcuno a caso, per esempio a Ligresti, che, grazie alla lunga esperienza nel settore alberghiero, sarebbe in grado di garantire una permanenza più dignitosa nelle patrie galere alle varie categorie di farabutti, riservando qualche cella a poche stelle a spacciatori e scippatori e l’extra lusso a camorristi o politicanti scivolati su qualche buccia di banana, con buona pace anche per i quattro populisti radicali che in questi giorni stanno circolando nelle carceri della Penisola per effettuare l’ennesima quanto inutile inchiesta sulle condizioni di vita dei detenuti.
Una simile soluzione potrebbe favorire il taglio sostanziale di ingenti voci di costo per lo stato e potrebbe consentire al Cavaliere Illuminato di realizzare quel taglio di tasse e balzelli, tanto in odio agli Italiani quanto in cima ai propositi di programma dell’attuale Governo. Se poi si ipotizzasse pure un ticket sulla sicurezza, il gioco sarebbe fatto: si pensi quale toccasana sarebbe il pagamento di un “diritto di chiamata” per ogni intervento richiesto a questo rinnovato apparato di forze dell’ordine. Il servizio di pubblica sicurezza finirebbe per pagarsi da solo, considerato che le città, a detta dei Ministri sopra menzionati, pullulano di delinquenti e clandestini assatanati e le chiamate, dunque, sarebbero proporzionali.
Guerra ai fannulloni. Il Nano Prodigio di Venezia, al secolo Brunetta, ha collezionato, - così dice lui, - grandi consensi per aver dichiarato guerra all’orda di fannulloni, che si annidano in seno alla pubblica amministrazione, ed agli sprechi. Pur senza spiegare agli Italiani la ragione per la quale con ammirevole rigurgito di correttezza non vi abbia rinunciato, lui stesso si è citato come esempio di spreco, essendo stato titolare di un contratto di consulenza tanto inutile quanto profumatamente pagata. E allora giù con provvedimenti anti assenteismo e contro gli sprechi. Adesso ammalati veri ed ammalati immaginari dovranno esibire un certificato medico e, come se non bastasse, si vedranno decurtato lo stipendio durante l’assenza. Peccato che il Ministro abbia omesso di confessare che i provvedimenti di cui trattasi erano già in vigore, - pur se a maglie larghe, - da oltre un lustro dal suo insediamento e che la tanto reclamizzata trattenuta sulla retribuzione, in realtà, riguarda solo la cosiddetta indennità d’amministrazione, pari a pochi spiccioli. Ma si sa, la maggior parte dei nostri politici è da tempo affetta da scoopismo, patologia altamente infettiva, sia a destra che a sinistra, che costringe chi la contrae a passare le sue giornate alla ricerca della dichiarazione iperbolica e ad effetto piuttosto che all’individuazione di serie e concrete misure di effettivo cambiamento. Che la profilassi anti-fannullone passi anche e principalmente attraverso la rivalutazione e la premiazione della qualità del lavoro, la riformulazione della responsabilità, l’autonomia gestionale degli uffici – giusto per citare alcuni principi di carattere organizzativo presenti in tutti i manuali – ed il licenziamento in tronco dei fannulloni veri, non ha certo sfiorato il Ministro, dato che con ogni probabilità questi sono concetti che passano …….. sopra la sua testa. Vero è che aver fatto di tutti gli ammalati, comprovati ed immaginari, un unico fascio è iniziativa talmente equa da far impallidire persino il biblico Salomone, con buona pace dell’Italiano medio che non sempre, con giustificato pregiudizio, guarda ai pubblici dipendenti come ad una tribù di insulsi ed indolenti burocrati impuniti.
Alitalia. Che il Cavaliere sia un inguaribile cacciaballe lo sanno anche i sassi, quantunque nel nostro Paese vi sia ancora uno zoccolo duro d’ignoranza e creduloneria senza pari al mondo. Così mentre il Predicatore di Arcore in piena campagna elettorale sparava l’ennesima balla sulla ricetta segreta che custodiva nel portafogli a proposito della cura più adeguata per guarire l’ammalato Alitalia, consistente in una cordata di imprenditori nostrani pronti ad ogni sacrificio per rilevare la rancida sbobba della Magliana e trasformarla in un rinnovato manicaretto in grado di competere con la concorrenza internazionale, a distanza di cinque mesi da quei proclami sbruffoni, siamo ancora qui in attesa che si concretizzi almeno un’ipotesi. Nel frattempo i membri della presunta cordata, che nelle ultime ore hanno si sono costituiti in società con tanto di Colaninno a capo e che tutto sono tranne che caritatevoli francescani disposti a sacrificare i propri soldi, hanno fatto sapere che sì, ci sarebbe un qualche interesse per l’avventura, ma a condizione che cinquemila degli attuali dipendenti della scassata compagnia aerea, volino verso altri lidi, ché i denari per pagarli ad oziare in una cabina d’aereo o a ciondolare in un aeroporto come personale di terra non ci sono più. Naturalmente, quest’ipotesi deve aver fatto inviperire il Pifferaio di Arcore, che a suo tempo aveva additato al pubblico ludibrio il precedente Governo, che nella fretta di confezionare il pacco per la pretendente Air France aveva cercato di far digerire ai sindacati oltre duemila esuberi da sfoltire tra gli organici. Allora per non perdere la faccia con la somministrazione di una cura peggiore di quella prescritta dal medico precedente cosa si inventa il prodigioso Berlusconi? Semplice, i cinquemila da impacchettare potrebbero essere assorbiti nell’organico della pubblica amministrazione per la gioia di Brunetta e di Tremonti, che rispettivamente si ritroveranno qualche fannullone in più e qualche esborso supplementare per i conti dello stato. Gli esuberi in ogni caso pare si siano attestati a poco più di tremila, che a detta del Governo dovrebbero rendere meno indigesto il boccone a sindacati e contras, essendo in numero non distante da quelli a suo tempo ipotizzati da Air France.
Scuola. Sembra essere un’altra delle fissazioni dei Governi succedutisi nell’ultimo ventennio, afflitti dalla sindrome di una riforma dell’istruzione impossibile da realizzare come fosse l’Araba Fenice. Così, come se non fosse bastato aver riformato e contro-riformato esami e corsi di studio, corsi di laurea brevi e lunghi, con tanto di test d’ammissione demenziali e prodromi del clientelismo bieco, ecco scoppiare nel settore del’istruzione una nuova questione meridionale, questa volta incentrata sul livello della preparazione dei docenti del sud, che, a detta del Ministro Gelmini, dovrebbero sostenere un corso di qualificazione all’insegnamento prima di occupare una cattedra e dedicarsi alla formazione dei giovani. Non sappiamo se il Ministro nel dichiarare queste stupidaggini di stampo squisitamente razzista abbia tenuto conto delle lagnanze di Bossi, che ha denunciato i giudizi negativi sul proprio figliolo da parte dei docenti meridionali presenti nella scuola che il giovane frequenta. Resta il fatto che effettivamente la qualità del corpo docente italiano è obiettivamente bassa, senza distinzione territoriale, e mal si comprende la ragione per la quale non si sia mai pensato ad allestire corsi di preparazione all’insegnamento, con tanto di esami seri alla conclusione, per reclutare i docenti nelle nostre scuole.
Tasse e prezzi. Sia fatto onore a Berlusconi per aver cancellato con un provvedimento lampo l’ICI sulla prima casa. Ovviamente anche lui ha omesso di confessare che l’imposta in questione era già stata in buona parte cancellata dal Governo Prodi, ma nel macchiarsi dell’omissione, il Prodigio di Arcore, non ha fatto nulla di diverso da quanto fanno tutti dagli albori della civiltà: dicevano i gli antichi romani “prospera omnia sibi clamant”, solo gli insuccessi e le cose sgradevoli non possono vantare paternità certa. Altrettanto certo è il pentimento del Ministro Bossi a proposito dell’odiata imposta, tant’è che di recente ha parlato di “ripensamento necessario”, visto che per i Comuni è venuta meno una delle principali fonti di finanziamento delle proprie spese. Ovviamente, Berlusconi non ha gradito l’inattesa alzata d’ingegno del suo Ministro ed alleato in chiara controtendenza rispetto alle decisioni prese in materia di recente, ma ha fatto intuire che il federalismo fiscale, che prima o poi si discuterà, sarà la panacea anche per i problemi di questa natura.
Sul fronte prezzi, invece e com’era prevedibile, non succede nulla, eccetto una loro ingiustificata lievitazione, che costringe in mutande un numero sempre più consistente di cittadini. Anche in questo caso non c’è da stupirsi della latitanza delle cosiddette istituzioni, considerato che la coalizione in carica non ha mai fatto mistero di considerarsi, nei fatti, tutore degli interessi delle classi abbienti del Paese e di considerare cittadini di secondo ordine la schiera numerosa dei meno fortunati. Per certi versi a tanti di questi “sfortunati” andrebbe detto “ben ti sta!”, visto che gli abbienti non costituiscono certo maggioranza ed il Governo Berlusconi deve il suo revival grazie e soprattutto al consenso acquisito tra questi nuovi paria presenti sempre più numerosi in ogni angolo della Penisola.
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Morale. Un vecchio adagio recita che talvolta è meglio tacere e dare l’impressione di esser stupidi, piuttosto che aprire bocca e rimuovere ogni dubbio. Ma questa semplice goccia di popolare saggezza sembra sconosciuta alla nostra attuale classe politica.