sabato, dicembre 20, 2008

Italistan, nuova provincia pakistana – Dopo la giustizia riformato anche il nome del Bel Paese


Sabato, 20 dicembre 2008
Il presidente Berlusconi non condivide, non è d’accordo che i media raccontino di inchieste e di indagini con oggetto fatti di inaudita gravità della vita della Repubblica e si scaglia contro Santoro, quel Michele Santoro che era riuscito a far fuori qualche anno fa con il famoso “editto bulgaro” e che l’odiata magistratura gli ha reintegrato nei ranghi della televisione pubblica. Il personaggio è per lui come una lancinante spina nel fianco, che non perde mai l’occasione per denunciare dai microfoni della TV di stato le malefatte cui sistematicamente si lascia andare e, per questo, meriterebbe di essere licenziato, anzi gli dovrebbe essere inibito a vita di continuare a lavorare.
Naturalmente il presidente del consiglio non è neanche minimamente sfiorato dal dubbio che non sia Santoro ad artare la verità, ma sia lui e solo lui il responsabile di una condotta più che censurabile, che offre spunto al giornalista di esprimergli la disapprovazione che vorrebbero significargli tanti Italiani. Santoro, in definitiva, non è che il megafono dei suoi errori e della gente comune, che esprime sdegno per un comportamento di un personaggio ai vertici delle istituzioni, che interpreta lo stato come la sua privata tenuta di caccia, nella quale impone divieti, appone cartelli di diffida agli intrusi, decide insindacabilmente chi ammettere e ciò che è ammesso. Lo stato, per sua sfortuna, non è nulla di quanto gli attraversi i pensieri, ma è una comunità organizzata con leggi, regolamenti, diritti e doveri uguali per tutti (almeno in teoria!), senza eccezione alcuna e la pretesa di violare questi principi sacrosanti di eguaglianza non può essere disattesa né da Berlusconi né da chi lui millanta gli sta sopra, Iddio in persona, senza esporsi alla pubblica reprimenda.
Dovrebbe inoltre smetterla il signor Berlusconi di porsi come paladino dei presunti offesi dalle pubbliche denuncie, poiché in questo ruolo è ancora meno credibile, e, dietro la facciata, questa ostentazione forzata di “legalista ad ogni costo” è funzionale solo a giustificare le imposizioni continue di provvedimenti confezionati esclusivamente a suo beneficio e per la sua immunità.
La cosa tragica è che questo genio d’opportunismo ritiene che il popolo debba essere costituito solo da beccaccioni disponibili a bere tutte le panzane che racconta. E così millanta la “volontà dei cittadini” dietro le pressioni per modificare le regole di funzionamento della magistratura, del sistema giudiziario o per bloccare il meccanismo delle intercettazioni telefoniche, sicuramente abusato in qualche circostanza, ma funzionale alle indagini sui reati mafiosi e di corruzione politica.
Lui nel frattempo si fa costruire una legge-barzelletta sul conflitto d’interessi, la depenalizzazione del falso in bilancio, un lodo Alfano per sfuggire ai processi cui dovrebbe essere sottoposto, norme che limitano la libertà di stampa e inibiscono persino la gestione dei blog, dichiarandosi vittima della guerra dichiaratagli dalla “magistratura comunista” e di una persecuzione ai suoi danni senza precedenti. Al colmo del paradosso, dopo l’emanazione delle norme pro domo sua, dichiara pure che mai si sottrarrà ai processi che lo coinvolgono, sapendo che la “sua” legge non lo consente e sebbene nelle occasioni in cui sia stato convocato da qualche magistrato abbia rifiutato di presentarsi. E in questo contraddittorio delirio di dichiarazioni si vanta pure di godere di un “gradimento bulgaro” del Paese, con percentuali vicine al 72%.
Ma se il quadro è questo, se le sceneggiate a cui sottopone l’Italia sono quelle descritte, quale diritto ha il presidente del consiglio di assurgere a censore degli altrui comportamenti? Quale autorità può esibire quando si permette di sollevare una questione morale all’interno dell’opposizione, essendo non solo l’emblema di un’eterna ed irrisolta questione morale, ma personalmente destinatario di processi per malaffare a cui si è sottratto con atti di inqualificabile tracotanza?
«Ho guardato in tv la trasmissione '"Annozero" e ho visto che addirittura hanno simulato una sorta di fiction su fatti che non sono ancora andati a processo», si è lamentato Berlusconi, esternando incomprensibile stupore. Denuncia di aver visto un attore che impersonava un giudice, un altro quella di un imputato. «Una ricostruzione avvenuta soltanto attraverso i testi delle intercettazioni», ha sottolineato il Cavaliere, che ha concluso in perfetto stile tennistico con uno smash: «Bisogna finire con questi processi mediatici», preannunciando nel prossimo gennaio la minacciata riforma della giustizia, “perché così chiedono i cittadini” (?). Così il cerchio è chiuso e finalmente sarà possibile assestare l’ennesimo colpo di maglio alla magistratura, quella magistratura che ad ogni costo deve essere normalizzata ed aggiogata al controllo dell’esecutivo, affinché si occupi di ciò che meglio aggrada al ministro di turno ed alla presidenza del consiglio di questa Repubblica terzomondista.
Presidente, la smetta con alibi miserevoli: i cittadini esigono solo una giustizia più rapida e meno burocratica, oltre che più equa e meno ossequiosa a lei ed ai suoi colleghi parlamentari, che mostrano con le impunità e il costante diniego a procedere nei loro confronti solo di fregarsene della legge comunemente applicabile. Tutto il resto è un ingrediente di sua invenzione, con cui imbottisce un panino francamente immangiabile. E nel fare ciò lei perpetra un abuso del quale non si può che sperare le venga presentato presto o tardi il conto adeguato dal popolo sovrano.
Questi comportamenti, che sfidano anche la più banale definizione di democrazia, fanno sempre più somigliare l’Italia a paesi sempre più in bilico tra le dittature dichiarate ed le democrazie di facciata, come quelle di alcuni stati africani o asiatici, nei quali l’esercizio di tante libertà è mediato pretestuosamente dai governi in carica.
Forse Orwell aveva solo precorso i tempi quando nel suo noto 1984 descriveva un mondo interamente controllato dagli spioni dei governi e di una guerra in corso da parte delle poche potenze rimaste in vita per l’assoggettamento di aree geografiche sempre più grandi. Ecco, in questo scenario l’Italia deve essere già stata annessa al Pakistan e, semplicemente, non ce ne siamo accorti. E Berlusconi sarà solo un satrapo delegato da Musharraf e la sua prossima mossa sarà magari quella di cambiare nome alla Penisola in Italistan, che più si addice alla cultura dei nuovi padroni.
In questa nuova realtà non ci sarà posto per Santoro, Travaglio, Scalfari, Mieli, Mauro ed i tanti operatori dell’informazione non allineata, che insistono nel criticare un regime in chiaro stantio odore di totalitarismo di vecchissima memoria e non hanno approfittato per tempo del suggerimento del grande Berlusconi Khan di andare a lavare vetri a qualche incrocio, anziché perseverare nel pallino della carta stampata.
In questi giorni è iniziato lo smantellamento di Guantanamo, il luogo di vergogna per eccellenza del mondo occidentale. Sarà probabilmente il caso di suggerire a Barak Obama “l’abbronzato”, al quale toccherà concludere l’opera iniziata da Bush, di sospendere i lavori, ché di clienti da inviargli in quel posto da noi ce ne sono tanti.
(nella foto, Berlusconi e Bush in abiti militari mentre sfilano per le vie di Roma)

mercoledì, dicembre 17, 2008

La greppia del potere

Mercoledì, 17 dicembre 2008
A quanti non è capitato di inviare una lettera al proprio giornale per esprimere il proprio pensiero su un articolo da quello pubblicato o su un argomento di attualità sul quale ha inteso dire la sua.
Le rubriche di “lettere al direttore” sono presenti in tutti i giornali. Anzi costituiscono un vero e proprio veicolo di contatto tra redazioni e lettori, una modalità con la quale la stampa mantiene costantemente aperto l’ascolto sul mondo e i lettori trovano un riscontro indiretto alla rilevanza dei problemi che avvertono come veri e pressanti.
Nell’era di internet tale sistema di contatto è ormai divenuto uno strumento che opera quasi in tempo reale: l’articolista scrive e diffonde immediatamente la notizia, il lettore prende atto e s’informa e, immediatamente, è in grado di inviare il suo commento alla redazione affinché lo pubblichi con ulteriore commento di risposta.
Le cose, tuttavia, non sempre vanno in questa maniera, poiché nell’epoca del recupero gridato della democrazia e della libertà, valori così costantemente mortificati dalle classi dirigenti in politica, anche i giornali, questi sedicenti megafoni della gente, assumono comportamenti in palese contraddizione con le dichiarate ragioni per le quali hanno messo in piedi quelle rubriche e, a proprio piacimento ed insindacabile giudizio, censurano i commenti ritenuti scomodi o non in linea con gli obiettivi che si sono prefissi e non procedono ad alcuna pubblicazione.
Questa patologia, che non è circoscritti alla cosiddetta stampa minore, ma colpisce anche importanti giornali a tiratura nazionale, si palesa come un ulteriore gravissimo sintomo della democrazia malata del nostro tempo. La libertà di espressione diviene così una libertà vigilata di esternazione di pareri, concetti, valutazioni che debbono essere in linea con chi s’è arrogato un diritto di censura preventiva, che dà e toglie la parola senza alcuna possibilità di sindacare e di replica.
Oggi, per esempio, abbiamo inviato a la Repubblica un commento a margine dell’articolo Lavorare stanca soprattutto le donne, a firma di Mauro Ricci, nel quale viene descritta la situazione femminile nel nostro Paese in relazione alle proposta di Brunetta di parificare l’età per accedere al pensionamento, oggi previsto a 60 anni.
Abbiamo ritenuto doveroso segnalare che, al di là dell’irricevibilità della proposta, il disegno Brunetta è un ulteriore tassello tendente solo a cancellare nel tempo il sistema pensionistico. Oltre a ciò e coerentemente con quanto sosteniamo da tempo, in questa fase di grave crisi economica ed occupazionale, anziché pensare a riforme punitive, occorrerebbe ammorbidire i meccanismi vigenti ed agevolare il pensionamento di quanti, avendo già pagato, si vedono negato il diritto esclusivamente in forza di éscamotage di legge frutto di politiche della lesina del tutto anacronistiche, pur non avendo magari un lavoro o un reddito per sopravvivere.
la Repubblica, per motivi che rimangono misteriosi, non ha pubblicato il commento, autorizzando con questo comportamento alcune considerazioni.
Probabilmente il quotidiano in questione, che certamente non è estraneo alla competizione politica in atto tra governo ed opposizione e non rinuncia a schierarsi, si è posto l’obiettivo di dare spazio solo alle critiche di superficie, limitandosi a registrare i quattro bla-bla emotivi ed opportunistici sulla donna sottopagata, che fatica a casa e sul lavoro, ecc., come se l’argomento potesse essere trattato a guisa di un fotoromanzo d’appendice, con il quale si devono fare emergere le emozioni degli spettatori, ma si tarpa ogni possibilità di un confronto serio sul significato dei fatti che sottostanno a quelle emozioni. Le valutazioni di opportunità politica ed economica diventano in quest’ottica orpelli fuorvianti, pericolosamente in grado di stimolare un dibattito più complessivo che potrebbe smontare la fiction e costringere i suoi autori a ad intervenire e scoprirsi dichiarando il loro posizionamento.
Certo è che il quotidiano in parola non fa una bella figura attivando questi metodi di censura di tutta evidenza immotivati o tesi a mascherare inconfessabili finalità. Peraltro, così comportandosi conferma che anche la stampa, - almeno quella che per tradizione si credeva al di sopra di certi condizionamenti, - si colloca nell’alveo degli anestesisti del sentimento comune, e così, con il suo malcelato obiettivo di “normalizzazione” o con l’addomesticamento dell’espressione dell’altrui pensiero, va ad ingrossare il nugolo cencioso di coloro che si nutrono alla greppia del potere per poi prenderne le distanze.

martedì, dicembre 16, 2008

Abruzzo, la schiacciante vittoria dell’antipolitica

Martedì, 16 dicembre 2008
Il partito dell’astensione, - ma sarebbe meglio chiamarlo il partito del rifiuto della politica, - ha trionfato nelle elezioni abruzzesi con il 47,02%, sbaragliando un arco costituzionale frammentato in varie liste di partiti minori (PdL, PD, IdV, UDC, PdCI, ed altre sigle), che ha portato a casa complessivamente un 52,98%. Naturalmente, questo partito non andrà al governo della regione, non avendo candidati in una lista, ma con la percentuale incassata rappresenta un’ipoteca straordinaria per chiunque assumerà la guida del governo locale.
Chiunque adesso canti vittoria da quei risultati, come il PdL, che ha conseguito il 35% dei voti dei voti espressi ed ha conquistato la maggioranza relativa, ma ha subito un calo di ben 7 punti rispetto alla percentuale registrata appena otto mesi orsono alle politiche, è in realtà perdente ed ha poco da raccontar frottole su come la politica del governo Berlusconi abbia influenzato il successo nella tornata di amministrative di cui si parla. In verità questi Signori del Potere dovrebbero avere la decenza di ammettere di essere solo i primi di una schiera di ultimi e finirla con il teatrino delle dichiarazioni roboanti ad uso e consumo dei fessi improbabili, che ancora prestano orecchio al canto delle sirene.
E’ vero, in democrazia vince chi ottiene il maggiore consenso di coloro che hanno espresso il proprio voto. Ma quando i non votanti sono quasi il 50% del corpo elettorale, chiunque abbia vinto ha il dovere di chiedersi quanto effettivamente sia di peso il suo ruolo e che impatto rappresentativo abbia sulla generalità del corpo elettorale. Chi non si ponesse questi quesiti e non assumesse l’astensionismo di massa come la spia tangibile di una sfiducia incalzante nei confronti della politica da Circo Massimo, con morti e feriti, con belve che sbranano reziari per i sollazzo di un pubblico ebete e scaduto nelle mollezze di una decadenza etica senza ritorno, non ha compreso che il limite della tolleranza popolare è sul punto di essere travalicato e, a quell’astensionismo, non potranno presto o tardi che seguire le sommosse di piazza.
In questo sfacelo del paese legale affogano tutti. Affoga il PD, che perde il 13% dei voti e cala al 20%; perde l’UDC di Ferdinando Casini, che rimane al 5%, ma non è in grado di convogliare nel proprio alveo un solo voto di quelli persi dal panorama d’opposizione; non risorge il PdCI né la sinistra massimalista di RC, anch’essa incapace di catturare il dissenso espresso alle formule del PD.
Il solo e vero vincitore di queste elezioni dal drammatico significato è Di Pietro e la sua IdV, che porta a casa un 15%, con un incremento di ben 7 punti sulla precedente percentuale alle politiche. E questo risultato, ancora una volta, va ben oltre la semplice lettura del numero, poiché è un messaggio gridato a quella traballante coalizione tra il suo partito ed il PD, che in campo nazionale si vuole da tempo ai ferri corti.
A dispetto del buonismo sconclusionato di Veltroni e di una strategia complessiva dell’opposizione rappresentata dal PD in sede parlamentare, l’IdV sta dimostrando che chi non condivide il progetto della maggioranza non sta certamente con D’Alema e Rutelli, né con Franceschini e Bindi, ma esige che l’opposizione si comporti da tale, facendo da contrapposizione dura ed inibitoria ad una politica di restaurazione e di reazione verso la quale non può aversi alcuna apertura, alcuna mano tesa o collaborazionismo tattico. E Di Pietro in quest’opposizione è l’unico che conduca con coerente pervicacia una battaglia di sbarramento al non credibile “volto umano” di una maggioranza, nei fatti, arrogante, maleducata, prevaricatrice, opportunista, serva di un leader che bada esclusivamente ai propri interessi, giudiziari ed economici, e non perde occasione per dimostrare il più profondo disprezzo per la critica, l’opposizione ed i fondamenti della democrazia.
Il PD, forse illuso di poter contrastare il Berlusconi-pensiero con la politica della mano tesa, non ha capito che il nostro Paese non è l’America, dove i principi di democraticità hanno radici profondissime e le contrapposizioni tra Repubblicani e Democratici non hanno mai base fondante sulla divergenza di interpretazione della libertà, l’equità della legge, il benessere comune, ma si contrappongono sulla prassi politica necessaria per la realizzazione di quei principi. Ciò non significa che il sistema americano non abbia le sue distorsioni o sia indenne da laceranti incongruenze. Ma in linea di principio non vi sono barriere ideologiche tra i partiti che si contendono il primato.
L’Italia è ben altra cosa. Intanto è figlia del campanilismo delle cento città mai sradicato sin dall’unità del Paese. Poi si trascina un divario Nord-Sud non solo industriale ed economico ma soprattutto sociale, che ha creato le condizioni per esasperare quel campanilismo ed ha generato un affarismo border line, che molto spesso si è sostituito allo stato di diritto nel risolvere i problemi della gente, quelli del lavoro, della sopravvivenza quotidiana e del riscatto sociale. Basti pensare al fallimento di ogni iniziativa in grado di generare uno sviluppo del Mezzogiorno degno dell’Europa in cui siede il Paese. A questa palese incapacità dello stato hanno supplito i comitati d’affari, la malavita organizzata e le clientele locali, che hanno garantito piogge di pensioni, accesso agli insufficienti posti di lavoro in aziende di ogni dimensione e l’ipertrofia di una pubblica amministrazione in surroga alla cronica carenza di opportunità d’impiego. Infine, non può stupire che questi potentati siano arrivati al punto di attrezzarsi per la designazione dei rispettivi rappresentanti in seno alla politica, chiudendo così un cerchio viziato da una drammatica osmosi tra affari e politica dalla quale non è facile venir fuori.
Ovviamente il modello non si è fermato al confine immaginario di un Mezzogiorno arretrato e subalterno, ma ha fatto scuola ed ha gradatamente invaso il Paese sino a divenire sorta di imprinting culturale di una “italianità di successo", nella quale ogni cosa importata da altre realtà si adatta ad uso e consumo dei malefici obiettivi delle corporazioni dominanti. Un esempio su tutti è la tanto decantata flessibilità del lavoro, che se in Inghilterra, Francia, America è effettivamente utilizzata per alleggerire i costi delle imprese, è anche uno strumento per colmare il divario tra la teoria scolastica e la prassi del lavoro effettivo, tant’è che ha una temporizzazione ed è propedeutica ad una stabilizzazione dell’impiego. Nel nostro Paese ciò che si spaccia per flessibilità è divenuto strumento di sfruttamento schiavistico di un esercito di giovani senza futuro, pagati con stipendi da fame e senza alcuna garanzia di poter venir fuori da un circolo vizioso più simile a meccanismi di prostituzione organizzata che non di moderno indirizzo all’impiego.
Un opposizione che non abbia colto questi aspetti salienti radicati nella nostra cultura ci sembra francamente fallimentare sul piano progettuale, mentre qualora li avesse colti, - cosa che appare assai improbabile alla luce dei fatti, - non può consentirsi politiche di mano tesa nei confronti di chi intende solo perpetuare lo stato delle cose ed asservire sempre più i cittadini al proprio bieco interesse. D’altra parte, il PD ha dimostrato durante il governo Prodi di non essere in grado incidere sulle enormi ingiustizie sociali che allignano nel Paese, perdendo il treno dell’onestà nel rispettare gli impegni con l’elettorato sulle pensioni e sul precariato del lavoro ed oggi non può che trascinarsi dietro le rate di pagamento di un’inadempienza verso l’elettorato di sinistra a cui non basta il melenso doppiopetto di Veltroni per ridargli credito.
C’è da augurarsi che da questa nuova débacle la sinistra tutta tragga insegnamento e si avvii sulla strada di un radicale cambiamento di strategia e leadership, perché con un popolo allo stremo e smarrito non si guadagna la fiducia persa con borotalco ed ovatta, ma con un intelligente battaglia d’interdizione, dura quando necessario e aperta alla collaborazione quando gli interessi collettivi emergono chiari e trasparenti. Ed al momento questa capacità sembra averla solo Di Pietro e la sua IdV.
(nella foto, a sinistra Carlo Costantini, candidato dell'IdV, e a destra il vincitore della tornata elettorale Gianni Chiodi, sostenuto dal PdL)

lunedì, dicembre 15, 2008

Brunetta adesso hai rotto!

Lunedì, 15 dicembre 2008
C’è gente che pur di far parlare di sé andrebbe in giro nuda, recita un vecchio adagio. Nel caso di Brunetta, - sempre che ci si accorgesse di lui qualora decidesse di circolare in costume adamitico, - la scelta per rendersi visibile è caduta sulla boutade, - giusto per dirla con termine elegante. Da quando gli hanno dato il posto di ministro, infatti, il personaggio non fa che sparare provocazioni, se non vere e proprie insulsaggini, ora sull’assenteismo dei pubblici dipendenti, - che resti inteso, c’è ed è una piaga da combattere, - ora sui fantomatici premi ai risultati da elargire ai più bravi di quella categoria di lavoratori, - ma non s’è visto il becco d’un quattrino; - ora sul sindacato di sinistra, che difenderebbe i lazzaroni, omettendo di mettere un “anche” e senza limitare il pregio alla sola CGIL, che avrebbe reso più verosimile l’esternazione; ora sulle pensioni, una volta sull’età da elevare e un’altra sulla parificazione dei limiti minimi tra uomini e donne.
Insomma, sebbene non pecchi di mancanza di fantasia, peraltro inversamente proporzionale alla statura, è sulla qualità di ciò che dice che ci sarebbe molto da ridire, visto che le sue filippiche non producono se non il risultato di fare irritare avversari e, spesso, amici di coalizione e dunque si rivelano solo stupidaggini prive di riscontro concreto.
Ma va a laurà, gandula, che te ga rut i ball! si meriterebbe in vernacolo meneghino come risposta questo cabarettista da sala parrocchiale. Ma se c’è un sacco di gente che non sa come sbarcare il lunario e non aspetta che la meritata pensione per risolvere i problemi della propria esistenza, è proponibile venirsene fuori con la trovata che, se facciamo aspettare ancora qualche anno i pensionabili, i soldi che l’INPS deve dare loro magari possono destinarsi per finanziare la cassa integrazione di qualcun altro? Ma che accidenti di idea geniale è questa? E’ forse con l’erogazione di un pasto a giorni alterni che si risolvono i problemi della povertà e della miseria in cui il sistema ha cacciato milioni di cittadini? Non pensa il geniale Brunetta che intanto potrebbe cominciare a rinunciare al suo pingue stipendio per far mangiare dignitosamente almeno dieci disoccupati al mese? Non ritiene il Ministro che sia ora di smetterla con quest’ironia da marciapiede sulle disgrazie degli Italiani, non fosse per un senso minimo di rispetto delle altrui sfortune? Non pensa il signor Brunetta, che si pregia del titolo di economista, che le crisi come quella in corso si affrontano anche creando le condizioni affinché i cittadini abbiano ciò che loro può esser dato in forza di un diritto maturato nel tempo senza pesare sul pacchetto delle misure da assumere a carico di chi non ha ammortizzatori simili? Si augura il Nostro genio che se nell’attesa della pensione qualcuno passa a miglior vita, possibilmente per inedia o per suicidio com’è già accaduto, ci saranno più soldi da distribuire?
«Da tutti, con toni diversi, è arrivata una risposta culturalmente debole e fragile» s’è lamentato il Ministro con l’intervistatore che gli chiedeva cosa pensasse dello stop arrivato unanime dai sindacati alla sua proposta di elevare l’età per la pensione delle donne e dell’ironia del suo collega Calderoli della Lega alle sue esternazioni, forse attendendosi un tripudio di complimenti. In verità deve già ritenersi fortunato se una risposta gli è arrivata, perché in certe occasioni bisognerebbe avere il buon gusto di tacere e perder tempo con le cretinate, con i problemi seri che ci ritroviamo.
Ed al giornalista che lo incalzava con la domanda sul perché non si intervenga per ricostituire uno stato sociale per correggere le profonde sperequazioni, Brunetta aggiungeva: «Spendiamo troppo per le pensioni e troppo poco per il lavoro. Nel nostro welfare ci sono figli e figliastri, lo sappiamo tutti: troppo per la cassa integrazione e troppo poco per un'indennità di disoccupazione universalistica. Sappiamo tutti che ci sono troppe poche risorse per gli asili….», che la dice lunga sulla chiarezza di idee del valente Ministro, che intenderebbe risolvere i problemi della cassa integrazione o delle strutture per l’infanzia non riformando il mercato del lavoro ed il sistema contributivo e fiscale che grava su lavoratori ed imprese, oppure con adeguate misure di ammodernamento infrastrutturale per gli asili nido, ma con l’ennesimo scippo a danno dei fondi per le pensioni com’è buona tradizione di questo ignobile Paese, nel quale i soldi per la quiescenza sono stati da sempre impiegati per l’erogazione dell’indennità di malattia, che nulla ci azzecca con le pensioni.
La verità vera è che Brunetta ed i pubblici amministratori come lui hanno definitivamente stufato con queste tiritere decotte in grado solo di alimentare l’entusiasmo di quattro benpensanti con il portafogli gonfio, magari frutto dell’elusione impunita. Farebbero cosa più dignitosa se, invece di sparar sentenze a raffica, andassero a lavorare come fa l’Italia reale e provassero sulla loro pelle cosa vuol dire pagare 800-1000 euro d’affitto al mese, sottraendolo allo stipendio di 1200-1500 euro, e possibilmente si ritrovassero un mattino ad aprire una lettera di cassa integrazione o di licenziamento. Forse così, con i piedi finalmente a terra e la pancia vuota, perderebbero il gusto per le stupidaggini ad effetto.

(nella foto, Renato Brunetta)

sabato, dicembre 13, 2008

Ladri e imbecilli di tutto il mondo, unitevi!

Sabato, 13 dicembre 2008
Pubblichiamo di seguito un articolo di Michael Moore, il regista americano autore del film-documento sull’11 settembre, nel quale esprime con determinazione e chiarezza le ragioni per cui gli aiuti richieste dalle compagnie automobilistiche americane, Ford, Chrysler e General Motors, oggi sull’orlo del fallimento a causa della gravissima crisi economica, debbono essere negati.
E’ superfluo sottolineare che al di là della specificità americana, le considerazioni di Moore ben si adattano anche alla situazione italiana, nella quale non mancano certo ladri, imbroglioni, affaristi ed imbecilli come nel Paese delle stelle e strisce, con l’aggravante che in casa nostra questa marmaglia sedicente imprenditoriale da sempre perpetra grassazioni ai danni del sistema e da sempre trova qualche samaritano, non certo disinteressato, che acquista le medicine ed applica i cerotti per curare i mali che hanno prodotto, senza lasciarsi mai sfiorare dal dubbio che, spesso, bisognerebbe solo prendere a calci nel fondo schiena questi laidi personaggi.

Amici,
io guido un'auto americana, una Chrysler. Non è un modo per pubblicizzarla. Più che altro, sto chiedendo compassione. C'è una lunga storia, vecchia di decenni, raccontata all'infinito da decine di milioni di americani, un terzo dei quali ha dovuto rinnegare il proprio Paese solo per trovare un maledetto mezzo per andare al lavoro con qualcosa che non si rompesse: la mia Chrysler ha quattro anni. L'ho comprata per via della guida facile e comoda. Allora la società era proprietà della Daimler-Benz che ebbe la buona idea di montare una carrozzeria Chrysler su un semiasse Mercedes e, ragazzi, come va bene!
Più di una decina di volte, in questi anni, l'auto si è rifiutata di mettersi in moto. Ho sostituito le batterie, ma il problema non era quello. Mio padre guida lo stesso modello, e anche la sua macchina è rimasta spesso in panne. Non si mette in moto, senza nessuna ragione.
Qualche settimana fa, ho portato la mia auto in un'officina Chrysler, qui nel Michigan settentrionale, e l'ultimo intervento per aggiustarla mi è costato 1.400 dollari. Il giorno seguente, la macchina non è ripartita. Quando sono riuscito a metterla in moto, ha cominciato a lampeggiare la spia dei freni. E così via.
Da tutto questo sarete giunti alla conclusione che non me ne freghi niente di quei poveri incapaci che costruiscono queste auto schifose, su a Detroit. Invece mi importa. Mi importa di quei milioni di persone la cui vita e il cui sostentamento dipendono dalle compagnie automobilistiche. Mi stanno a cuore la sicurezza e la difesa di questo Paese, perché il mondo sta esaurendo le scorte di petrolio, e quando sarà davvero finito, la catastrofe e la rovina saranno tali da far sembrare la crisi attuale una passeggiata.
E mi interessa anche ciò che sta succedendo a proposito delle tre grandi società automobilistiche, le Big 3, perché a loro vanno le maggiori responsabilità per la distruzione della nostra delicata atmosfera e per il continuo scioglimento dei ghiacci delle calotte polari.
Il Congresso deve salvare le infrastrutture industriali che queste società controllano e i posti di lavoro che creano. Deve liberare il mondo dal motore a combustione interna. Questa grande, estesa rete industriale potrebbe riscattarsi realizzando veicoli per il trasporto di massa e automobili a motore elettrico o ibrido e mezzi di trasporto necessari per affrontare il Ventunesimo secolo.
E il Congresso deve fare tutto questo negando alla GM, alla Ford e alla Chrysler i 34 miliardi di dollari che chiedono in "prestito" (qualche giorno fa ne chiedevano solo 25 miliardi: ecco quanto sono stupidi, non sanno neanche di quanto davvero hanno bisogno per pagare gli stipendi di questo mese. Se voi o io cercassimo di ottenere un prestito dalla banca in questo modo non solo ci butterebbero fuori a calci, ma la banca scriverebbe i nostri nomi sul libro nero dei creditori).
Due settimane fa, i direttori generali delle tre grandi società automobilistiche sono dovuti comparire davanti ad una commissione del Congresso che li ha derisi negando loro ciò che due mesi prima aveva concesso ai pezzi grossi del mondo finanziario. Allora i politici sgomitarono per favorire Wall Street e gli intrallazzatori che applicavano lo schema Ponzi, architettando modi bizantini per scommettere il denaro altrui in pericolose operazioni finanziarie chiamate in gergo "unicorni" e "fate".
Ma i ragazzi di Detroit vengono dal Midwest, dal Rust Belt, la "Cintura Arrugginita", dove si producono cose concrete di cui i consumatori hanno bisogno, cose che si possono toccare e comprare, che fanno circolare denaro nell'economia (assurdo!), dando vita a sindacati che hanno creato il ceto medio, e che quando avevo dieci anni mi hanno curato i denti gratis. Per tutto questo, i capi del settore automobilistico lo scorso novembre hanno dovuto sedersi davanti alla commissione ed essere messi in ridicolo per il modo in cui sono arrivati a Washington. Sì, ci sono andati con i jet aziendali, proprio come fecero in ottobre i banchieri e i ladri di Wall Street. Ma, guarda un po', quello andava bene! Loro erano i Padroni dell'Universo, solo i mezzi più veloci sono adeguati alla Grande Finanza che si appresta a saccheggiare le casse del nostro Paese.
Ovviamente, una volta, a governare il mondo erano i magnati dell'industria automobilistica. Erano il cuore pulsante che tutte le altre nostre industrie servivano : acciaierie, raffinerie, cementifici. Cinquantacinque anni fa, il presidente della General Motors andò a Capitol Hill e, rivolto al Congresso, disse senza peli sulla lingua che ciò che era bene per la General Motors era bene per il Paese. Perché, vedete, nella loro mente, la GM era il Paese.
A quale triste caduta in disgrazia abbiamo assistito lo scorso 19 novembre, quando i tre topolini ciechi sono stati bacchettati sulle mani e rispediti a casa a scrivere un tema dal titolo "Per quale ragione dovreste darmi miliardi di dollari gratis". Hanno persino chiesto loro se erano disposti a lavorare per un dollaro all'anno. Eccovi serviti! Che grande, coraggioso Congresso è questo! Proporre una servitù debitoria a tre degli uomini (tuttora) più potenti del mondo. E questo da un organismo smidollato, incapace di reagire a un presidente screditato o di rifiutare una sola richiesta di finanziamento per una guerra che né il Congresso stesso né l'opinione pubblica americana appoggiano. Fantastico.
Permettetemi di dire una banalità: ogni singolo dollaro che il Congresso dà a queste tre società sarà buttato nel cesso. Non c'è nulla che la dirigenza delle Tre Grandi potrà fare per convincere la gente ad uscire durante una recessione e andare a comprare le loro grandi, automobili scadenti ad alto consumo. Se lo possono scordare. E, come sono certo che i Detroit Lions, proprietà della famiglia Ford, non andranno al Super Bowl, mai, vi posso assicurare che dopo aver bruciato questi 34 miliardi di dollari, la prossima estate ne chiederanno altri 34.
Cosa fare, allora? Membri del Congresso, ecco ciò che propongo:
1. Il funzionamento del sistema di trasporto americano è e dovrebbe essere una delle funzioni più importanti che il governo deve affrontare. E poiché abbiamo di fronte una grave crisi economica, energetica e ambientale, il nuovo presidente e il Congresso devono fare ciò che fece Franklin Roosevelt quando dovette affrontare la crisi (e ordinò all'industria automobilistica di smettere di costruire auto e produrre invece carri armati e aerei) : le Tre Grandi, da questo momento, devono costruire unicamente automobili che non dipendano principalmente dal petrolio e, cosa ancora più importante, realizzare treni, autobus, metropolitane e metropolitane leggere (un corrispondente progetto di opere pubbliche realizzerà in tutto il Paese le tratte ferroviarie e i binari). Questo non soltanto salverà i posti di lavoro, ma ne creerà milioni di nuovi.
2. Potreste acquistare tutte le azioni ordinarie della General Motors per meno di 3 miliardi di dollari. Perché dovremmo dar loro 18 o 25 miliardi di dollari? Prendete quel denaro e comprate la società! ( se concederete loro il "prestito", gli chiederete comunque una garanzia pignoratizia, e dato che sappiamo che non restituiranno quel denaro, alla fine la società sarà proprietà dello Stato, dunque perché aspettare? Rilevatela ora).
3. Nessuno di noi vuole dei funzionari statali a gestire un'azienda automobilistica, ma ci sono ottimi esperti del settore che potrebbero essere preposti a questo compito. Abbiamo bisogno di un Piano Marshall per emanciparci dai veicoli che utilizzano il petrolio ed entrare nel Ventunesimo secolo.

Non si tratta di una proposta radicale o fantascientifica. Per metterla in pratica ci vuole soltanto l'uomo più in gamba che sia mai diventato presidente. Ciò che propongo ha già funzionato in precedenza. Durante gli anni Settanta, il sistema ferroviario era un disastro. Il governo intervenne. Dieci anni dopo il sistema era in attivo e il governo lo rivendette ad una gestione mista privata e pubblica ricavando un paio di miliardi di dollari da destinare alle casse dello Stato.
Questa proposta potrebbe salvare le nostre infrastrutture industriali e milioni di posti di lavoro. Cosa ancora più importante, ne potrebbe creare milioni di nuovi. Potrebbe letteralmente tirarci fuori dalla recessione.
Invece, la General Motors ha presentato al Congresso la sua proposta di ristrutturazione. Hanno promesso che, se ora il Congresso concederà loro 18 miliardi di dollari, in cambio elimineranno 20.000 posti di lavoro. Avete letto bene. Noi gli diamo alcuni miliardi di dollari così che loro possano licenziare altri americani. Questa è stata la loro Grande Idea degli ultimi 30 anni: licenziare migliaia di lavoratori per garantire i profitti. Tuttavia, nessuno ha chiesto loro: "Se licenziate tutti, chi avrà i soldi per acquistare le vostre automobili?"
Questi imbecilli non meritano un centesimo. Licenziateli tutti e rilevate l'azienda per il bene dei lavoratori, del Paese e del pianeta. Ciò che è bene per la General Motors è bene per il Paese. Una volta tanto è il Paese a dettare le condizioni.

Michael Moore

venerdì, dicembre 12, 2008

Pensioni, un’altra riforma-truffa?

Venerdì, 12 dicembre 2008
Puntuale come certe disgrazie giunge da voci di corridoio la notizia che sarebbe allo studio l’ennesima riforma del sistema pensionistico. Che poi di riforma non si tratterebbe, poiché si tratterebbe di elevare ancora una volta l’età alla quale sarebbe consentito accedere al trattamento di quiescenza.
Secondo i sussurri, questa necessità sarebbe dettata dall’esigenza di reperire i fondi necessari per finanziare gli ammortizzatori sociali, ai quali si farà sempre maggior ricorso nei prossimi mesi a causa della crisi economica.
La questione relativa al reperimento dei fondi per finanziare cassa integrazione, mobilità ed indennità di disoccupazione è certamente di primaria importanza nella fase corrente; tuttavia un nuovo intervento sui meccanismi di accesso alla pensione per dirottare risorse per la risoluzione del problema appare come un tragico gioco delle tre carte, dato che toglie da una parte e dà da un’altra, ma apre un fronte ancor più problematico e critico nel panorama del fenomeno disoccupazione, così tragicamente omogeneo per i tanti che hanno perso o stanno per perdere l’unico mezzo di sostentamento e così variegato nelle prospettive di ritrovare un’occupazione.
Sono ormai mesi che denunciamo lo stato di profonda precarietà umana in cui versano migliaia di cittadini ultracinquantacinquenni espulsi dal sistema produttivo. Per costoro, troppo anziani per risultare ancora appetibili sul mercato del lavoro, quasi stessero oggi elemosinando un diritto che hanno pagato con anni ed anni di versamenti contributivi, sono scattate, prima con il governo Berlusconi e poi con il governo Prodi, meccanismi che, di fatto, inibiscono l’accesso al pensionamento, essendo stati rivisti i requisiti di minimi di età oltre che gli anni contributivi. Per costoro il pensionamento di anzianità, dopo ben 36 anni di contribuzione, non può esser visto come una regalia del sistema, ma rappresenta l’unica ancora di salvezza da una condizione di invivibilità e miseria per sé e la propria famiglia.
Ciò era stato compreso dal governo Prodi, che aveva in parte addolcito le drastiche misura varate con la precedente riforma Maroni, pur mantenendo una penalizzazione intollerabile per i tanti esclusi. L’ennesima riforma del sistema, che allunghi l’età per accedere al beneficio, sarebbe un vero e proprio misfatto sociale che non può essere in alcun modo consentito. Una nuova ulteriore riforma dei parametri d’età sarebbe un’ipotesi perversa che non terrebbe conto delle reazioni disperate che potrebbe produrre, oltre a rappresentare una palese contraddizione con quei principi minimi di equità sociale particolarmente stringenti nella fase di crisi attanagliante che attraversiamo.
Non v’è alcuna emergenza che possa mai giustificare il vero e proprio ladrocinio di stato consumato con un provvedimento che ha cancellato improvvisamente diritti consolidatisi in oltre 35 anni, rappresentati dai versamenti in denaro contante agli istituti di previdenza pubblica.
Ma hanno pensato gli autori di questa mostruosità cosa mai accadrebbe se banche, assicurazioni e chiunque avesse stipulato un contratto in base al quale ha acquisito versamenti periodici con promessa di erogazione di un capitale dopo un tempo definito, alla scadenza si arrogasse il diritto di posticipare la liquidazione di quanto dovuto? Chiunque in una tale ipotesi griderebbe allo scandalo, se non alla truffa, e scomoderebbe magistrati e tribunali per costringere l’inadempiente a saldare il suo debito.
Nel caso delle pensioni, invece, è sembrato del tutto normale calpestare ogni principio di legalità e fare carta straccia del contratto virtuale in essere con milioni di cittadini, adducendo meschine quanto improponibili ragioni di equilibrio di pubblico bilancio.
Diversa cosa sarebbe stata una riforma che avesse previsto nuovi meccanismi applicabili ai neoassunti a partire da una certa data, in quanto non avrebbe contemplato odiose retroattività, non solo inique ma ai confini del codice penale.
Ma se queste considerazioni rientrano nella sfera squisitamente giuridica e fondante del rapporto stato-cittadino, diverse sono le critiche che possono muoversi sul piano dell’etica e dell’equità ai propugnatori di ulteriori riformismi.
Coloro che propugnano nuovi interventi penalizzanti in tal senso, come la Confindustria di Emma Marcegaglia o i quattro economisti attenti solo ai tecnicismi teorici, sono disgraziatamente affetti da una visione cinica della realtà, incapace di fare i conti con l’emergenza di fenomeni che gravano pesantemente su larghi strati del tessuto sociale, per i quali non ci sono soluzioni se non il sostegno tangibile dello stato o l’accesso alla guadagnata pensione.
Il dibattito sul precariato, sulla disoccupazione crescente, sul peso degli oneri a carico delle imprese, è del tutto lecito, così come è lecito pianificare interventi risolutivi che consentano alle imprese di competere senza gravami eccessivi ed ai cittadini di esperire un’esistenza dignitosa senza l’ausilio di strumenti di sostegno a carico della collettività. Questi, però, sono discorsi che debbono essere affrontati quando le condizioni lo consentono, non certo in periodi nei quali è già impossibile arrivare a fine mese per coloro che lavorano o trovare un’occupazione per quanti involontariamente hanno perso quella che avevano. E chi sostiene che le pensioni gravano sul bilancio dello stato abbia l’onestà di ammettere che il denaro versato da lavoratori ed imprese nel corso degli anni per farvi fronte è stato letteralmente trafugato o sperperato per finanziare altre spese.La crisi economica in atto é stata da più parti ipotizzata lunga e difficile da gestire, ma non vi sarebbe alcuna giustificazione plausibile per decidere di infliggere un nuovo colpo alle attese di quanti nel pensionamento vedono ormai l’unica e l’ultima ancora di salvezza prima del baratro. E chi si illude che le soluzioni possano venire da facili escamotage di corto respiro non ha probabilmente fatto i conti con la sopportazione popolare, ormai giunta ad un pericoloso limite. Di ciò che dovesse accadere, qualora si assumessero provvedimenti di politica economica e sociale che non tenessero nel dovuto conto le ricadute sulla realtà del Paese, dovranno essere chiare le responsabilità e le conseguenze, visto che la storia insegna che la miseria, l’indigenza e lo stato di necessità sono i potenti catalizzatori per l’esplosione di vere e proprie rivolte sociali, i cui esiti nefasti finiscono sì per coinvolgere tutti.

(nella foto, Alberto Alesina, tecnocrate propugnatore di una nuova riforma del sistema pensionistico)

mercoledì, dicembre 10, 2008

Fabio Fazio – Beccato un altro comunista

Mercoledì, 10 dicembre 2008
Chi non è con me è contro di me. Questo non è il semplice slogan da anni abusato dai “democratici” di Forza Italia, prima, e dagli ultraliberisti del PdL, adesso. E’, oramai, un’infezione gravissima di natura psichiatrica, che ha colpito irreversibilmente la destra italiana, costantemente alla ricerca del nemico di turno da accusare di faziosità, di propaganda sovversiva, di comunismo, – come si trattasse di un reato e sempre che di comunisti ce ne siano ancora in giro, - di falsità e via discorrendo.
Questa volta è il turno di Fabio Fazio e della sua trasmissione Che tempo che fa, entrata nel mirino degli esagitati del PdL, trasmissione colpevole di ospitare troppi politici e di lasciarsi andare ad una satira considerata propagandistica ai danni della destra di governo. Fortunatamente è stata risparmiata la Littizzeto, anche se non è ancora chiaro per quanto tempo riuscirà a farla franca.
Così, in un calembour quasi comico, Fazio è stato definito fazioso e, per questo deferito alla Commissione di Vigilanza, quella presieduta da tal Villari eletto con i voti degli “amici” della destra, espulso dal PD, che pare vada in giro seduto per aver spalmato la poltrona di ettolitri di attack.
«Quelle di Fazio sono interviste realizzate con grande attenzione e legate ai fatti», ha dichiarato il presidente della RAI Petruccioli in Commissione, che ha paragonato Fazio al prestigioso anchorman americano Letterman, ed ha aggiunto, «Alla fine del ciclo si potrà giudicare sull'equilibrio. Ma devo dire che a Fazio è stato rinnovato da poco il contratto per i prossimi anni dal consiglio di amministrazione di Viale Mazzini con un solo voto contrario». Dichiarazioni che hanno sollevato la dura reazione del PdL, che a voce del capogruppo Alessio Brutti ha ribattuto: «Siamo rimasti scioccati dalle affermazioni del presidente Petruccioli. Non solo non ha risposto alle nostre domande, ma ha terminato con una chicca finale: non c'è mai stato tanto pluralismo in Rai come negli ultimi anni». Più aspro l’affondo di Francesco Casoli, vicepresidente dei senatori del PdL, che ha ribattuto: «Se Fazio è come Letterman, Petruccioli è come Spiderman che si arrampica sugli specchi per difendere l'indifendibile». Probabilmente nessuno gli avrà fatto notare che se Petruccioli è come Spiderman, lui alberga in un partito in cui il suo leader è come il mitico Superciuck, l’anti Robin Hood della saga di Alan Ford, che toglie ai poveri per dare ai ricchi; - sebbene sia meglio che Casoli e soci ignorino l’esistenza di un fumetto di tal fatta, onde evitarne l’eventuale sequestro nelle edicole del Paese per propaganda sovversiva.
Mentre non è noto quale sia stata la reazione del PD all’iniziativa della Commissione, - sempre che in casa dei buonisti-ad-ogni-costo ve ne sia stata qualcuna, - l’IdV di Di Pietro, - assente dai lavori della Commissione per essersi autoesclusa dopo la vicenda Villari, - non ha perso l’occasione per assestare l’ennesima stoccata agli avversari ed a proposito di quest’ennesima sceneggiata del governo ha dichiarato : «Il clima di intimidazione nei confronti dei giornalisti è la conferma che la vigilanza Rai è ormai ridotta a stalla della villa di Arcore».
Peccato, ci viene immediato aggiungere, che non ci sia più l’eroe Mangano, che di stalle, com’è noto, se ne intendeva davvero.

(nella foto, Fabio Fazio con Luciana Littizzeto)

martedì, dicembre 09, 2008

America, lezioni d’imparzialità

Martedì, 9 dicembre 2008
Sarà anche il Paese delle mille contraddizioni, ma non c’è dubbio che su certe cose in America non si scherza e, più che altro, non si guarda in faccia a nessuno. Ed è così che in manette è finito il governatore dell’Illinois, Rod Blagojevich, accusato di gravi atti di corruzione per aver tentato di “vendere” il posto lasciato libero da Barak Obama, eletto alla presidenza degli USA. Con lui è finito in manette il suo capo di gabinetto, John Harris, per concorso negli stessi reati.
L’indagine, che ha portato all’arresto di Blagojevich, ha preso il via dai sospetti di corruzione che da tempo gravavano sul governatore, per il quale il magistrato aveva autorizzato l’intercettazione delle linee telefoniche, che sono state confermate dai riscontri ottenuti nel corso di conversazioni registrate dagli inquirenti.
Il caso di malgoverno e di corruzione di cui ci si occupa fa scalpore nel raffronto con la nostra legislazione, sfrenatamente garantista nei confronti dei politici di casa nostra, e con il comportamento prevedibile dei nostri intoccabili qualora il caso si fosse verificato in Italia.
Intanto le intercettazioni sarebbero state di certo secretate. Dopo di che si può immaginare la canea che si sarebbe sollevata in difesa o in accusa dell’indagato, con le solite prese di posizione pro e contro degli schieramenti in campo e con la prevedibile avvertenza circa lo "scarso valore di frasi estrapolate da un discorso più complessivo" e con accuse di "attitudini forcaiole" per coloro che interpretano a proprio uso e consumo "innocenti affermazioni" o che sono "avvezzi ad equivocare", se non a mettere in bocca, "espressioni mai usate o addirittura pensate" da personaggi di tutto rispetto e comprovata (?) moralità.
Di esempi ne abbiamo a bizzeffe e chi volesse sostenere che queste considerazioni costituiscono un mero processo alle intenzioni sarebbe in palese e profonda malafede. Oltretutto, basta fare un breve tour alla bouvette del Parlamento per incappare in decine di inquisiti e di condannati a piede libero, grazie alle norme sull’immunità o alla allucinante pratica normativa di comporre liste elettorali infarcite di personaggi dalla moralità più che dubbia, ma svincolate da ogni controllo dell’elettore, essendo ormai inibita l’espressione del voto di preferenza.
L’America è senza dubbio il Paese delle contraddizioni, dove immense fortune si contrappongono a povertà spaventose, dove al capitalismo protervo e imperialista fa da contraltare ad una piccola industria di provincia ancora tecnologicamente deficitaria, dove un’arroganza sbruffona incappa in una giustizia che difficilmente si lascia intimidire dall’importanza di chi le sta davanti.
Molto avrebbero da imparare parecchi dei nostri uomini politici in quanto ad etica da questa America, ad iniziare proprio da coloro che da sempre se ne dichiarano amici fedeli o la citano, secondo convenienza, ad esempio di principi di libertà ed eguaglianza che non sempre sono poi disposti a rispettare, particolarmente quando loro sono i soggetti in causa o lo é qualcuno dei baciapile di cui amano farsi far codazzo.
Noi siamo troppo simili a realtà terzomondisti e sudamericane nelle quali le regole sono scritte a beneficio di tutti, ma la loro osservanza stretta è riservata alla gente comune, ai peones che tirano il carro e faticano per alimentare il potere di una élite padrona che ritiene proprio diritto inviolabile perpetrare ogni scorrettezza e restare impunita. Ma questa è l’Italia ed è anche quella che gli Italiani si sono voluti sottomettendosi alle regole di una democrazia truccata, dalle quali appare sempre più difficile venir fuori, sebbene quando ciò accadrà non sarà comunque mai troppo tardi.
(nella foto, Rod Blajevich, governatore dell'Illinois, arrestato per corruzione)

domenica, dicembre 07, 2008

Alitalia: storia di eroi, patrioti e servi della gleba

Sabato, 6 dicembre 2008
“Eroi”, così Sabelli, Colaninno e soci sono stati definiti ieri sera dal cavalier Silvio Berlusconi nel corso di una cena a Villa Madama organizzata in loro onore, - rigorosamente a spese dello stato, come faceva notare qualcuno. E se questo riconoscimento è stato attribuito dal presidente del consiglio di questo Paese, esemplare in quanto a serietà e parsimonia nel riconoscere i meriti dei suoi cittadini, c’è da credere che continuando su questa strada i soci di CAI, i martiri che hanno rilevato Alitalia, presto o tardi diventeranno anche santi, ché un Unto dal Signore può far questo ed altro.
Peccato che lo stesso riconoscimento fu tributato appena qualche mese fa anche a tal Mangano, mafioso conclamato, morto nelle patrie galere dove soggiornava in seguito a condanna passata in giudicato per omicidio, ma che vantava nel suo curriculum oltre che esperienze nel campo della droga, delle estorsioni e del killeraggio anche un inappuntabile servizio in qualità di stalliere in casa Berlusconi, che, d’altra parte, calato nel ruolo di nuovo Redentore non riteneva opportuno sindacare sulle credenziali dei suoi adepti. Come il Cristo, anche lui si sarà accompagnato a meretrici, ladri, assassini e a quanti per i comuni mortali costituiscono la cosiddetta feccia umana, con il santo e precipuo scopo di redimerli ed indirizzarli sulla corretta via della salvezza eterna.
Questo non vuol dire che anche Berlusconi non abbia avuto durante la sua missione terrena qualche défiance. Anche lui come Gesù con i mercanti nel tempio non ha mai tollerato baffi e barbe, calzini bianchi e camicie di colore diverso dall’azzurro. L’estetica conta più del contenuto. Anzi il contenuto è meglio non trapeli. Chi pensa può tendenzialmente dimostrarsi ingestibile e, dunque, può rappresentare un problema che è meglio evitare sul nascere.
Noi, che ci riteniamo un po’ grezzi ed abbiamo una visione della realtà un po’ più laica, francamente ci saremmo sentiti alquanto in imbarazzo nel doverci accumunare con quel titolo a personaggi di così conclamata immoralità; ma non siamo né Sabelli, né Colaninno, né Ligresti, né apparteniamo alla cordata CAI, ai quali spetta trarre le conclusioni, pur se possiamo immaginare che qualcuno di questi, magari facendo mente locale, avrà avuto la tentazione di ribattere “eroe sarà lei!” e non perché tra loro ci siano solo stinchi di santo, quanto per quella simmetria palesemente fuori luogo.
Il tenore del festino è stato in perfetto stile aziendale. Una sorta di company day, nel corso del quale l’amministratore delegato dell’Italia SpA, - come ha definito Inviato Speciale il presidente del consiglio, - ha lodato urbi et orbi, i “collaboratori” meritevoli, additandoli ad esempio agli altri partecipanti alla manifestazione, come si fa nelle convention annuali delle sua aziende.
«Vi ho consentito l’ingresso in un settore in crescita e sono convinto che alla fine questa operazione vi permetterà di guadagnarci» ha flautato Berlusconi con magnanimo sussiego, anche se quel “vi ho consentito” più che l’esordio di una predica ha riportato alla mente il minaccioso “vae victis” di Brenno. In ogni caso informatori invitati a questo cenacolo, che preferiscono restare anonimi, assicurano che i presenti hanno all’unisono elevato un “amen” di ringraziamento.
Nessun accenno invece da parte dell’a.d. Berlusconi agli oltre 2,5 miliardi di debiti che l’operazione lascia sulle spalle dei cittadini servi della gleba, senza contare gli incalcolati miliardi aggiuntivi necessari per sostenere la mobilità lunga delle oltre 10000 anime che non saranno ammesse nel paradiso CAI e che resteranno per 7 anni nel purgatorio della cassa integrazione (euro 799, 45 mensili) in attesa di pensione o di definitivo abbandono al loro destino. Certo, per essere “eroi” o “patrioti”, – come ad abundantiam li ha apostrofati Berlusconi, - questi intrepidi hanno fatto più morti di quanti non ne abbiano prodotti i Crociati contro i Saraceni ed in altri tempi, più che una medaglia, si sarebbero guadagnati un processo per crimini di guerra. Se poi si considera che nessuno di loro ha mai visto un aeroplano, se non da passeggero, l’atto di eroismo millantato da Berlusconi si ridimensiona notevolmente, visto che peraltro di soldini i “patrioti” ne hanno scucito molto pochi (poco più di 400 milioni da dividere in 16 e da pagare in comodissime rate, TAN e TAEG zero com’è di moda, e 650 milioni in assunzione di debiti da saldare in rate ancora più comode) e si palesa come l’operazione sia stata una regalia a quattro amici e sostenitori, con il solo scopo di appagare lo sciovinismo nazionalista di un premier, che s’era sbilanciato eccessivamente in campagna elettorale e non poteva permettersi di perdere la faccia non mantenendo le promesse fatte.
Nessun accenno da parte dell’a.d. Berlusconi anche alla richiesta di compenso di ben 15 milioni del signor Fantozzi, commissario Alitalia, per l’opera di traghettamento della ex compagnia di bandiera nelle mani della cordata CAI, - anche questi soldini interamente a carico dei cittadini servi della gleba. Non sappiamo quali siano i meriti di Fantozzi da giustificare la pretesa di un compenso come quello detto prima, né ci risulta sia stato sottoposto alle sofferenze del mitico Sisifo per fare ciò che ha fatto. Certo è che il signor commissario ex Alitalia tutto ci è sembrato, tranne che matto, e pertanto se tale richiesta ha avanzato deve essere a fronte dell’impegno, immaginiamo scritto, di qualcuno. E siccome patta servanda sunt, non ci si venga a dire che c’è stato un malevolo equivoco anche su ciò che sta scritto, ma si abbia piuttosto il coraggio d’incassare il meritato rimbrotto del cittadino servo della gleba, incazzato per quest’ennesimo scempio di pubblico denaro.
In ogni caso la festa è andata bene, tra brindisi e cannoli e tra l’allegria generale, alla quale non poteva non associarsi il ministro Matteoli per l’assunzione, certamente disinteressata, del figlio nei ranghi del personale pilota di ex Alitalia. Chi ha stigmatizzato come tale assunzione sia avvenuta in pieno blocco degli organici e ad esuberi tra il personale navigante dichiarati, è stato immediatamente additato come comunista sovversivo con il macabro gusto di avvelenare la gioia di una famiglia che vede, di questi tempi, il proprio figliolo sistemarsi grazie al proprio merito, peraltro in una realtà aziendale solida e dal roseo futuro.
Unica nota stonata, il gruppetto di pezzenti, controllato a vista da uno schieramento spropositato di gendarmi, intento a manifestare davanti all’uscio di Villa Madama e raccattato tra i residuati della resistenza del personale ex Alitalia in dissenso con le condizioni contrattuali imposte da CAI diversamente da quanto previsto negli accordi in sede ministeriale. Costoro non solo erano soli, abbandonati dai tanti farisei politici e sindacali che avevano pubblicamente giurato il loro sostegno, ma con ogni probabilità, colti dall’occhio attento di qualche telecamera nascosta, hanno segnato il loro destino andando ad ingrossare la lista dei licenziati.
E buon appetito a tutti.
(nella foto, dopo il presidente operaio, muratore, meccanico e tante altre cose, Berlusconi aviatore)

giovedì, dicembre 04, 2008

Il PD alla resa dei conti: quale prospettiva?

Giovedì, 4 dicembre 2008
Le risposte di Walter Veltroni rilasciate a Massimo Giannini di la Repubblica nel corso di un’intervista pubblicata oggi sul quotidiano nazionale non lasciano dubbi. Il PD è davanti ad una resa dei conti sulla leadership e sull’interpretazione del modello strategico da questa interpretato che potrebbe indurre al disegno di nuovi scenari nel panorama dell’opposizione parlamentare futura.
Ammette, infatti, Veltroni che la sua segreteria è attualmente sotto attacco da parte di forze dissenzienti dalla linea che in questi mesi ha tracciato, sia dall’ala sinistra, sostenuta da D’Alema e Fassino, che da quella moderata, rappresentata dagli ex Margherita, incarnati da Rutelli. E’ questa un’opposizione sotterranea, di logoramento, che non viene ancora allo scoperto, ma che mina la credibilità e la coerenza della linea del partito agli occhi degli elettori, che sempre più numerosi prendono le distanze da quello che ormai rappresenta il solo punto di riferimento di una sinistra allo sbando e vanno ad ingrossare il popolo dell’astensionismo e dell’antipolitica.
«Io non amo parlare di questioni interne al Pd, ma di fronte a quello che sta accadendo avverto la necessità di dire: adesso basta. Basta con le confessioni anonime, basta con i retroscena, basta con i veleni.» - dichiara accorato Veltroni, - «È inimmaginabile che nel cuore di una crisi economica gravissima e di una crisi di consenso del governo, il centrosinistra riformista ricada nel suo solito vizio autolesionista: quello di segare l'albero su cui sta seduto».
Ma sebbene si avverta da queste parole l’attualità e la presa d’atto di una lotta intestina dagli esiti tutt’altro che definiti e che vede Veltroni disposto a rimettere in gioco la guida del partito già dal prossimo direttivo del 19 dicembre prossimo, qualora in quella sede se ne faccia esplicita richiesta, si intuisce che l’opposizione interna è tutt’altro che consolidata. I giochi non sembrano ancora conclusi e nonostante la disponibilità «a mettermi in gioco, se questa si rivelerà la soluzione più condivisa,» - dichiarata dal Veltroni, - non pare ci siano le condizioni per un repentino ribaltamento di leadership. «Ma se nessuno pensa che il nostro problema sia la leadership, allora chiedo a tutti il massimo della coerenza. Discutiamo pure. Ma avendo ben chiara una cosa: tutti remano nella stessa direzione per raggiungere i migliori risultati», - conclude Veltroni, con un’affermazione che suona più un augurio che non la convinta conferma che i dissapori possano trovare una ricomposizione.
D’atra parte non può negarsi come la nascita del PD sia avvenuta su basi sostanzialmente fragili. Fassino che firma il manifesto del PSE, quello dei socialisti europei, e Rutelli che dichiara che mai potrà diventare socialista, è la conferma che all’interno del partito sopravvivono almeno due anime con opposte vedute, la cui distanza rimane incolmabile e che costringe a quotidiani giochi di prestigio per tenere incollati due lembi sempre in procinto di scollarsi per imboccare strade separate.
Ci sono poi le vicende Villari e della vigilanza RAI, le dichiarazioni di Arturo Parisi sulla morte dell’identità dell’Ulivo, i fatti di Napoli e l’intreccio affaristico nell’amministrazione locale della città partenopea, i pizzini di Latorre, il ritorno di D’Alema nella scena politica attiva del partito e, non ultima, la diatriba con Chiamparino e Cacciari, rispettivamente sindaci di Torino e di Venezia, su un PD del Nord, che guardi selettivamente ai problemi di aree geografiche fortemente connotate da problematiche socio-economiche peculiari, sulle quali ha trovato fertile terreno la Lega.
«Abbiamo avuto un calo nei sondaggi, proprio nei giorni della vicenda Villari. Non voglio aggiungere altro, per amore di unità verso il partito,» - ammette Veltroni, pur senza spiegare le ragioni per le quali nei confronti del parlamentare disobbediente non siano stati assunti con maggiore tempestività i tardivi provvedimenti di espulsione dal partito, che poi aggiunge «c'è una questione morale nella vita politica italiana, che deve essere affrontata come dice il presidente della Repubblica, nella quale il Pd non è al riparo. La nostra sfida è far crescere una generazione di dirigenti che abbia un'etica dell'amministrare in sintonia con lo spirito del partito. C'è bisogno che il Pd apra porte e finestre, e selezioni al suo interno le forze migliori. Soprattutto nel Sud».
Per quanto riguarda il PD del Nord, sollecitato da Chiamparino e Cacciari, Veltroni è più drastico e fa appello ad unità di strategie politiche che non possono consentire diversificazioni territoriali. «Faremo il coordinamento del partito del Nord, ma non il "partito del Nord". Perché l'Italia ha un'altra storia, e perché abbiamo bisogno di un partito nazionale grande e forte. Per questo faremo anche il coordinamento del partito del Sud. Ma un partito moderno ha bisogno di tempo e di tranquillità. A noi sono negati l'uno e l'altra» - taglia corto Veltroni. Ma poi riprende sulla questione leadership, ammettendo indirettamente che la questione Nord-Sud è uno dei punti su cui si sta consumando lo scontro all’interno del PD. «Non conosco altro partito nel quale ci sia una tale bulimia nei confronti dei leader. Io sono qui da dodici mesi. Ho conosciuto leader come Lula. Chirac, Blair che hanno impiegato anni per affermare il loro progetto. Serve tempo, per costruire una politica di innovazione radicale. Dopodiché naturalmente si risponde di quello che fa. Ed io risponderò del lavoro che avrò fatto. Ma a coloro i quali mi hanno scelto, cioè il popolo delle primarie, come prevede lo statuto».
Ma quali sono le ipotesi che si delineano all’orizzonte del PD? La risposta è complessa, anche se uno scenario appare probabile alla luce anche dell’avvicinamento registrato nella scorse settimane di Casini e dell’UDC e il progressivo autonomismo di Di Pietro dalla linea del PD.
In una prospettiva al momento di sapore fantapolitico si potrebbe prevedere una scissione dell’attuale PD in una forza di sinistra più tradizionale, da una parte, e nella nascita di un movimento neocentrista, dall’altra, in cui potrebbero confluire i residui della vecchia Margherita ed i nuovi alleati ex-UDC, con Casini, Rutelli, Bindi e magari un ripescato Mastella, che in Campania ed in alcune aree del Sud continua a conservare un potere significativo, ed un Veltroni, sicuramente ridimensionato, ma ormai troppo esposto sulla linea di un moderatismo illuminato di stampo americano.
Di Pietro potrebbe restare il solo rappresentante di una sinistra aggressiva e riformista, in grado di catalizzare il voto di frange ex PRC, ecologisti, verdi ed orfani di Diliberto che oggi, in assenza di riferimenti, hanno preso una sbandata e si sono traghettati alla Lega di Bossi. Il ricostituito centro, in questa prospettiva, diventerebbe una sorta di ago della bilancia nella costruzione delle future coalizioni di governo, dato che anche il PdL, dopo che la scomparsa dalla scena politica di Berlusconi si sarà consumata, per ragioni obiettive di età anagrafica del personaggio, otre che di calo di consensi a causa di una politica di governo che avrà mostrato i suoi drammatici limiti, dovrà fare i conti con le probabili guerre intestine di successione e di secessione.
Prevedere questo processo di riassestamento del quadro politico e lavorarci sopra per indirizzarne le risultanze può configurarsi oggi come l’arma vincente per chiunque si dichiari in grado di assumerne la leadership. Certo, questa paternità di leadership non potrebbe essere riconosciuta né a Veltroni, né a D’Alema, né ad alcuna delle figure politiche oggi presenti ai vertici del PD, causa il patrimonio di devastanti insuccessi che si portano in eredità. Né, tantomeno, ci si può illudere che il processo di ricostruzione dello scenario possa realizzarsi in tempi brevi, perché la velocità di acquisizione del consenso è inversamente proporzionale alla velocità con la quale questo si perde. Ciò era stato previsto in tempi non sospetti per Prodi e la sua coalizione, quando protervamente si dedicavano allo scempio della fiducia degli elettori, con scelte politiche incoerenti rispetto al mandato elettorale e addirittura in controtendenza rispetto alle priorità degli strati sociali che avrebbero dovuto rappresentare. Gli stessi errori, d’altro canto, stanno commettendo gli attuali governanti, con le politiche di incrementale impoverimento delle classi già deboli e del ceto medio o con l’abboccamento alle lusinghe di qualche scriteriato tecnocrate, che predica ancora di riformare il sistema pensionistico e ritardare l’accesso alle pensioni per alleggerire il debito pubblico, - incapace di cogliere il rischio di una vera e propria guerra civile che potrebbe originarsi da ulteriori provvedimenti di controriforma dei meccanismi in questione. Mentre la disoccupazione infuria e si avvertirebbe il bisogno di un ammorbidimento di quei meccanismi, - che metterebbero qualche milione di famiglie al riparo dal disastro economico, - c’è ancora qualche imbecille che favoleggia sul pareggio dei conti come esigenza primaria di buon governo. Forse a questi idioti con laurea serale o per corrispondenza in economia bisognerebbe far provare per qualche mese cosa significa sopravvivere senza stipendio e senza lavoro, perché troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per trovare occupazione, in omaggio alle tesi scriteriate che spacciano per miracolose quando occasionalmente sollevano la testa dalla greppia in cui si saziano.
In ogni caso e stendendo un velo pietoso sulle esternazioni senza senso della realtà di questi maitres à penser e nouveaux philosophes con la pancia piena, vale sicuramente la pena di investire su un progetto di ridisegno di un’alternativa di governo che, allo stato, appare comunque irraggiungibile per qualunque opposizione in campo.

mercoledì, dicembre 03, 2008

Concorrenza sleale con le tasse


Mercoledì, 3 dicembre 2008
Ci sono battaglie vere e nobili e battaglie false, inutili e prive di ogni fondamento, in cui le parti in campo perdono il proprio tempo oltre a perdere la faccia.
E’ il caso della battaglia sull’aumento dell’IVA sugli abbonamenti Sky TV, che in queste ore sta riempiendo le pagine dei giornali e provocando fermento nel mondo della politica, sia a destra che a sinistra, ma che, francamente, ci sembra una battaglia senza senso alcuno, anzi, come ha richiamato il bravo Maurizio Crozza nel corso della trasmissione televisiva Ballarò, una difesa da parte della sinistra di interessi palesemente indifendibili.
Non che un incremento dell’IVA del 10% in una botta sola sia cosa indifferente, considerato che mediamente significherà per gli abbonati di Sky un aggravio medio di circa 4-5 euro mensili, pari ad un introito supplementare per lo stato di 200-250 milioni annui, a spese del popolo del calcio e dello sport in genere. Tuttavia, non appare giustificata la presa di posizione della sinistra che in questi tempi di crisi galoppante si scaglia contro un provvedimento che colpisce, di fatto, un genere del tutto voluttuario e che può avere la sua logica nell’allineamento delle imposte e nella cancellazione di qualche privilegio in tempi di vacche magre.
Certo, è forte il sospetto che la misura sia il risultato della lotta tra squali, il magnate Murdock da una parte, proprietario di Sky, ed il tycoon-presidente del consiglio Berlusconi dall’altra, proprietario di Mediaset, che hanno regolato l’ennesimo conto sospeso in un duello che dura da anni e che vede una concorrenzialità senza esclusione di colpi. Questa volta ha vinto il caimano di Arcore, ma ha dalla sua l’emergenza economica e la necessità di cancellare un privilegio accordato a Sky non più sostenibile e da tempo sotto il riflettore di Bruxelles.
Mentre la sinistra ha perso il tempo a strumentalizzare la questione, additandola come l’ennesimo esempio del conflitto d’interessi nel quale si pasce beato il signor Berlusconi, tra l’altro nel più completo disprezzo per le sollecitazioni che da anni gli arrivano da più parti per uscire da questo imbarazzo istituzionale, il presidente del consiglio, che tutt’è tranne che uno stinco di santo sebbene le sue pretese origini divine, sembra che costantemente si vada a cercare le rogne, visto che per qualche spicciolo avrebbe potuto inventarsi un’altra occasione, magari spiegandola prima agli Italiani, per rimuover un’anomalia impositiva. In ogni caso le sue violente reazioni alle critiche degli avversari e della stampa, corredate dal solito invito bulgaro alle dimissioni a due direttori di importanti quotidiani, dimostrano invece quanto in realtà si sia centrato il bersaglio nell’indicare il provvedimento come un colpo di maglio inferto ad un concorrente, profittando della propria posizione di potere, e dell’interesse dissimulato per favorire i propri affari privati.
In definitiva uno scontro nel quale per un motivo o per l’altro governo ed opposizione ci hanno rimesso qualcosa in termini di credibilità residua: il primo perché avrebbe ben altri generi di lusso di cui scoraggiare il consumo ed aumentare l’onere a carico degli irriducibili; la seconda perché dovrebbe assumere almeno altrettanta veemenza nello stigmatizzare i ridicoli provvedimenti anticrisi assunti dal primo, come la social card, vero obolo di stato, ed i quattro soldi per un hamburger al McDonald dietro l’angolo assicurati ai precari, - non tutti, ma quelli residenti nelle aree in cui sia stato dichiarato uno stato di crisi.
In fine, malissimo fa il Cavaliere sedicente senza macchia a consentire che le sue televisioni già dalla giornata odierna tempestino di SMS gli utenti della H3G, con offerte super scontate di abbonamento a Mediaset Premium. Queste pratiche confermano come i suoi apparati si siano già resi pronti a profittare della valanga di disdette che immancabilmente si riverseranno su Sky dopo il ritocco del canone mensile.
E bravo il Cavaliere, o come preferisce definirsi lui , bravo “il presidente di tutti gli italiani”, cui comunque fa difetto l’attenzione su qualche altra decina di prodotti in circolazione in questo paese di coglioni, che scontano un’IVA inferiore a quella standard. Sicuramente era più conveniente penalizzare il concorrente piuttosto che allineare l’IVA anche sulle uova di struzzo, sui tabacchi e sui francobolli da collezione (10%) o sul canone RAI e prodotti editoriali su carta (4%). Il consumo di uova di struzzo o la filatelia sono notoriamente di consumo delle classi più povere, alla stessa stregua dei giornali, tradizionalmente coperta e giaciglio delle centinaia di barboni che sbarcano il lunario nelle aree urbane della Penisola. Dunque, l’IVA ridotta ci sta tutta.
Tornano in mente le parole del compianto Montanelli, che a proposito del Divino disse : «Berlusconi non ha idee, ha solo interessi. E’ il bugiardo più sincero che abbia mai conosciuto».
In ogni caso, in quanto a provvedimenti per rilanciare l’occupazione, determinare nuove opportunità di sviluppo economico, stabilizzare il lavoro e cancellare l’indecenza del precariato a vita, sostenere le imprese piccole, medie e grandi nella prospettiva di creare posti di lavoro, non se ne parla neppure, considerato che i soldi da spendere, in assenza di iniziative per reperirne di freschi, sono effettivamente pochi e bisognerà aspettare qualche altro colpo di genio del mago della finanza creativa Giulio Tremonti per trovare la soluzione. Questi politici sembra quasi che giochino a chi fa indispettire di più i cittadini, forse convinti che più vessano più saranno capaci di incutere timore e così guadagnarsi rispetto, come si trattasse di cucciole d’addestrare. E che continuino pure a giocare, se di ciò sono convinti, finché la pazienza del popolo regge. Forse hanno scordato il trattamento riservato a Prodi e la sua coalizione di perdigiorno. C’è però una differenza questa volta: quando cade la fiducia generale ed il rifiuto di recarsi alle urne solo per accondiscendere alle regole di una finta democrazia e legittimare l’assegnazione di un posto già assegnato a quattro cialtroni imposti dalle segreterie di partito diventa una regola, allora è giunto il momento di cambiare le regole della democrazia, che non può più servire da paravento per perpetrare ai danni del popolo ogni misfatto e continuare a far bagordi.