martedì, settembre 28, 2010

Lo scemo del villaggio

Martedì, 28 settembre 2010
C’è da credere che il signor Umberto Bossi, nonché ministro della Repubblica con tano di appartamento in Roma per ragioni di servizio, debba avere la fissa per le battute infelici, sebbene convinto d’esser spiritoso e persino divertente.
Sono anni, infatti, che spara corbellerie a raffica sui Padani e l’invenzione etnico geografica che abitano, sulla supremazia economica, morale e di altre fregnacce del Nord rispetto al Sud, sulle propensioni ladresche di Roma rispetto ai casti e puri borghi dell’Oltre Po.
Certamente scherza, quantunque irriti quel calcare la mano contro i docenti meridionali, i pubblici dipendenti del Sud, i posti nei concorsi e persino nei mezzi pubblici da riservare ai nativi del Nord, ma quando questo vezzo da furbesca affabulazione degli sprovveduti che si bevono le stupidaggini che dice diviene oltraggio bell’e buono, parlare ancora di celia o di goliardia appare sinceramente uno sproposito.
Se poi le corbellerie che declama provengono dalla bocca di un ministro, pur di uno disgraziatissimo stato, allora v’è il sospetto che non si tratti più di spiritosaggine che magari ha preso la mano, ma di genuina idiozia e scriteriata volontà di accendere la rissa per finalità poco chiare.
E questo pur volendo sorvolare sul fatto che il simpatico Bossi da oltre un ventennio gozzoviglia a Roma, s’ingrassa con il lauto stipendio da parlamentare e poi sputa con ironico disprezzo nel piatto che ha leccato dopo aver trangugiato con fede delle sue ostentate origini tutto ciò che conteneva, a guisa del mitico bidone aspiratutto.
Ma queste considerazioni sono valide qualora s’assuma che il ministro Bossi abbia effettivamente un cervello e, dunque, una capacità vera di controllare le pulsioni sinaptiche ed usare lo spirito, anche se da caserma, per bacchettare i cattivi costumi. L’evidenza dimostra, invece, che tra minacce di scissione e truppe di pellegrini padani in armi, vilipendi alla bandiera e rifiuti di suonare l’inno nazionale, non ci si trova al cospetto d’uno che ci fa. Tutt’altro, è uno che c’è, non fosse per aver prestato solenne giuramento nelle mani del Capo dello Stato al momento dell’accettazione della carica di ministro e, prim’ancora, di essersi presentato ad una libera competizione democratica per entrare a far parte del parlamento di uno stato che dice, poi, di disconoscere. E se non ci fosse stato veramente, davanti alle proteste sollevatesi con la sua ultima battuta sui “Romani porci”, almeno scusa l’avrebbe chiesto.
Eppure il signor Bossi, - per quanto questo titolo davanti al suo nome suoni una palese forzatura, - non è diverso nell’indole dai tanti Italiani cispadani che disprezza, di cui porta pregi (pochi) e difetti (tanti).
E’ un conclamato nepotista ed il figlio, la famosa Trota, è l’esempio vivente di questa deprecabile debolezza: senz’arte né parte siede nel consiglio regionale della Lombardia perché imposto in disprezzo delle capacità politiche di chi certamene ne aveva di maggiori. Ma qui un vecchio adagio partenopeo, - Bossi ci perdonerà l’affronto, - aiuta a capire: ogni scarrafone è bello a mamma soja, e il bravo Trota nel cuore di papà non poteva certo fare eccezione. Alla stessa maniera non fanno eccezione i Leghisti in posti di comando, che abusano del pubblico denaro per garantirsi qualche privilegio sotto forma di auto blu o di diarie principesche. Né va dimenticato che lo stesso paladino dell’indipendenza padana fu raggiunto da un avviso di garanzia per certi finanziamenti poco trasparenti e poi condannato, o che le guerre per accaparrarsi posti da consigliere in enti pubblici e fondazioni non vedono certo la Lega estranea dalle camarille, con l’avallo di Bossi. E in tutto questo, Bossi, non ha titolo per fare la morale ad alcuno, né dopo aver votato in aula per salvare l’inquisito Cosentino e il ministro più-veloce-della-storia-della-repubblica, Aldo Brancher, può ritenersi indenne dalle critiche perché non mangia i cannoli come Cuffaro.
Ma in fondo Bossi è il suo movimento di arrogantelli parvenu non è che il prodotto tipico dell’Italia di questo scorcio di secolo, un’Italia persa nell’etica e nei valori, nella quale persino un ministro può ormai impunemente permettersi di sputtanare quelle istituzioni e quei metodi democratici, grazie ai quali, dalla miseria delle sue condizioni, è potuto diventare qualcuno.

lunedì, settembre 27, 2010

Lezioni di morale da un pulpito squalificato

Lunedì, 27 settembre 2010
Quella del 25 scorso è stata la giornata culminante di una telenovela che va ormai avanti da troppo tempo. Gianfranco Fini ha rotto gl’indugi e ha finalmente rilasciato la sua versione della vicenda Montecarlo, affidandosi ad un filmato su internet. Dichiarazioni forse tardive, quantunque probabilmente motivate dalla necessità di documentarsi in modo più puntuale delle affermazioni del cognato, ma che hanno consentito di conoscere dalla sua viva voce come intende difendersi dalle accuse che sino ad oggi gli sono state mosse dagli ex amici di AN e del PdL e cosa intenda fare qualora e al di là delle assicurazioni ricevute dal cognato si accertasse che la proprietà dell’appartamento monegasco fosse effettivamente di Giancarlo Tulliani.
Fini ha fatto le sue dichiarazioni in modo pacato, persino elegante, riconoscendosi qualche ingenuità, ma ribadendo la sua assoluta buona fede e la trasparenza con la quale la vendita dell’appartamento al centro dello “scandalo” è avvenuta. Nello stesso tempo, ha richiamato l’attenzione sul fato che dopo oltre 25 anni di attività politica non ha mai ricevuto un avviso di garanzia, né è mai stato sfiorato dal dubbio alcuno sulla trasparenza e l’onestà del suo operato. S’è rammaricato che la vicenda della casa di Montecarlo sia stata gestita da certa stampa come si fosse trattato di una compravendita di droga o di armi o di un’operazione di riciclaggio di denaro sporco. Fini ha infine ricordato che nel Principato le società off-shore sono di casa e che le transazioni avvengono ricorrendovi sistematicamente. In ogni caso, una cosa è vendere un appartamento ad una società di questo tipo, altra cosa è utilizzare le off-shore per tutelare i propri affari, il patrimonio di famiglia ed evadere gli obblighi fiscali previsti dalla legislazione italiana, come sembra fare qualcuno che adesso lo accusa di scorrettezze indimostrate e gli scatena contro una miserabile campagna d’assassinio politico.
A conclusione del suo discorso, Fini ha tenuto doveroso precisare che il suo gruppo di Futuro e Libertà non si assumerà mai la responsabilità di mandare a monte la legislatura, ma continuerà ad appoggiare il governo e la coalizione affinché concluda nei termini il mandato ricevuto dagli elettori.
Chi si fosse illuso che queste dichiarazioni, - più o meno soddisfacenti dipendentemente dal personale punto di vista, ma comunque evidente atto di responsabilità del presidente della Camera, - siano servite a smorzare gli assalti delle truppe berlusconiane a colui che in ogni caso viene considerato un pericolosissimo traditore in seno al PdL, si è sbagliato di grosso. E questo errore nasce dal non aver chiaramente interpretato l’origine dello scontro e la posa in gioco.
Ancora oggi la stampa insiste nel confermare che gli obiettivi del Cavaliere sono chiari e monotematici, come un’inguaribile forma maniacale che condiziona la vita politica e quella del Paese. «Un Berlusconi senza processi è il mio obiettivo e lo dico contro i miei stessi interessi perché non avrebbe più bisogno di un avvocato», ha asserito dal palco della Festa delle Libertà, il parlamentare e difensore del premier Niccolò Ghedini, con tono grottescamente scherzoso. A dargli manforte e confermare quest’obiettivo irrinunciabile ieri a Milano, c'erano il ministro delle Giustizia Angelino Alfano, Francesco Pionati, segretario dell'Alleanza di Centro, Giacomo Caliendo, sottosegretario alla Giustizia e indagato nell'inchiesta sulla P3, Filippo Berselli, presidente della commissione Giustizia del Senato, mentre a guidare il dibattito era stato chiamato il direttore del Tg1 Augusto Minzolini, segno evidente di una faziosità alla quale, quegli esponenti dell’attuale classe dirigente che si qualificano sempre più come una congregazione di irriducibili portaborse, non riescono in alcun modo a rinunciare.
E’ chiaro che d’innanzi a questa riaffermazione di un’immunità da conseguire ad ogni costo, anche al prezzo di scatenare meschine e losche guerre personali contro gli avversari, la presenza di Berlusconi e di un entourage di servi disposti a tutto si sta facendo giorno dopo giorno sempre più inaccettabile e pericolosa per la democrazia. Un uomo che sa coscientemente di essere in una posizione fortemente compromessa con la legge e architetta qualunque misfatto pur di sfuggirvi non ha alcuna legittimità né etica né morale per permettersi di fare appello alla dignità altrui, affinché traggano conseguenza dai loro peccatucci e si facciano da parte. Berlusconi non ha alcun titolo per chiedere a Fini, sulla base delle bufale e delle patacche inventate dai suoi prezzolati killer, di lasciare per dignità la presidenza della Camera, poiché è il primo a disconoscere il significato di quel termine.
In questa prospettiva, - che peraltro avvelena l’aria sino all’inverosimile, inoculando la sensazione che ormai il confronto politico sia delegato solo a quattro avanzi di galera, colpevoli di reati più o meno gravi, ma comunque reati, - è divenuta inderogabile la necessità di liberarsi di chi è da oltre un quindicennio che con la sua presenza e con i tentativi maldestri di esimersi di pagare il conto alla giustizia ha distrutto i principi fondamentali del vivere civile e le istituzioni. E se prima era auspicabile che i cittadini, parecchi sicuramente in buona fede, - aprissero gli occhi e nel segreto dell’urna facessero giustizia di un modesto dittatorello, adesso è cogente l’urgenza di ripristinare i fondamenti della democrazia ricorrendo a qualunque mezzo, poiché personaggi di questo stampo tacciano definitivamente e cessino di perpetrare un cancro mortale alla nazione.
Tra Berlusconi, inventore di formule demagogiche come l’anticomunismo, ed i comunisti veri, i più sanguinari della storia dell’umanità, non v’è alcuna differenza: entrambi hanno una concezione distruttrice del dissenso, degli avversari e non si fanno certo scrupolo di ricorrere a pratiche bestiali come la calunnia, la minaccia, la costruzione di prove false ed altre scelleratezze pur di soffocare ogni anelito di libertà e di dissenso.
Fino a quando non verrà ristabilita la legalità e non sarà eseguita una pulizia profonda delle istituzioni per il Paese continuerà inesorabile il declino e la mortificazione, relegandolo ai confini della civiltà e della democrazia.

venerdì, settembre 24, 2010

I misteri di Montecarlo

Venerdì, 24 settembre 2010
La storiellina del parente scemo è vecchia e risaputa. Chi potrebbe mai giurare che nel parentado, magari in qualche generazione lontana, tra discendenti, ascendenti e collaterali, non ci sia o ci sia stato qualcuno un po’ bizzarro, - per dirla con un eufemismo, - o addirittura stupido, sciocco, idiota, pirla, se non coglione, - per dirla senza mezzi termini?
Questa nemesi di madre natura, in buona sostanza, non risparmia nessuno e guarda caso non ha risparmiato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, che da quel che risulta dalle cronache asfissianti del trimestre ormai in chiusura pare abbia un cognato a cui in parecchi stanno cercando di affibbiare la giusta collocazione nella variegata categoria dei mentecatti.
Sì, perché questo giovanotto di belle speranze e ambizioso al punto da farsi male da solo oltre che all’illustre cognato, avrebbe condotto in porto un’operazione straordinaria per appagare il desiderio narcisistico di ostentare casa a Montecarlo, talmente straordinaria da attraversare mezzo mondo e costringerlo a commettere un sacco di scemenze, talmente stupide da farsi scoprire dalla muta di Berlusconi che ha utilizzato la trama di un classico del giallo per incastrare il suo ex amico e co-fondatore del PdL, Gianfranco Fini.
Giusto per ricostruire la vicenda, - almeno per quel che dice la stampa di casa Arcore, - il Tulliani viene a conoscenza di un appartamento sfitto tra le disponibilità immobiliari di AN a Montecarlo e a quel punto comincia una martellane pressione su Gianfranco perché glielo metta a disposizione.
Il cognato presidente della Camera, ovviamente, ostenta un netto rifiuto alla richiesta e dichiara imbufalito: “Piuttosto lo vendo!”.
Tulliani, offeso dal diniego ma sempre più in fregola per quella casa che intende far sua ad ogni costo, non demorde. Anzi, gli si accende pure una lampadina, visto che il cattivo Gianfranco, senza volere, gli ha messo in mano una scorciatoia ghiotta: se l’appartamento va in vendita si tratta solo di inventarsi un compratore al quale far fare un “affare”, quantunque il vero affare lo farà lui, perché dopo l’acquisto provvederà a farsi trasferire la proprietà dell’immobile, pagando ovviamene un obolo per il disturbo arrecato alla testa di paglia messa in campo.
Così, dopo essersi fato una gita a Santa Lucia nei Caraibi, con la scusa di cambiare aria per un po’, ma con il segreto fine di trovare il prestanome per l’operazione d’acquisto, torna a Roma, non prima però d’aver costituito una società, la Timara Ltd (avrebbe voluto chiamarla Tullian Ltd, ma sarebbe stata un’eccessiva ingenuità), e facendo opera di contrizione dice al cognato che dell’appartamento di Montecarlo non gl’importa più nulla, che anzi è una buona idea quella di venderlo e di togliersi dagli zibidei inutili spese condominiali per una casa fatiscente e disabitata. Dice a Gianfranco che, molto casualmente, ha conosciuto durante la gita a Santa Lucia un coglionazzo immobiliarista, titolare di una certa Printemps Ltd, interessato a comprare qualcosa in Europa e pronto a pagare in contanti.
Fini è convinto e chiede a Tulliani di mettere in contatto il coglionazzo con l’amministratore del patrimonio di AN, Pontone, perché s’incontrino e valutino la fattibilità dell’affare.
Tulliani non sta più nella pelle. Adesso si tratta solo di trovare un geometra che faccia una valutazione “addomesticata” dell’immobile, che comunque appaia congrua a Pontone e consenta di chiudere l’affare.
Il prezzo dell’accordo è 300 mila euro, prezzo che qualche giorno dopo sale a 330 mila quando il coglionazzo di Santa Lucia trasferisce la proprietà dell’immobile appena acquistato alla società che Tulliani ha nel frattempo messo in piedi nell’isola. E che la Printemps Ltd sia gestita da un fesso non v’è dubbio alcuno, visto che chi acquista si trova in mano un appartamento del valore di oltre un milione di euro, - così sostiene la muta di Berlusconi, - e se ne disfa per un valore maggiorato appena del 10% del suo costo originario.
Il colpo in ogni caso è fatto, quantunque non si sappia da dove Tulliani abbia preso i 330 mila euro necessari per chiudere il passaggio della proprietà. Si sospetta che possa essere intervenuta la sorella, nonché moglie di Gianfranco, con l’erogazione di un prestito, dato che lei di soldi ne ha tanti, avendoli sottratti, novella Circe, al povero Gaucci, con il quale non avrebbe mai spartito una miliardaria vincita al lotto.
E se fin qui chi ha seguito i passi della vicenda è convinto che Tulliani sia un mago della finanza, in realtà si sbaglia di grosso: Tulliani è un idiota e lo confermerà di lì a breve, quando ottenebrato dal facile successo con il quale è venuto in possesso dell’agognato immobile decide di autostipularsi un contratto d’affitto sulla casa in questione ed appone sul contratto la sua firma sia come locante che come locatario.
Nel frattempo, a cose ormai irrimediabilmente fatte, Gianfranco Fini viene a sapere della spericolata operazione del cognato, quantunque ne sconosca i particolari, ma siccome sarebbe inutile piangere sul latte versato, fa buon viso a cattivo gioco e si offre persino di dare una mano per arredare l’appartamento monegasco, cucina Scavolini compresa.
E pensare che in questa sorta di delitto perfetto, sul quale adesso indagano agenti segreti russi, americani, israeliani e nostrani, nulla sarebbe mai venuto alla luce se il buon Fini non avesse mandato a quel paese quel bravissimo stinco di santo (si dice così, ma il personaggio è santo per intero) di Silvio Berlusconi e quel fesso del cognato non avesse messo scioccamente firme così palesemente rivelatrici dell'inganno sul contratto d’affitto.
E tutta questa vicenda, sicuramente penosa per il povero Fini, è sicuramente dolorosissima per Silvio Berlusconi, che sembra portarsi dietro la cattiva stella delle pessime compagnie. Dell’Utri, Bertolaso, Verdini, Brancher, Scajola, Lunardi, Cosentino, Previti, Mills, - giusto per citarne alcuni, - sono una palla al piede, una macchia vergognosa per un uomo che ha sempre operato nell’onestà e nella trasparenza, a cominciare dalla storia dell’acquisto della villa di Arcore dalla contessina Casati, e che s’è messo al servizio della nazione esclusivamente per spirito d’impareggiabile altruismo. Un uomo che s’è visto tradito nella sua illuminata e sacra missione dagli amici, non ultimo da un Gianfranco Fini, su cui aveva riposto grande fiducia al punto da insediarlo alla poltrona di presidente della Camera, certo che gliene sarebbe stato eternamente riconoscente.
E se da questa storia emerge quanto sia stato protervamente superficiale Fini nel seguire i consigli d’un cognato arrivista e fesso, c’è da chiedersi se anche il sant’uomo di Arcore non sia da sospettare di altrettanta dabbenaggine, visto che con gli amici ci casca sistematicamente, lui povera anima specchiata.

(nella foto, l'edificio in cui c'è l'appartameno della vergognosa storia)

martedì, settembre 21, 2010

La maledizione di Montezuma della sinistra

Martedì, 21 settembre 2010
La sinistra italiana ce l’ha sempre avuto nel DNA. E’ la sua una malattia inguaribile ereditaria, che la rende incapace di compattarsi e andare decisa sull’obiettivo. Si rappresenta come un salotto d’intellettuali benpensanti, che non perdono occasione per misurare le proprie teorizzazioni, imbastendo scontri, spesso fine a se stessi, al solo scopo di affermare la supremazia culturale del relatore di turno, ma senza alcun beneficio per quanti ascoltano e dovrebbero trarre da quei discorsi linee d’indirizzo e aggregazione.
La cosa peggiore di quest’esercizio ai limiti della demenzialità è che ha la capacità d’incalzare gli scontri ogni qual volta lo scenario politico del Paese sembra giungere ad una fase nella quale vengono meno i riferimenti saldi nei confronti degli schieramenti dominanti e si avvertirebbe la necessità di individuare sbocchi alternativi, in grado di fare da nuovi referenti alla confusione diffusa venutasi a creare.
A causa di questa patologica propensione autodistruttiva, la sinistra si autocolloca in posizione drammaticamente perdente, segno tangibile d’una immaturità congenita e irreversibile che, anche quando è riuscita a darsi una credibilità di governo, rende effimera la radicazione nella gente.
Anche questa volta lo scenario si ripresenta, quasi fosse una sorta di maledizione di Montezuma, - peraltro nel senso più tecnico. Così, mentre si erge un muro comune delle opposizioni all’attuale sistema elettorale e si alzano da più parti le richieste di modificare il cosiddetto porcellum, Massimo D’Alema non trova di meglio che confondere le acque con disquisizioni teoriche tra metodo francese e metodo tedesco, come se, sorpresi da un incendio dentro un edificio, fosse lecito chiedersi prima di darsi alla fuga e mettersi in salvo se fuori stia piovendo o imperversi una tormenta. Davanti ad un’emergenza senza precedenti, che ha trascinato il Paese in una situazione di egemonia artefatta della destra, il leader del PD preferisce perdersi in anacronistiche disquisizioni sui metodi, dando ancora una volta chiara dimostrazione che il diritto dei cittadini di scegliere i propri rappresentati sia una questione accademica prim’ancora che di democrazia.
Allo stesso modo Walter Veltroni, già segretario del PD, personaggio già rivelatosi ottimo oratore ma pessimo realizzatore dei progetti faraonici delle sue prediche, mentre un Bersani, -certamente figura d’apparato e imbolsito dalla cautela con la quale l’intero partito ha deciso d’affrontare il processo di riaccreditamento nel Paese, - si strizza le meningi alla ricerca di una formula in grado di rilanciare la credibilità di una sinistra sempre più in declino, con proposte di coalizioni rifondanti e allargate ad altri partiti dell’opposizione sulla scorta dell’esperienza del defunto Ulivo, si inventa un manifesto di dissenso, con il quale minaccia persino la scissione dal partito, creando così le condizioni per ringalluzzire la coalizione di governo Lega-PdL in stato comatoso da parecchi mesi. Non a torto Bersani ha bollato l’iniziativa come «un pacco dono a Berlusconi e i suoi».
Sono, quelle si Veltroni e di D’Alema, operazioni per le quali sarebbe sprecato ogni commento, ma che evidenziano quanto il quadro politico del Paese sia in rotta totale e le guerre per bande siano oramai le regole di confronto. Sembra uno scenario da Somalia civilizzata, nella quale alle bande armate e ai kalashnikov si sono sostituiti i clan di sedicenti esperti di formule politiche miracolistiche, che usano lo scoop per minare la stabilità del faticoso consenso realizzato di giorno in giorno in un’opposizione tutt’altro che omogenea in quanto a metodi e obiettivi.
Il giornale spagnolo El Pais, nell’esprimere un proprio giudizio sulle vicende italiane e sul percorso in atto nella sinistra, ritiene il Pd un partito «in coma e senza respiratore», diviso da liti e che «non osa essere di sinistra». Nonostante l'entusiasmo generato dal “'si può fare” veltroniano, la sensazione attuale per il quotidiano è che il Pd, più che un partito riformista di governo, sia una «maionese impazzita di ex democristiani ed ex comunisti che cercano di mantenere i loro privilegi». Secco il giudizio del giornale sul segretario Pierluigi Bersani, che definisce impietosamente «uomo di apparato e senza carisma».
E nell’attesa dell’ennesima umiliane sconfitta alla prova del voto, si consuma nella nullità più assoluta lo scontro all’interno di un partito che dovrebbe rappresentare la speranza e la guida di un riscatto da un biennio berlusconiano fatto di parole, dichiarazioni, cronaca erotica ed amanti, faide interne, ladrocini volgari, spacciati per “governo del fare”, mentre le condizioni del Paese peggiorano sempre più nell’indifferenza più sorda.

mercoledì, settembre 15, 2010

La verità a servizio

Mercoledì, 15 settembre 2010
Basta!, non se ne può proprio più di Alessandro Sallusti, - il Nonsferatu del giornalismo, come è sato definiti da molti colleghi, - condirettore de Il Giornale, quotidiano di casa Berlusconi, che non perde occasione per esibirsi in manifestazioni di stomachevole faziosità in ogni trasmissione cui viene invitato.
Per quanto si capisca che personaggi come lui, - velenosi all’estremo, maestri della propaganda di parte, - finiscano comunque per fare audience per chi li ospita nelle proprie trasmissioni, è intollerabile che dover sopportare le sue elucubrazioni allusive e smaccatamente manichee sugli scheletri negli armadi dei casuali interlocutori che si trova di fronte. Peraltro, le valutazioni che adduce sono sistematicamente infarcite da un odio malriposto e da aberrazioni comparative che nulla hanno a che vedere con il giornalismo d’informazione e d’inchiesta, ma appaiono come una riedizione squadrista di certe riviste anarcoidi-nichiliste, che raramente impattano la realtà dei fatti ma servono ad infojare gli animi.
Per fornire un esempio di questa inclinazione alla crocefissione dell’avversario e allo scoopismo da marciapiede, basta ricordare come, in una edizione di Ballarò dello scorso anno, il pittbull di Arcore abbia accusato D'Alema di «moralismo» fuori luogo, facendo poi un paragone tra la vicenda oscura e ridicola della casa di Scajola e la cosiddetta «affittopoli» degli anni novanta, quando alcuni politici, tra cui lo stesso D'Alema, furono criticati perché abitavano in affitto in case di enti previdenziali pagando l'equo canone. «L'accostamento è del tutto improprio.» - ha detto D'Alema con voce alterata - «Io, come migliaia di persone, pagavo ciò che era previsto dalla legge, e non troppo poco». Sallusti ha replicato ricordando che però D'Alema lasciò la casa dell'ente che aveva in affitto sull’onda dello sdegno popolare. D'Alema ha ribattuto: «È stato fatto un accostamento che non c'entra nulla. Io ero in affitto, non ero né ministro né capo di governo, ero in un ente previdenziale pubblico e pagavo l'equo canone previsto dalla legge. Quando uscì la questione che i politici non potevano restare, e io non pagavo con i soldi che mi dava uno speculatore amico mio, io la lasciai. Io ebbi gratuitamente la sensibilità di lasciare la casa». Sallusti ha però rintuzzato: «Anche Scajola ha lasciato il suo posto senza essere indagato», quasi la vicenda dell'ex ministro fosse un peccatuccio veniale paragonabile ad una questione d'affito ad equo canone.
Com’è noto, la rissa si concluse con il caloroso invio di D’Alema a Sallusti «vada farsi fottere!», che certamente evidenziò una censurabile caduta di stile del leader del PD, ma che davanti all’incalzanti e fuorviane pressing del condirettore del foglio filo governativo, apparve in qualche modo comprensibile, considerato che l’accostamento tra la vicenda Scajola e l’affitto ad equo canone di D’Alema fu operazione di propaganda idiota oltre ogni liceità.
Ma si sa che il lupo perde il pelo e non il vizio. E così di questo giornalismo d’angiporto Sallusti non riesce a fare a meno. Ancora ieri e sempre sulla scena di Ballarò, ne ha avuto per tutti, in primis per Fini, con la tiritera sulla casa di Montecarlo e per il trasformismo di cui sarebbe autore. «Prima fascista per oltre dieci anni, poi pidiellino, oggi interprete di una destra europea e progressista: ma è tonto oppure ci fa? E’ credibile che si renda conto sempre con grave ritardo di una sua collocazione sbagliata?», ha affermato Sallusti schizzando velenose insinuazioni. Poi è stata la volta di Vendola, le cui dichiarazioni di democraticità non sarebbero autentiche perché figlio di un passato comunista che ha fatto milioni di morti in tutto il mondo lì dove ha gestito il potere. E infine di Granata, secondo lui reticente nel chiarire i loschi traffici del suo capo Fini sulla vicenda di Montecarlo. Naturalmente, rimbeccato da Granata sui misteri della villa di Arcore del suo mandante, giusto per fare pari e patta, Sallusti ha preferito glissare, dato che sulla vicenda di quella casa e sui raggiri di Previti e Berlusconi ai danni della contessina Casati non v’è più molto da svelare.
Morale, uno spettacolo di scontro su fatti reali, ma dalla collocazione manipolata, tendenti a dimostrare che, in fondo, i farabutti si annidano in ogni dove e nessuno è in diritto di scagliare la prima pietra. Una concezione disfattista della realtà, nella quale ha diritto di primeggiare non il meglio ma il meno peggio.
Ma il quesito che si pone non è tanto quello relativo alla censurabilità di un Sallusti e degli inconfessabili interessi che tutela, quanto se questo modo di fare contrapposizione alle idee degli avversari, - nel vocabolario di Sallusti probabilmente si definirebbero nemici, - spacciando l’insinuazione faziosa per informazione, sia effettivamente un metodo per contribuire a far chiarezza sui grandi temi della democrazia.
Francamente ed assumendo per inevitabile che l’obiettività dell’informazione sia un fatto più teorico che reale, ci parrebbe che il giornalismo di Sallusti sia molto dubbio e sconfini sovente in una modalità più della propaganda schierata che non nella ricerca, magari rude, della verità dei fatti. L’animosità e la virulenza insinuanti ci sembrerebbe molto più terreno di una certa letteratura critica, nella quale non si narrano solo fatti, veri o presunti, ma nella quale emerge il punto di vista ideologico e percettivo di chi narra e scrive. Essere schierati significa assumere aprioristicamente una posizione su fatti di per sé obiettivi, che snatura l’essenza della verità al punto da determinare forzature, talora macroscopiche e sfiguranti, che inducono il narratore ad utilizzare ogni elemento a sostegno e conforto della sua inconfessata tesi. Questo non è giornalismo, ma è qualcosa di diverso, che non può essere spacciato per informazione, neanche in omaggio alle dure leggi dell’audience.
Chi fa di queste pratiche una regola di mestiere dovrebbe avere l’onestà di dichiararlo, senza abusare della credulità di un pubblico sempre più frastornato da uno spettacolo indecoroso di scempio della verità, per finalità non sempre confessabili.

(nella foto, Alessandro Sallusti)

martedì, settembre 14, 2010

Quando il tifoso si beve il cervello

Martedì, 14 settembre 2010
Carmine Russo, Elenito Di Liberatore e Alessandro Petrella.
A chi si chiedesse a chi corrispondono questi nomi sconosciuti non c’è una risposta univoca.
Infatti, per gli appassionati di calcio si tratta rispettivamente di un arbitro e di due segnalinee. Ma se si va in casa Berlusconi vi risponderanno che questa triade corrisponde ad un commando di comunisti in mutande nere e maglietta rigorosamente rossa, che nei fine settimana è incaricata da un grande vecchio, successore di un certo Luigi Collina, tal Stefano Braschi, che si spaccia per designatore di arbitri per le partite di serie A, - ma in realtà durante la settimana passa la settimana a congiurare con Bersani, Franceschini, Di Pietro e altri brutti ceffi sovversivi, - di affossare il Milan sul campo di gioco, favorendo la squadra avversaria di turno.
Questa è la conclusione illuminante cui sono giunti, premier in testa, i gerarchi del Milan F.C., dopo la magra recuperata dalla squadra contro il neopromosso Cesena: due pappine a zero, che si aggiungono agli inesorabili insuccessi che sta collezionando come una raccolta di francobolli il mitico cavaliere di Arcore. E dire che dalla dacia russa dalla quale aveva chiamato, ospite del suo compagno (pardon!, amico) di bagordi Putin, a corto di argomenti per i lecconi di Atreju riuniti in meditazione, non aveva trovato che un “Forza Italia e forza Milan” per congedarsi. A quanto pare gli va male sui due fronti: l’Italia, i cui cittadini dopo lo spettacolo a dir poco indecente che sta offrendo in politica non esiterebbero certo ad affibbiargli un poderoso calcione lì dove non prende il sole quando è lontano da villa Certosa; i tifosi milanisti, che devono prendere atto di come la squadra amata sia in fondo composta da una banda di pellegrini, nonostante il loro presidente sborone abbia speso fior di milioni per portarsi in casa nomi ad effetto, come Ibraimovic e Robinho.
Insomma, non gliene va una giusta. Dallo shopping di senatori e deputati per controbilanciare i fuorusciti finiani, al rinforzamento della squadra di calcio per cercare di recuperare attraverso l’idiozia della tifoseria il consenso politico perso e sempre più rarefatto.
«Non siamo una squadra» ha detto sabato sera l’allenatore del Milan Allegri nel dopo gara, ignorando il tapino a quali rischi s’è esposto con quest’affermazione. Concetto ripetuto ieri a Milanello prima della seduta di allenamento: «Giocando così non andiamo da nessuna parte, di certo non vinciamo nulla d’importante». Il poveraccio con lo sfogo forse ha trascurato le vicende in cui è incappato il suo predecessore Leonardo, che, antesignano di Fini, aveva osato dire nello scorso campionato davanti alle altalenanti prestazioni dei suoi ragazzi: «Mettiamo in chiaro una cosa, io non sono suddito a nessuno. La squadra la faccio io e non mi lascio certamente condizionare dalle imposizioni né del premier né di altri». Risultato, se n’è tornato nella favela di Rio che aveva lasciato pieno di speranze al tempo in cui era stato chiamato a sostituire quell’altro poveraccio di Carlo Ancelotti, a meditare su quale sia il prezzo che si paga quando s’attraversa la strada al sommo democratico di Arcore.
«Sabato ho detto forza Milan, ma è andata male. Pazienza, nel calcio succede, anche se credo che l'arbitro abbia negato tre gol al Milan» ha dichiarato il Cavaliere nel corso di Atreju, la festa dei giovani del Pdl. Poi ha aggiunto con l’aria tra l’indispettito e l’amareggiato: «A Cesena il Milan ci ha dato dei dolori, ma non ha giocato male. Il problema è che spesso il Milan si imbatte in arbitri di sinistra»», affermazione scellerata con la quale ha comunque aperto una fase nuova nella geografia del calcio e ha inaugurato una nuova moviola, la moviola degli orientamenti politici. Peccato che a Nola si dica che Russo (nato il 29 settembre, proprio come il premier) sia più filo Pdl che Pd. Ma si sa che ormai il mondo è pieno d’infiltrati e di spioni e Russo deve sicuramente fare parte di queste categorie di eversivi mascherati.
Certo, c’è da dire che un presidente del Consiglio, che ha diritto d’essere tifoso come qualunque cittadino, avrebbe il dovere non solo di tacere davanti ad ingiustizie vere o presunte perpetrate ai danni della sua squadra del “cuore” (sebbene sarebbe il caso di dire “portafoglio”), se non altro per non alimentare le tante manifestazioni di violenza che poi mettono in atto gli esagitati proprio per le affermazioni incaute di certi personaggi, ma dovrebbe avere la capacità di dare al mondo quelle sane lezioni di fair play, che servono a ricondurre il significato dello sport nel giusto alveo.
Chissà se la Federcalcio avrebbe il coraggio di squalificare Berlusconi per queste “dichiarazioni lesive della classe arbitrale”, - assunto che essere di sinistra sia poi un’offesa lesiva della dignità personale e del prestigio arbitrale. La storia del calcio insegna che le punizioni sono arrivate anche per molto meno. Ma il presidente del Consiglio è solo presidente in pectore del Milan, dato che dal 2008, quando s’è ufficialmente dimesso da quella carica, nessuno è stato nominato al suo posto. Rimane la certezza che con i valenti avvocati che ha al soldo, non ultimo l’eccellente Stranamore Ghedini, un’eventuale squalifica inflittagli sarebbe pura perdita di tempo per un tribunale federale, perché ancor prima che avvalersi del legittimo impedimento sosterrebbe di essere stato frainteso da una stampa sportiva anche quella comunista.
Ad ogni buon conto e per evitare equivoci sarebbe auspicabile che gli arbitri dal loro corredo cancellassero la maglietta rossa, se non altro per lasciare il dubbio sulla loro appartenenza e non una sfacciata conferma delle loro debolezze.

PS: a fine partita s'era sparsa la voce che Carmine Russo potesse essere fratello della superpopputa Carmen, cosa che avrebbe potuto indurre il premier a mitigare il suo giudizio sull'arbitro. La cosa, immediatamene smentita, pare abbia aggravato il livore di Berlusconi.

giovedì, settembre 09, 2010

Le radici dell’odio sociale

Giovedì, 9 settembre 2010
Tanto tuonò che piovve. Questa è la conseguenza della gravissima decisione di Federmeccanica, appoggiata nella sua iniziativa dalla Confindustria della Marcegaglia, di inviare formale disdetta del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici a far data dalla sua scadenza naturale.
Così, come non fosse stato sufficiente il lento logoramento delle regole della convivenza sociale determinatosi con i due anni di governo di centro-destra e le ricadute della crisi internazionale sul mondo del lavoro, ecco l’improvvisa accelerazione di Federmeccanica, che accoglie l’invito di Marchionne e comunica alle organizzazioni sindacali che il contratto nazionale in essere è morto e sepolto dalla sua prossima scadenza naturale, il 2013.
La mossa, salutata con soddisfazione dalla Confindustria, apre scenari inediti nelle fabbriche, poiché il recesso unilaterale dell’associazione di categoria degli industriali non ha ricadute esclusivamente sulla disciplina economica del rapporto di lavoro, ma sull’insieme dell’impalcatura normativa che governa i rapporti tra associazioni datoriali e rappresentanze dei lavoratori, tra aziende e singoli prestatori d’opera, lasciati nell’impari rapporto di forza alla mercé del probabile ricatto di un padronato sempre più insofferente di regole e vincoli definiti ai tavoli negoziali e da valersi erga omnes.
L’iniziativa, peraltro da più parti interpretata come un’azione di forza verso la CGIL, il sindacato di sinistra che già da tempo ha assunto posizioni intransigenti verso un padronato in cerca di smontare pezzo per pezzo il sistema delle relazioni industriali e la normativa giuslavorista, - i recenti fatti accaduti alla FIAT di Pomigliano non sono che l’ultima puntata di uno scontro che va avanti ormai da quasi un decennio e che coinvolge anche il senso della mai realizzata unità sindacale, - rischia di divenire l’innesco per un autunno movimentato, contrassegnato da scontri dalle conseguenze imprevedibili, che ci riporta indietro di molti anni e che sono oggi solo oggetto di ricordo delle generazioni più anziane.
Non che Federmeccanica non sia nuova a sortite provocatorie in questa direzione. Felice Mortillaro, presidente di Federmeccanica e ideologo dell'impresa privata negli anni '80, nemico giurato dell'uguaglianza, che propugnava la linea secondo cui in fabbrica la Costituzione non può valere, si rese autore di sfide divenute epiche al sindacato, nella convinzione che la libertà dell’imprenditore, di colui che investe il proprio danaro e si assume il rischio d’impresa, non può essere condizionata da lacci e lacciuoli imposti da terze parti che nulla hanno a che vedere con quell’ordine di rischio. Com’è evidente, Mortillaro sottostimava l’interesse diretto di ogni lavoratore al buon andamento dell’azienda per la quale lavorava, andamento positivo senza il quale non avrebbero potuto esserci le condizioni necessarie per la continuità del lavoro e la conservazione dell’occupazione. Ma questo passaggio, più ideologico che tecnico, purtroppo avvilito anche da una politica sindacale asservita agli interessi di visibilità e di poltrona dei suoi leader, - che in omaggio al potere dettato dalle tessere hanno scelleratamente permesso la fermentazione di assenteismo, prevaricazione, scioperi selvaggi, e quanto nei manuali del nichilismo fine a se stesso, - non è mai stato promosso al rango di motore di una modernità di rapporti tra parti non contrapposte ma complementari del processo produttivo e nel meccanismo di creazione della ricchezza. Così, le cosiddette parti sociali hanno continuato a misurarsi a colpi di contrapposizione talvolta dura e violenta.
Né il salo di qualità evidenziato da alcune organizzazioni sindacali, come la CISL e la UIL, verso una politica del lavoro maggiormente “parlata” ha determinato le condizioni per una svolta.
In primo luogo perché leader come Bonanni e Angeletti hanno preteso di scavalcare, se non azzerare, le regole della democrazia interna, sottoscrivendo intese con le controparti padronali senza il prevenivo vaglio dei lavoratori, ma arrogandosi il diritto di rappresentarne senza contraddittorio la volontà. Secondariamente perché parecchie intese sottoscritte hanno effettivamente ridotto i diritti dei lavoratori e creato condizioni di precarietà e di disagio in qualche caso antistoriche, trasferendo così la convinzione che quei leader, in realtà, stessero più operando per l’accreditamento della loro immagine personale più che l’interesse delle categorie rappresentate. Gli accordi sul lavoro precario, l’Alitalia, le pensioni, Termini Imerese, Pomigliano, - giusto per citarne alcuni tra i più recenti, - tra l’altro osteggiati dalla CGIL, sono sicuramente la spia inoppugnabile di un comportamento sindacale acquiescente e discutibile, dove l’interesse vero dei lavoratori è stato sacrificato sull’altare incomprensibile e inaccettabile di un perbenismo e di una ragionevolezza sospetta, elementi che se hanno rinforzato l’accreditamento di personaggi come Bonanni o Angeletti, o hanno ghettizzato il dissenso di Epifani, Cremaschi e dell’intera CGIL, hanno prodotto un micidiale indebolimento del sindacato in generale ed una crescente disaffezione dei lavoratori.
La contestazione di Bonanni alla festa del PD di ieri a Torino non giunge pertanto casuale, ma per quanto non condivisibile nei metodi, è l’esternazione di una rabbia che cova ormai da troppo tempo e che giorno dopo giorno si alimenta ciecamente contro gli autori di questo processo di svendita dei lavoratori. E questo atteggiamento di arrendevolezza non può giustificarsi con il ricatto padronale di un’eventuale delocalizzazione degli impianti verso paesi più ospitali nell’eventualità, approfittando delle palesi debolezze dei sindacati, non spunti condizioni a lui favorevoli.
Occorre dunque un atto autocritico che rilanci l’unità del sindacato e che ne ripristini il ruolo, senza il quale i prossimi mesi, segnati dal perdurare di una grave crisi politica e istituzionale, non lasciano che intravvedere che la riedizione di un’escalation di eventi che il bene collettivo suggerirebbe fosse meglio prevenire.

martedì, settembre 07, 2010

Comicità made in Italy

Martedì, 7 settembre 2010
Silvio Berlusconi e Umberto Bossi saliranno al Quirinale per chiedere le dimissioni di Gianfranco Fini da presidente della Camera. E' questa la risposta del premier e del leader della Lega al discorso di Mirabello. Una mossa a sorpresa che viene annunciata al termine del vertice di Arcore fra il Cavaliere e lo stato maggiore leghista. «Le dichiarazioni dell'on. Gianfranco Fini sono state unanimemente giudicate inaccettabili», si legge in un comunicato.
«La decisione del presidente del consiglio Silvio Berlusconi e del ministro per le riforme Umberto Bossi di chiedere formalmente le dimissioni del presidente della Camera Gianfranco Fini è politicamente inaccettabile e grave sotto il profilo istituzionale, violando il principio costituzionale della separazione tra poteri». Lo dichiara in una nota il capogruppo di Futuro e Libertà per l'Italia, Italo Bocchino. «La richiesta di Berlusconi e Bossi è strumentale, irrituale e irricevibile ed è gravissima sotto il profilo istituzionale, considerato che la terzietà riguarda il ruolo e non la personalità politica, riguarda la conduzione del ramo parlamentare presieduto e non la libera espressione dei propri convincimenti politici», conclude Bocchino.
Questa la sintesi dell’ennesima serata contrassegnata dall’incontro Bossi-Berlusconi ad Arcore, con la presenza di un nutrito stuolo di camerieri del padrone di casa, pronti ad assecondare ogni richiesta. Incontro conclusosi con tanto di scarno comunicato stampa, che preannuncia la visita del duetto al Quirinale, per chiedere le dimissioni di Gianfranco Fini dalla carica di presidente della Camera.
Pronta la risposta di Bocchino in nome del gruppo di dissidenti strettisi intorno all’ex co-fondatore del PdL, che ha rammentato alla buffa coppia come la loro richiesta sia da ritenersi irrituale sotto il profilo costituzionale e, dunque, irricevibile.
Ma nell’ottica del Cavaliere e del suo socio di Cassano Magnago, Varese, ciò che costituisce evidenza istituzionale è per puro formalismo, convinti come sono da sempre di poter imporre la propria legge in quell’azienda Italia che considerano proprietà privata, e dunque al di fuori da ogni soggezione a regole limitative del potere dell’imprenditore.
Così, riunitosi ieri sera come azionisti di maggioranza in quella che hanno interpretato come un’assemblea straordinaria, hanno deliberato che il signor Gianfranco Fini, dirigente a libro paga della loro azienda e reo di aver messo in discussione gli obblighi derivanti dal piano quinquennale a suo tempo fissato dagli organi deliberanti della società, essendo venuto meno il rapporto fiduciario, debba essere licenziato senza indugio alcuno.
Non è dato ancora sapere se al dirigente dimissionato sarà riconosciuta l’indennità di preavviso e le relative maggiorazioni in ragione dell’età anagrafica previste dal vigente contratto nazionale per i dirigenti d’azienda, né se l’interessato intenderà ricorrere alla magistratura del lavoro per impugnare il licenziamento sospettosamente illegittimo.
A parte questo esilarante quadretto dal quale traspare la becera ignoranza dei due comici personaggi, l’inaudita trovata di Berlusconi e Bossi impone qualche riflessione, non fosse che per la novità con la quale i due leader politici sembrerebbero voler risolvere la grave crisi deflagrata all’interno della maggioranza di governo, - che non pare offrire alcuna via di sbocco se non quella che obbligherebbe Berlusconi a rimettere il mandato nella mani del Capo dello Stato affinché si proceda o alla formazione di un nuovo governo, - ove esistesse ancora la possibilità di comporre una maggioranza intorno ad un nome alternativo a quello del dimissionario Berlusconi, - o ad indire nuove elezioni.
L’iter, per quanto ovvio ed allo stesso semplice, non è gradito ad entrambi i personaggi: a Bossi, consapevole del favore dell’elettorato qualora si andasse al voto immediatamente, un elettorato frastornato dall’indecenza stomachevole della rissa scoppiata in casa PdL, ma che potrebbe affievolire il proprio sdegno, - dunque, la preferenza verso la compagine leghista, - qualora al governo Berlusconi si sostituisse un esecutivo guidato da un altro personaggio e retto da una maggioranza meno traballante e che fosse effettivamente in grado di realizzare alcune riforme ritenute unanimemente urgenti e irrinunciabili, a cominciare dalla revisione della legge elettorale.
Al contrario di Bossi, Berlusconi è dibattuto sull’esito di dell’eventuale rinuncia al mandato di capo dell’esecutivo, in primo luogo perché non è affatto sicuro che Napolitano procederebbe allo scioglimento delle camere, ed un governo affidato ad altro leader, per quanto di transizione, magari per il varo di una diversa legge elettorale e per traghettare il Paese ad elezioni da tenersi in primavera, lo confinerebbe nella posizione inedita di “sconfitto”, poiché avrebbe dimostrato di non aver avuto le capacità promesse di controllare la sua maggioranza e concludere il quinquennio di mandato. In secondo luogo, i sondaggi condotti dai suoi fidati gli hanno detto chiaramente che Fini gli porterebbe via un 5-6% e la Lega potrebbe fare altrettanto, con un evidente ridimensionamento del suo partito e del peso politico relativo. Rimane, infine, l’irrisolta questione giustizia, ancora più minacciosa alla luce dell’imminente sentenza della Consulta sulla illegittimità costituzionale del lodo Alfano e la riapertura, in quel caso, dei processi pendenti a suo carico, primo fra tutti quello Mills.
Qualcuno aveva già previsto che con la fine del periodo feriale ne avremmo visto di belle, ma il quadro che ci si presenta d’innanzi siamo certi va anche oltre le fantasie di uno scrittore di romanzi d’appendice. Rimane la consolazione che, nel nostro piccolo, abbiamo ancora la capacità di porci al vertice dell’attenzione mondiale, sebbene non per la tanto decantata qualità dei prodotti delle nostre imprese, quanto per una qualità forse ad oggi non del tutto apprezzata, la ridicola comicità di una politica cialtrona.
Ma anche questo, in fondo, è made in Italy.

lunedì, settembre 06, 2010

Il giocattolo rotto del Cavaliere

Lunedì, 6 settembre 2010
Ne ha avuto per tutti Gianfranco Fini nel suo attesissimo discorso di ieri a Mirabello. Per il premier, per i suoi giornali “infami”, per gli ex colonnelli o capitani di AN, per Gheddafi, per la gestione della giustizia, per il lavoro e l’economia.
A tutti ha dedicato un passaggio quasi liberatorio di due anni passati a sopportare i soprusi, i diktat del Cavaliere, il voltafaccia dei Gasparri, Matteoli, La Russa «che hanno soltanto cambiato generale e magari sono pronti a cambiarlo di nuovo» alla stessa stregua di moderni capitani di ventura, pronti a vendere il proprio braccio a chi paga meglio e assicura loro una partecipazione nella sparizione del bottino.
E nel pronunciare il suo discorso, Fini coglie il segno, facendosi interprete del generale sentimento popolare, che mal sopporta ormai le tiritere dei servetti di Arcore come Capezzone, sempre più nell’improbabile veste di un Savonarola prezzolato, o Cicchitto, sempre più calato nei panni di un patetico Richelieu proteso a difendere interessi di curia. Ovviamente queste punte d’iceberg si muovono in buona compagnia, potendo contare sui rincalzi Gasparri, che oggi sputa persino nel piatto che per lunghi anni ha leccato, o La Russa, che simulando di non perdere mai la mordacia, sostiene che non sono i colonnelli ad aver cambiato la divisa, ma è il generale Fini che ha abbandonato la caserma.
E coglie il segno anche quando sferra l’attacco al padrone del PdL in persona, artefice di uno spettacolo indecoroso con le sue genuflessioni a Gheddafi, un personaggio che «non ha certamente alcuna statura morale per dare lezioni di libertà verso le donne o di rispetto dei diritti civili». Poi non risparmia a Berlusconi accuse precise sullo stile, «un uomo che confonde il governare con il comandare come se lo stato fosse un’azienda di famiglia, che non esita a ricorrere ai peggiori metodi stalinisti per liberarsi del dissenso» come ha fato con lui, «che stravolge il concetto d’immunità al punto da volerla rendere impunità e che considera gli avversari nemici da sconfiggere».
Poi è la volta del capitolo giustizia. La magistratura è un caposaldo della nostra democrazia, premette Fini, anche se ci sono alcune mele marce. Fatto salvo l'obiettivo di tutelare le alte cariche dello Stato, non sembrano percorribili ipotesi (come la norma provvisoria contenuta nel provvedimento sul processo breve) che cancellano un gran numero di procedimenti in corso, colpendo cittadini che aspettano da anni di veder riconosciuti i propri diritti: uno stop alla norma a cui sta lavorando la maggioranza con il consigliere giuridico del premier, quel Niccolò Ghedini a cui il presidente della Camera riserva l'immagine del Dottor Stranamore, che «dovrebbe risolvere una cosa e non lo fa mai». Altro punto contestato, eppure sempre nell'agenda di governo, il federalismo che è accettabile, precisa Fini, solo a patto di non penalizzare il Sud. Non manca un accenno anche alla legge elettorale, con un mea culpa per un sistema che riserva agli elettori non più la sovranità popolare ma un «prendere o lasciare». Un passaggio che farà arrabbiare Umberto Bossi e che implicitamente rimanda al mittente l’offerta di Berlusconi di garantire un posto nelle liste ai seguaci del presidente della Camera che facessero opera di contrizione e rientrassero nelle file del PdL, formazione oramai definita «partito del Predellino o Forza Italia allargata», insomma un giocattolo rotto di cui è pressoché impossibile rimettere insieme i pezzi..
A chi aveva dubbi, con il suo discorso Gianfranco Fini ha palesato come per lui e gli amici che lo hanno seguito il PdL sia cosa morta; un discorso che suona come il de profundis per un’esperienza di percorso comune tra destra storica legalista e destra affarista. La stessa presa di posizione di denuncia della condizione di grave disagio sociale per i giovani, in larga parte disoccupati, per le forze di polizia, umiliate dalla politica dei risparmi del governo, che ha tagliato i fondi per le dotazioni, e per i precari della scuola, rimasti senza lavoro a causa delle dissennate scelte della Gelmini e delle politiche dei tagli imposti da Tremonti, denotano l’apertura di un crepaccio incolmabile tra l’andazzo berlusconiano e, sebbene discutibile, visione politica della destra finiana.
Tuto ciò, al momento, lascia solo sconcerto e disorientamento nell’elettorato e nelle stanze del Cavaliere, che fino ad ora non ha rilasciato alcun commento al discorso del suo ex alleato. Certo è che le elezioni anticipate appaiono sempre più imminenti, quantunque la loro indizione si giochi sul comportamento di chi per primo getterà la spugna.
Al momento e nonostante le prese di distanza, Fini ha garantito non solo il suo posizionamento a destra dello schieramento politico, ma anche il suo appoggio ai cinque punti sui quali Berlusconi dichiara voler chiedere nei prossimi giorni la fiducia del parlamento e, così, avviare la conta di quanti sostengono la sua zoppicane maggioranza. Ma il Cavaliere sa di non potersi fare alcuna illusione dal portare a casa una dichiarazione di sostegno, poiché sarà sottoposto ad un logoramento lento e inesorabile con conseguenze incalcolabili sulle sue personali vicende giudiziarie e sulla fiducia degli elettori: certo, uno smacco tremendo per chi, provetto sbruffone, aveva preconizzato che il suo governo sarebbe durato cinque anni filati. Ed ecco la ragione perché il classico giochino del cerino accesso passato di mano in mano è in questa fase il più praticato nelle stanze del potere.

domenica, settembre 05, 2010

O’Leary e il marketing dell’assurdo

Domenica, 5 settembre 2010
«O'Leary insulta la dignità dei passeggeri ogni volta che apre bocca». Così Kate Hanni, fondatrice di FlyersRights.org, una delle più famose e agguerrite associazioni che patrocinano i viaggiatori, ha commentato senza tanti giri di parole le ultime proposte del patron di Ryanair, la compagnia aerea irlandese, che ha ormai conquistato una posizione di leadership in Europa nel traffico low-cost.
E che le sparate di O’Leary superino oramai la semplice provocazione con finalità commerciali per sconfinare nella demenzialità, se non addirittura nell’idiozia più profonda, non v’è alcun dubbio. Dopo la proposta di allestire posti in piedi sui velivoli della compagnia e l’annuncio di far pagare l’uso della toilette, adesso il dubbio personaggio fa sapere che nel prossimo futuro sopprimerà la figura del co-pilota dagli aerei della Ryanair, considerata del tutto inutile vista la presenza a bordo non solo di apparati di navigazione computerizzata efficientissimi, ma anche di personale di cabina in grado di provvedere ad ogni esigenza di pilotaggio in caso di necessità, grazie ad un piccolo corso d’addestramento prevenivo.
Peccato che far volare un aereo sia leggermente più difficile che simulare la stessa cosa con un videogame, per non parlare poi del possibile rischio che il primo pilota sia colpito da malore. Un’eventualità alla quale O’Leary avrebbe già, però, trovato la soluzione giusta: ovvero, insegnare all’equipaggio a far atterrare l’aereo. «In caso di emergenza» - ha dichiarato l'ineffabile O’Leary - «il pilota suona il campanello e quando arriva la hostess, le chiede di prendere i comandi». Naturalmente, nel disprezzo più assoluto sia della sicurezza dei passeggeri che del minimo rispetto per una professionalità, quella dei piloti, che non si può certo inventare con un corso di qualche ora frequentato nel fine settimana, magari gratis, o, possibilmente, per corrispondenza, giusto per tagliare ulteriormente i costi.
«Siamo oltre l’assurdo» - ha spiegato il pilota di lungo corso, Patrick Smith, alla rivista Bloomberg Business Week - «e, in questo modo, non si fa che fomentare l’equivoco secondo il quale, in realtà, gli aerei si pilotino più o meno da soli. Anche nelle semplici operazioni di routine è importante avere una seconda persona ai comandi».
Ma al di là dell’ultima follia di O’Leary, al quale è indubbio il successo registrato in un clima di eccessi liberisti ha dato alla testa sino a farlo sragionare, c’è da chiedersi se la proposta non dovrebbe rappresentare il colmo oltre il quale le autorità comunitarie avrebbero l’obbligo di dire basta e assumere nei confronti di Ryanair qualche provvedimento che la costringa a tornare sulla retta via.
Qui non si intende mettere in discussione la libertà imprenditoriale di organizzare l’erogazione dei propri servizi ai consumatori come meglio si ritiene. Ma Ryanair non produce e vende né chewing gum né servizi di organizzazione eventi, ma servizi di trasporto aereo che, per la loro intrinseca natura, mettono costantemente a rischio la vita dei trasportati. Rischi che impongono al vettore l’obbligo inderogabile di rispettare regole imperative atte a minimizzarne l’eventualità e perciò stabilite da apposite autorità. Ogni deroga a queste regole non può passare grazie ad operazioni di pubblicità demenziale o di marketing ingannevole, che stimolando il consenso creatosi in ragione dei risparmi conseguibili, finiscono per creare indebite pressioni sulle autorità medesime. La sicurezza non è un optional e non può essere certo barattata con i pochi centesimi in meno sul costo di un biglietto aereo. Chi propone queste soluzioni diviene una seria minaccia per se stesso e per gli altri e dovrebbe essere messo in condizione di non nuocere, magari sottoponendolo coattivamente ad una sana terapia di riabilitazione psichica, sempre che dimostri una possibile capacità di recupero.
Ma anche questa sembra l’ennesimo segnale di un default inarrestabile della nostra epoca. Così assistiamo alla corsa sfrenata per l’acquisto di telefonini di tendenza dal costo assurdo che, dichiaratamente, non funzionano; a comportamenti di pubblici amministratori che fanno sfacciatamente i loro interessi e calpestano ogni regola imposta ai comuni cittadini; al degrado delle regole della comune convivenza; all’elusione sistematica dei doveri imposti dall’etica e così continuando, in uno stato di torpore generalizzato che finisce per rendere plausibile anche le più ignobili stupidaggini proferite dal mentecatto di turno: è proprio vero, il sonno della ragione genera solo mostri.

(nella foto, il "geniale" patron di Ryanair, Michael O'Leary)


giovedì, settembre 02, 2010

D’Alema, ma vada a farsi fottere!

Giovedì, 2 settembre 2010
Più volte abbiamo affermato che il nostro è un Paese senza speranze, un Paese nel quale la gestione dello stato e lo squallore offerto dalla politica, che ne ha permeato i gangli, sono tali da non lasciare intravvedere alcuna possibilità di ripristino di una civile convivenza.
Così, mentre a destra si consumano faide miserabili tra berlusconiani e finiani, tra leghisti arrampicatori e demagoghi e pidiellini affaristi e collusi, sul versante opposto si scatenano polemiche inammissibili su primarie, leadership, blocchi di coalizione e, soprattutto, riforme di legge elettorale.
Non che la riforma della legge elettorale non sia essenziale per ridare al Paese un barlume della calpestata legalità democratica. Ma dibattere stupidamente se all’attuale normativa canaglia concepita a suo tempo da Calderoli, - che ha candidamente definito la sua legge una mera porcata, - sia modificare con la scelta dell’uninominale alla francese piuttosto che con il tedesco o altra sconclusionata diavoleria, appare francamente una cosa senza senso, visto che l’obiettivo primario dovrebbe essere solo quello di cancellare una legge che ha fatto sino ad ora il gioco sfacciato di chi sta al potere, scippando i cittadini dal diritto di scegliersi coloro da inviare in parlamento e concedendo alle segreterie di partito un arma di ricatto di stampo feudale nei confronti dei parlamentari: ti nomino solo se hai dimostrato di allinearti.
Anche questa volta a guastare la festa e avvelenare il clima è il solio D’Alema, che, perdendo di vista l’obiettivo, apre una disquisizione demenziale sul sistema elettorale da privilegiare, augurandosi che si propenda per quello tedesco, in grado di «convogliare un campo vasto di forze, dall’Udc alla Lega e creare un assetto tendenzialmente bipolare, con un centro forte che si allea con la sinistra».
Scrive Giulia Innocenzi su Il fatto quotidiano: «Eh no, questa volta mi girano. Essere costretta a dare ragione a Capezzone, quando dice che “è surreale lo spettacolo del Pd, che appena comincia a discutere di un argomento è già lacerato“, è troppo.» Già che ci siamo, suggerisce la Innocenzi, «perché non anche Minnie e Topolino?» oltre alla Lega e l’UDC. Con questo approccio, che rischia di far sì che anche questa volta il PD si faccia da solo lo sgambetto, non s’andrà da nessuna parte e l’obiettivo di cancellare la porcata non solo non si realizzerà, ma finirà per diventare l’ennesimo boomerang per la credibilità sia del PD che di tutta l’opposizione.
Sembra di rivedere un film già visto, quello proiettato agli sgoccioli prematuri del governo Prodi in cui il dibattito sulla modifica della legge elettorale, - che in quella legislatura aveva favorito la coalizioni di sinistra, - non aveva prodotto alcun risultato proprio a causa delle contrapposizioni di mero contenuto estetico che avevano coinvolto il confronto tra le opposte fazioni. Risultato, posizioni ingessate ed elezioni perse, con conseguenze storicamente disastrose sulla morfologia di tutta la sinistra, dimostratasi incapace di quagliare una posizione comune e, oltre tutto, di mantenere gli impegni assunti con l’elettorato durante la sua brevissima legislatura.
Ma la lezione non sembra essere stata appresa. Anzi, ogni occasione è buona per la riemersione di sciovinistiche prese di posizione, che marchino i distinguo e che consentano di ritagliarsi un posticino di fugace visibilità, quantunque sia ormai risaputo che la tragica cancrena della sinistra e del suo storico insuccesso stia proprio in questa tignosa guerra tra intellettualismi e accademie fatue, in cui le primedonne gareggiano nell’ostentazione di un sapere fine a sé stesso e solitamente incapace di tradursi in terapie efficaci per la cura delle malattie più banali.
E se l’Innocenzi si dispera nel dover dare ragione al mesto Capezzone, non minore è il voltastomaco che si prova nel dover rivalutare la battuta “turarsi il naso e votare DC” proferita da Giulio Andreotti parecchi lustri or sono, che tra le mille incoerenze che incarnava sapeva che in certi frangenti il tatticismo impone scelte anche sul terreno di un compromesso inaccettabile in condizioni normali, ma che possono rappresentare l’unica via d’uscita ad impasse altrimenti inestricabili.
Non è che almeno questa volta il mitico “ma vada a farsi fottere!”, gridato da D’Alema alla volta di un imbecille che lo provocava, se lo meriti proprio lui?