venerdì, dicembre 31, 2010

Finalmente s’è toccato il fondo

Venerdì, 31 dicembre 2010
Nichi Vendola cade dalle scale durante un’incursione di quattro imbecilli del PdL decisi a molestarlo con schiamazzi e il mondo politico gli esprime solidarietà, non fosse perché questo metodo di contestazione di un avversario politico non può far parte della prassi.
Ben si sa da sempre che questa solidarietà, comunque, è spesso di facciata e poco esprime i veri sentimenti di chi la rilascia. Anzi, generalmente serve solo da piccolo palcoscenico per chi cerca visibilità a basso costo, giusto per dare il proprio nome alle prime pagine di qualche giornale, ma in realtà poco importa al dichiarante che il malcapitato di turno abbia subito danni più o meno tangibili.
In altri termini, sarebbe meglo in certe occasioni tacere e così far venire meno la propria solidarietà finta e di maniera, piuttosto che approfittare di quelle occasioni per esprimere melensi discorsi di partecipazione o, pegio ancora, utilizzare questi eventi per infierire scioccamente sugli avversari.
Così se Vendola dichiara all’indomani dello stupido episodio: «Ieri notte giovani del Pdl hanno pensato bene di venire a molestare il presidente della Regione a casa sua immaginando che l'abitazione privata possa essere una specie di protesi della lotta politica», non è certamente ammissibile che un manipolo d’idioti della Lega, capeggiati Andrea Tomasini, coordinatore provinciale di quel partito a Varese, che era alla conduzione di una diretta su Radio Padania, abbia chiesto al telefono a Marco Pinti, consigliere provinciale della Lega varesina: «Novità?», e questi abbia risposto: «Ho sentito al telegiornale che Nichi Vendola è caduto dalle scale». E in studio si ride. Conclusione: «Purtroppo non ha avuto danni permanenti».
Ancorché mascherata da finta ironia, la battuta non è affatto infelice, ma è la conferma dello squallore morale ed etico che alligna tra i dementi che siedono in quella forza politica, la cui istigazione alla violenza ed alla denigrazione volgare degli avversari è prassi ormai consolidata.
Naturalmente i quattro mentecatti in onda, seguendo l’eterna regola di vedere la pagliuzza nell’occhio altrui, sorvolando sul palo che ingombra il loro, avrebbero di certo trovato molto da ridire e poco da ridere se analogo augurio, magari coronato da speranza di felice e rapido trapasso, fosse stato al tempo inviato all’esagitato cafone di Cassano Magnago, quel Umberto Bossi che fu colpito da ictus qualche anno fa e, ciò nonostante, continua ad ammorbare con la sua presenza e le sue stravaganze maligne il mondo della politica ed il governo del Paese.
Com’è normale per gentaglia priva d’ogni senso di rispetto per la civile convivenza e per le sane regole del rispetto dell’altrui persona, avversari compresi, le disgrazie piovute ai terzi sono sempre un’occasione di giubileo e stupida comicità, mentre persino il rimbeccare di ritorsione ai loro danni è motivo per gridare all’attentato e alla discriminazione.
La sensazione è che fino a quando in questo Paese in rapido e continuo degrado si continuerà a dare spazio a bifolchi senza cervello non ci potranno mai essere le condizioni per un qualsiasi tentativo di normalizzazione, di ritorno alla politica fatta di rispetto e di proposte contro quella usuale di insulti e slogan.
E’ il venir meno di queste regole non scritte che ha determinato una condizione in cui oramai l’odio e il disprezzo sovrastano il dibattere e il contrastare, una cultura nella quale quando s’è a corto d’argomenti si auspica la morte dell’avversario e, dunque, la risoluzione finale d’ogni imbarazzante problema di confronto.

(nella foto, Marco Pinti, il valente consigliere provinciale della Lega varesina)

giovedì, dicembre 30, 2010

Il crepuscolo della democrazia

Giovedì, 30 dicembre 2010
L’anno che si chiude passerà alla storia come uno dei più tristi di questo scorcio d’inizio millennio. L’anno nel quale una centenaria storia di battaglie sindacali, fatta anche di eventi luttuosi, è stata cancellata con l’apposizione di una firma su un accordo che decreta la mortificazione definitiva dei diritti e della rappresentatività dei lavoratori nelle fabbriche e nei posti di lavoro in genere.
A commettere questo misfatto storico, con la complicità di confederazioni sindacali che, senza ulteriori veli, confermano quanto la brama di potere dei loro leader passi anche attraverso la svendita dei loro iscritti, è la nuova incestuosa alleanza tra la Fiat e Cisl e Uil, che hanno sancito come con il contentino di un euro al giorno sia possibile consolidare l’esercito degli sbandati che prestano la loro opera nelle fabbriche, in un continuum tra precariato endemico e sfruttati senza diritti.
Questo è il succo dell’accordo di Pomigliano tra Fiat e sindacati, un accordo che prevede la riassunzione in una nuova società dei 4600 dipendenti impiegati in quella fabbrica, ma con un contratto di lavoro che sostanzialmente azzera ogni tutela prevista dal precedente contratto nazionale dei metalmeccanici, in cambio di investimenti freschi pari a 700 milioni per la produzione del modello Panda e di una contropartita di 360 euro d’aumento medio annuo per tutti i lavoratori.
La rappresentatività dei lavoratori in base a quest’accordo sarà limitata alle sole sigle sindacali firmatarie, pertanto la Fiom Cgil, sindacato maggiormente rappresentativo del settore che la sua firma ha negato, sarà definitivamente esclusa da ogni trattativa futura con l’azienda.
Fin qui paradossalmente non ci sarebbe niente di strano per una realtà che sta vivendo da anni una sorta di golpe strisciante con il quale giorno dopo giorno si tende ad asservire il Paese ad un classe dominante che ha sempre dichiarato di puntare ad un esercizio del potere basato sulla limitazione delle libertà, sull’autoritarismo e l’arroganza, abusando del termine democrazia per qualificare le violenze che perpetra quotidianamente verso un tessuto sociale in totale decomposizione per l’assenza d’ogni speranza e di fiducia nel futuro.
Ciò che risulta incomprensibile è il pericolosissimo atteggiamento dei partiti della sinistra, quelli che storicamente sono nati per la difesa delle classi più povere e vessate dallo sfruttamento di un capitalismo infame, che oggi, infettati da questa arroganza sconfinata, osano persino rinnegare il loro dna e si schierano in difesa di quell’accordo, giustificandolo come l’unico possibile nell’ottica di un modernismo dei tempi che non concederebbe alcun appiglio alla difesa ad oltranza di ideologismi anacronistici e vuoti di contenuto.
Così i vari Fassino, D’Alema, Ichino e i tanti doppiopettisti che infestano ciò che residua del partito del grande Enrico Berlinguer si scagliano contro i barricaderos Landini, Cremaschi, che, in quell’intesa antistorica, non hanno giustamente voluto farsi coinvolgere apponendo la loro firma, accusando la Fiom di limitatezza di vedute e d’oltranzismo ideologico.
Questa reazione improvvida mette però in luce un aspetto del tutto nuovo nel degradato panorama della politica italiana. Sono anni che la sedicente sinistra del Paese lotta per riconquistare una credibilità che le ridia dignità di governo. Pensare di riconquistare questa dignità scendendo sul terreno degli avversari e utilizzarne metodi e slogan per darsi una facciata di perbenismo, che renda meno invisa ai cittadini, profondamente delusi dai tradimenti perpetrati alle loro aspettative durante il breve e farsesco governo Prodi, questo rudere di sinistra, va al di là del semplice errore di valutazione, poiché sconfina nella premeditata volontà di conquistare il comando approfittando del disgusto della gente. Comando possibilmente da esercitare con abusi e prepotenze ai quali s’è convinti ci si sia assuefatti con la lunga e tragica commedia berlusconiana.
Il senso di questo intendimento è nelle dichiarazioni di Paolo Pirani, segretario confederale della Uil, con tessera del Pd: "La Fiom si configura come un movimento politico di antagonismo sociale con precise interlocuzioni nazionali verso le fasce più estreme dei centri sociali e con precisi collegamenti internazionali verso i movimenti del radicalismo ecologista e della cosiddetta resistenza palestinese”. Parole da anni settanta, da anni di piombo, che intendono liquidare il dissenso con la criminalizzazione e il ghetto. Sindacati contro sindacati e partito contro la sua costola operaia, la sua essenza fondante, - operazione che ricorda tristemente la disastrosa campagna fratricida sviluppatasi all’interno del PDS contro Rifondazione Comunista, Verdi e Comunisti Italiani non più tardi di due anni or sono e che portò alla sconfitta senza appello dell’esperienza di centrosinistra.
Ma a quanto pare anche in questo caso la storia sembra aver insegnato nulla ad una nomenklatura abbarbicata alla poltrona e che, - come s’è già avuto modo di far rilevare, - è ormai avviata sulla strada del compromesso ad ogni costo pur di conquistare il potere, anche se questo prevede la negazione della propria identità e della propria storia.

(nella foto, Maurizio Landini, segretario generale della Fiom)

giovedì, dicembre 23, 2010

Il pentito del condom

Mercoledì, 23 dicembre 2010
Non ci sarebbe stato niente di male se avesse taciuto e, tutto sommato, avesse fatto sì che la cosa passasse in sordina. Di tempo oramai ne era trascorso tanto e il mondo, afflitto da ben altre preoccupazioni, di tutto si poteva preoccupare che dell’apertura di un dibattito sulla liceità dell’uso del preservativo finalmente sdoganato anche da Benedetto XVI, al secolo papa Ratzinger.
Così il pontefice, vittima delle probabili pressanti insistenze di un’ala ecclesiastica reazionaria e retriva al punto da rifiutare la ragione, ha fatto marcia indietro e ha ristabilito i confini del profilattico: nessun visto d’ingresso al condom e le parole di Ratzinger, - precisa una nota della Congregazione per la Dottrina della Fede, cioè quel ex Sant'Uffizio retto dal cardinale Joseph Ratzinger per 24 anni prima di divenire papa, - ovviamente mal interpretate sull’argomento, "non sono una modifica della dottrina morale né della prassi pastorale della Chiesa". Insomma, non cambiano la posizione dottrinale del Vaticano.
Il Pontefice, sottolinea il Sant'Uffizio nell'intervento intitolato "sulla banalizzazione della sessualità" e diffuso in ben sei lingue, si riferiva nel libro non alla "morale coniugale" e nemmeno alla "norma morale sulla contraccezione". Ma "ad un comportamento gravemente disordinato quale è la prostituzione". Con un rilievo: il papa "non di rado è stato strumentalizzato per scopi e interessi estranei al senso delle sue parole". Al che sembra d’assistere alle stanchevoli gag di Berlusconi, vittima dichiarata della costante manipolazione dei media.
Ci sarebbe da chiedersi d’innanzi a precisazioni così puntuali cosa intenda il comunicato con “prostituzione”, visto che il sillogismo che la precisazione stimola rischia di essere persino più lesivo della dignità umana di quanto non sia la stupida presa di posizione apodittica sul ricorso al condom. La pratica contraccettiva del preservativo non può essere associata con un automatismo becero alla prostituzione o alla frequentazione di donne di malaffare, quantunque anche in quella prospettiva lo strumento risponde ad esigenze di prevenzioni di pericolose infezioni.
La verità sta piuttosto in un ritorno alle retrive impostazioni di un sesso funzionale a millantate pratiche procreative, che da sempre costituiscono il frustrante presupposto della dottrina del cattolicesimo. Dottrina che comunque perde ogni ritegno e credibilità al cospetto dei gravissimi atti di violenza e di libidine compiuti storicamente da papi e prelati nei confronti di donne e fanciulli. E non basta certo ricordare che su questi episodi la Chiesa sia espressa con parole di condanna: i documenti spesso venuti fuori o le parole di qualche alto rappresentante dei vescovi in difesa di prelati infami, denunciano come, dietro ai richiami alla castità ed al rispetto dei dettati teorici, ci sia piuttosto una volontà ipocrita di salvare l’apparato ed autoassolversi dagli abusi, coinvolgendo in questo strumentale calderone anche le naturali effusioni d’affettività che coinvolgono i comuni mortali.
Ma così si appanna la credibilità dell’istituzione, con la richiesta di mantenere una morale alla quale anche il vertice della dottrina, della sua massima espressione, dimostra di non dare credito alcuno.
V’è infine un ultimo aspetto e riguarda l’annoso aspetto della modernizzazione della fede, un aspetto che, salvo rare eccezioni, ha fatto apparire la Chiesa come oscurantista e reazionaria.
Non è possibile continuare a mantenere a dispetto dei tempi un atteggiamento che nega come i costumi si siano evoluti al punto da aver impresso un’accelerazione notevole anche nei comportamenti sessuali. La donna, lungi dall’aver conquistato la piena parità all’uomo, ha oggi un grado di libertà significativamente superiore a quello riconosciutole in passato; una responsabilizzazione nella gestione di se stesa e del proprio corpo, che le consente di godere di un’autodeterminazione affrancata da tanti stereotipi figli di una cultura rancida.
Una chiesa che sia incapace di cogliere come lo spartiacque tra procreazione e governo del proprio corpo oggi è decisamente più netto che nel passato rimane un’istituzione nostalgicamente ancorata alla visione di una donna subalterna, a disposizione delle voglie di un uomo dominante, la cui concezione di sessualità più libera verso se stesso è sempre passata per peccato veniale. La donna non può più esser vista come una sorta di prostituta domestica o, peggio ancora, come una sorta di fossa biologica del maschio preminente. Ella deve avere riconosciuto il diritto di interpretare se stessa nella sua pienezza di diritti e doveri, anche verso la religione, e sostenere il contrario o criminalizzarne comportamenti e pulsioni ha solo il risultato di allontanarla da quella spiritualità di cui tutti hanno bisogno e nella quale tutti cercano conforto.
Una Chiesa non in grado di cogliere questa trasformazione della società e dei suoi valori è senza speranza e rischia di morire soffocata dall’incongruenza e dall’anacronismo dei suoi dogmi.

mercoledì, dicembre 22, 2010

La truffa dell’adsl

Mercoledì, 22 dicembre 2010
Che internet sia veicolo di informazioni planetarie e sistema di connessione con il mondo in tempo reale è cosa del tutto risaputa e consolidata. La maggior parte dei paesi sviluppati, - ma sarebbe certo il caso di parlare di civiltà piuttosto che di sviluppo, - hanno da tempo riconosciuto i meccanismi di connessione alla rete come diritto universale e, pertanto, i rispettivi governi hanno imposto l’erogazione gratuita ai propri cittadini di una banda minima di connessione garantita, in modo da permettere a tutti di accedere al web e di fruire dei servizi disponibili.
Com’era facilmente immaginabile, tale garanzia è del tutto negata ai cittadini della sedicente civilissima Italia, che non solo debbono pagare tariffe salatissime ai provider telefonici, ma non hanno alcuna garanzia che, una volta pagato, possano fruire del servizio secondo le previsioni dei contratti sottoscritti. Anzi, non essendo nella civilissima Italia tale servizio riconosciuto quale diritto universale, è lasciata ampia mano libera ai provider di negare persino l’allacciamento, con buona pace di ogni protesta.
Diversamente dal solito, i colpevoli di questa situazione sono individuati e precisi e risiedono nei vari palazzi del potere politico, - ministeri delle Finanze, dell’Interno, dello Sviluppo Economico e Presidenza del Consiglio, - che hanno deliberatamente inibito l’importantissimo passo in avanti, accampando ora la solita penuria di fondi da stanziare in periodo di crisi economica, ora qualche assurda ragione di ordine pubblico, che il libero accesso potrebbe compromettere, ora cedendo alle pressioni delle potentissime lobbie della cornetta, che sulle tariffe di connessione hanno costruito rilevanti occasioni di proventi, grassando gli utenti.
Il tutto prende origine dalla situazione dell’ex monopolista Telecom, che è proprietario di centrali e linee telefoniche sulle quali viaggia il segnale adsl. La liberalizzazione imposta con la caduta del monopolio si è realizzata in una realtà fortemente condizionata dal possesso delle infrastrutture di telecomunicazione, rimaste saldamente in mano alla Telecom. Non è bastato imporre il noleggio delle linee e le tariffe. Quei prezzi imposti sono serviti, paradossalmente, ha creare un’offerta poco vantaggiosa per l’utenza, offerta spesso del tutto indifferente alla tipologia del provider di turno.
Ma per assurdo il problema vero non è stato quello delle tariffe, quanto quello delle velocità di connessione, che si sono rivelate vere e proprie truffe legalizzate, coperte peraltro dall’ignavia dell’Autorità garante delle comunicazioni, dal nome roboante quanto l’inconsistenza del suo ruolo nella vicenda.
Si vuole, infatti, che i tanti provider presenti, su un mercato di concorrenzialità falsata dalle premesse, offrano velocità di connessione a pagamento prive di ogni rispondenza effettiva nella realtà. Si parla così di 7Mb, di 10Mb e addirittura di 20Mb, che sono solo virtuali, in quanto nella stragrande percentuale dei casi, se si raggiunge meno della metà della velocità promessa, ci si deve ritenere più che fortunati.
I provider, per non incorrere nelle conseguenze palesi della vera e propria truffa, si sono inventati la formula del “fino a….”, che ha reso legale ogni azione di vero e proprio raggiro ai danni dell’utenza. E la motivazione di quest’imbroglio è abbastanza intuibile: è Telecom che è rimasta proprietaria delle centrali e delle linee, e su questi apparati essenziali per la veicolazione di un segnale di qualità ha sospeso ogni investimento d’ammodernamento, sì da non consentire l’erogazione di un servizio in molti casi appena dignitoso, sia ai suoi clienti che a quelli di altri provider, in ogni caso sono obbligati a comprare da Telecom i servizi rivenduti.
Chiunque sia incappato in situazioni di scarsa affidabilità e velocità di connessione ed abbia protestato, si è sentito ammannire scuse vergognose, come un’eccessiva distanza dalla centrale telefonica, la saturazione dell’impianto domestico per eccesso di prese o presenza di più terminali telefonici, l’assenza di split e filtri sulla linea all’ingresso per la separazione del servizio voce da quello adsl e così via, al solo scopo di occultare le magagne e giustificare le insufficienze strutturali.
Certo è che, grazie alle pressioni esercitate dai provider telefonici tradizionali, Telecom compresa, il sistema di mega Wi-Fi, che sembrava dovesse prender piede e risolvere anche i problemi di connessione di abitazioni isolate e rurali, è stato boicottato e ha lasciato immutata la situazione di mercato. Né sembra decolli la digitalizzazione della rete con sistemi di trasmissione in fibra ottica, poiché gli investimenti necessari sono notevoli e Telecom esigerebbe un contributo da parte dello stato eccessivamente oneroso.
E in questo scenario la truffa continua, mentre i vari Abbatantuono, Belen, De Sica, Panariello e figuranti vari continuano ad incassare milioni come testimonial di provider che vendono prodotti per la connessione ad alta velocità del tutto inesistenti, sotto lo sguardo distratto, se non addirittura complice di chi, pagato con i soldi della collettività, dovrebbe intervenire e decretare la fine di uno sconcio senza pari nel mondo civile.

martedì, dicembre 21, 2010

Progressismo in svendita

Martedì, 21 dicembre 2010
I saldi non sono ancora iniziati, ma c’è qualcuno che si è già precipitato a fare acquisti, che nulla hanno a che vedere con la corsa ai regali di Natale. Anzi, sembrerebbero più acquisti motivati dalla necessità di rinnovare il guardaroba, quello di lavoro, però, non l’abbigliamento per le occasioni.
Così pare che Bersani, il segretario del PD, - sigla da qualcuno decriptata in Partito Dondolante, un bontempone di certo, - sembra sia stato visto aggirarsi frettoloso per le strade di Piacenza, sua città natale, e per quelle di Roma a far acquisti di vestiti, decine di doppiopetto grigi e cravatte in tinta, che sembra debbano diventare la nuova divisa di ogni iscritto del suo partito o almeno di quanti decideranno di restarvi dopo la scelta del new look.
Le ragioni di questa scelta? Non ventate di rinnovamento stilistico fine a se stesso, quanto l’esigenza di trovarsi preparati alla confluenza in una coalizione con i centristi di Casini e Fini, quel terzo polo che sembra attrarre il buonuomo piacentino più di quanto il miele riesca a fare con le mosche.
E la sterzata è tutta sua, almeno a quel che dice, anche se i soliti dietristi sussurrano che alle sue spalle ci sia il solito D’Alema, che contrariato dalle pretese di un Vendola in ascesa di consensi e ammiccante sempre di più alla volta dell’elettorato del PD, avrebbe suggerito di smetterla con questa farsa delle primarie, che potrebbero se indette determinare il rischio del crollo dell’attuale nomenclatura del partito.
Fatto è che, a stare ai sondaggi, non pare che il PD da questa scelta d’alleanze ne trarrebbe un gran vantaggio, visto che Vendola comunque porterebbe via al quel partito guidato dal vecchio politburo almeno un punto percentuale. Ma l’obiettivo di Baffetto e del buon Bersani non è quello di prendere più voti, quanto quello d’insediarsi su qualche poltrona messa lì a disposizione, almeno per riconoscenza, dai furbi Casini e Fini, in crisi d’astinenza di potere. E c’è da capirli i poveri tapini, sotto assedio ormai da tempo tra rottamatori, - in testa Renzi, il rampante sindaco di Firenze, - l’eterno Ualter Veltroni, mai rassegnato ad una posizione ai margini del partito, la minoranza interna di Gentiloni e Fioroni, e adesso 'sto Vendola del cavolo, che non sta nel partito ma che gode di simpatie diffusissime tra quanti reclamano che il PD esca dall’ignavo immobilismi cui s’è da tempo condannato e vari una piattaforma seria di rilancio, degna delle sue tradizioni di faro della sinistra italiana.
Il povero Di Pietro ovviamente è rimasto esterrefatto da questo atteggiamento dell’alleato, - che sarebbe più opportuno già chiamare ex, viste le continue fughe laterali che da molto tempo ne hanno messo a dura prova la volontà di proseguire su di una strada comune. Prima la Sicilia, dove il PD non si fa scrupolo d’appoggiare un governatore in odore di mafia che ha dato prova di poter stare con tutti. Con Forza Italia, con il PdL, con l’UDC, salvo scendere a patti poi con il tanto odiato Micciché, dichiaratosi improvvisamente lealista prima e fondatore di una caricatura di Lega per il Sud dopo, e in fine con gli sbandati di un ex partito comunista, nemici giurati in fase elettorale. Poi questa gag delle alleanze possibili con i neocentristi, con i quali non si sa bene cos’abbiano da spartire Bersani e Franceschini: direbbe Totò “ma che ci siamo impazziti tutti?”. Ce n'é per tutti, anche per il Tonino nazionale capace d'ingoiare ogni sorta di rospo.
Insomma, parlare di farsa sarebbe quasi fare un complimento a quest’accozzaglia di uomini senza bussola, che tanto ricordano il pensiero debole dei vecchi socialisti: offrire il proprio appoggio a chiunque detenga il potere o ne sia in odore pur di guadagnare uno sgabuzzino dal quale manovrare anche una piccola leva di comando, un sano realismo spinge a credere che l'Italia si può rinnovare anche dal gabiotto d'un usciere.
Intanto gli operai piangono, gli impiegati si lamentano, le famiglie non sanno come sbarcare il lunario e gli studenti scendono in piazza, tutti con la richiesta di una sterzata vigorosa che ridia quella speranza e quel senso di giustizia sociale minima che i becchini del centrodestra hanno preteso di seppellire da tempo e per sempre.
E mentre il sistema si piega sempre più su se stesso, Bersani e soci rinnegano le proprie radici e cercano accrediti tra ex fascisti ed ex sfascisti, tra coloro che per mille inenarrabili ragioni hanno retto il bordone a Berlusconi e i suoi comitati d’affari fino a ieri ed oggi si dichiarano portatori di un progetto nuovo sol perché fa moda esprimersi per slogan e solleticare l'immaginario collettivo.
Quant’è attuale il grido che Quino mette in bocca a Mafalda: “fermate il mondo, voglio scendere!”.

venerdì, dicembre 17, 2010

Il riformismo nell’epoca dell’arroganza

Venerdì, 17 dicembre 2010
Le battaglie di Roma, Bologna, Palermo e di tante città italiane, quantunque episodi culminanti di un malessere studentesco cominciato già da tempo con i provvedimenti di riforma della scuola e dell’università, stanno assumendo una connotazione ben diversa da quella iniziale. Il 14 scorso il movimento di massa, che ha messo a ferro e fuoco in particolare la Capitale, non era costituito solamente da studenti, ma al fianco di questi v’erano i cassintegrati, i disoccupati, i terremotati dell’Aquila e dell’Abruzzo, i cittadini di Terzigno e delle aree campane nelle quali il gravissimo problema dei rifiuti è divenuto un’emergenza improrogabile, di cui anche l’Europa ha sollecitato soluzioni radicali.
Questa composizione eterogenea ha conferito alla lotta studentesca un significato che ne travalica le istanze e che ne trasforma la portata in aggregazione di rivendicazioni sociali composite, spia di un diffuso e radicato malcontento le cui conseguenze non sono prevedibili, ma che non lasciano presagire se non una nuova stagione di disordini di cui era dagli anni ’70 che non si sentiva più parlare.
E’ conferma di questo passo avanti di questo movimento di contestazione sempre più globalizzato la violenza scatenatasi qualche minuto dopo la diffusione della notizia che il governo Berlusconi aveva, pur se per il rotto della cuffia, portato a casa la fiducia. E ignorare questo delicatissimo passaggio non è solo disinformazione mistificante, ma vuol dire nascondersi dietro un paravento di vetro e declinare le responsabilità che incombono su quella classe politica che giorno dopo giorno continua a dimostrare una scellerata e tignosa volontà di governar forzando la mano e ignorando l’esistenza di un Paese nel quale la delusione si sta trasformando in rabbia ottusa e senza speranza.
Il malessere di cui si parla non è né ignoto né irrisolvibile. E'solo la protervia di una casta autoritaria e menefreghista che ne sta alimentando il fuoco, con l’inerzia e comportamenti vergognosamente omissivi, che nulla hanno a che vedere con la gestione concreta degli interessi della generalità dei cittadini. Tali comportamenti hanno assunto nel tempo il vero e proprio significato di crimini premeditati contro le fasce sociali tra le più deboli della nostra realtà: lavoratori dipendenti, studenti, giovani in cerca d’occupazione, pensionati, soggetti con problemi di salute, immigrati, a cui si sono aggiunte categorie nuove come i dipendenti pubblici, le imprese e quelle nuove frutto di eventi naturali non prevedibili, come i terremotati abruzzesi e gli alluvionati siciliani e veneti. Alle istanze di costoro non è stata data alcuna risposta, se non inaccettabili imposizioni di sacrifici insostenibili determinatisi a causa della crisi mondiale da una parte e dal populismo ottuso di politiche di rigore sulla spesa pubblica, dall'altra, che hanno falcidiato esclusivamente ogni barlume di sociale e cancellato il senso comune dello stato e della convivenza civile. Ultimo, ma non per questo di minore rilevanza, i sedici lunghi anni di fuorvianti guerre senza quartiere contro ogni legalità, al solo scopo di salvaguardare gli interessi economici e personali di un uomo senza scrupoli e senza moralità come Silvio Berlusconi, entrato in politica dopo la scomparsa del suo padrino Bettino Craxi, hanno azzerato il senso della politica e la già scarsa fiducia residua del Paese nei confronti delle istituzioni e delle sue rappresentanze.
Siamo il Paese nel quale l’indice di povertà è tra i più elevati tra le nazioni sviluppate, ma anche quello in cui il peso della pressione fiscale ci consegna la medaglia di bronzo in ambito europeo. Siamo il Paese dove la disoccupazione registra uno dei tassi più elevati e a, livello giovanile, tocca punte terzomondiste del 40%, ma allo stesso tempo si finge di non capire che il ricorso al precariato spacciato per flessibilità del lavoro è una sorta di punteruolo rosso che sta uccidendo il nerbo futuro della nostra società. Siamo un Paese che registra un divario abissale e mai ridotto tra nord e sud della Penisola, ma che nello stesso tempo ha varato ridicole norme su un federalismo scriteriato solo per soddisfare gli egoismi velleitari di una Lega cialtrona e populista. Siamo il Paese delle clientele politiche e delinquenziali, che hanno favorito l’ipertrofia della pubblica amministrazione ed il contemporaneo degrado dei servizi, le speculazioni affaristiche sulla sanità, la massiccia evasione fiscale, il lavoro nero diffuso, le combine nella gestione degli appalti pubblici, la corruzione della magistratura e quanto di più vergognoso si possa immaginare, ma che allo steso tempo finge di scandalizzarsi davanti alla presa d’atto di una disastrosa gestione dello stato proprio da parte di coloro che, da ben altri pulpiti, in passato sono stati gli autori dei misfatti.
Poi con l’arrivo della crisi mondiale e sotto la spinta dello sdegno dei partner europei, non più disposti a tollerare la zavorra che rappresentiamo, prima si varano misure a sostegno di quei santuari finanziari che nella crisi hanno giocato un ruolo fondamentale e poi provvedimenti che tagliano la spesa alla cieca, ma badando bene a colpire solo le categorie più deboli. Questa non sono scelte miopi, ma veri e propri attentati alla stabilità sociale, che hanno l’obiettivo di determinare le condizioni affinché la ricchezza si concentri sempre più stabilmente nelle mani di un élite sempre più ristretta in dispregio ad ogni principio d’equità.
In fine, lo scontro frontale con la magistratura, quella magistratura certamente non priva di responsabilità omissive in passato, ma che non può bollarsi di parte solo perché osa attaccare i santuari del malaffare di cui il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, è oggi caposcuola.
Davanti a questo degrado si fa in fretta a gridare al ritorno di certe nefaste pratiche violente del passato, - d’altra parte la criminalizzazione dell’avversario è tecnica antica quanto l’ammiccante propensione all’abuso da parte di chi gestisce il potere. La sovranità nelle democrazie è del popolo e non di chi la esercita per sua delega. E quando le istanze del popolo rimangono lettera morta allora quel popolo ha il diritto di ricorrere ad ogni mezzo per farsi ascoltare, mentre chi gestisce il potere deve avere la capacità di assumersi la responsabilità delle conseguenze della propria sordità, perché non si potrà mai parlare di riforme vere senza la condivisione di chi poi ne dovrà subire gli effetti.

(nella foto, immagini di guerriglia metropolitana durante i disordini a Roma del 14 scorso)

giovedì, dicembre 16, 2010

L’Italia vista dall'estero

Giovedì, 16 dicembre 2010
Siamo ormai a due giorni dalla Caporetto della politica italiana e la polemica non accenna a diminuire, anzi con il passare delle ore si fa persino più dura ed assume i colori lividi della bile e dell’odio. Da una parte un Berlusconi sempre più isolato, asserragliato nella sua torre eburnea, che lancia antemi contro Fini e i suoi, dall’altra Fini che tace, mentre si lecca le ferite prodottegli dallo scontro con il padre-padrone del partito che aveva contribuito a fondare e che sicuramente medita la prossima mossa per vendicarsi e infliggere una sconfitta al suo nemico.
Nel frattempo i corridoi del parlamento pullulano di impresari più o meno scalcinati, che cercano di comprare qualche guitto di passaggio e imbarcarlo nel pullman del PdL SpA per togliere ulteriore forza e terreno sotto le suole al presidente della Camera, nonché capo del Fli.
E’ un mercato in piena regola, con banditori con tanto di tappeti e collanine al braccio esibiti apposta per turlupinare qualche indeciso passante e appioppare un po’ di fufa, così il padrone della ditta di chincaglieria, alla sera, sarà magari contento dei colpi messi a segno dai suoi vu cumprà sguinzagliati in ogni dove.
Ma Fini non si fa sorprendere, così come non conta di farsi sorprendere Casini, a cui hanno fatto balenare sott’al naso specchietti, collanine e ciarpame colorato vario pur di traghettarselo sulla propria sponda. E allora i due si alleano, fondano il tanto promesso terzo polo, quello di centro, imbarcando nella compagine Rutelli e l’Mpa di Lombardo, i liberali e liberaldemocratici, chiudendo così l’accesso ad ogni interferenza esterna. Certo il terzo polo somiglia sempre più ad un’insalata russa un poco inacidita, una sorta di riedizione della vecchia DC, con la differenza che imbarca qualche screditato di troppo, a cui si pensa la gente non faccia troppo caso, presa com’è dal discredito incancrenito che alberga nel PdL e nei tanti personaggi che un conto aperto con la giustizia ce l’hanno, a cominciare dal suo padre-padrone Silvio Berlusconi.
«Che tristezza, spariranno: sembrano De Mita e Forlani» pare abbia detto il premier con una punta di stizza. E c’è da capirlo, sicuramente gli avrebbe fatto assai più comodo qualcuno che ricordasse più la figura di Oscar Mammì, - che non si sa mai cosa potrebbe accadere se, andando presto o tardi alle urne, questi personaggi dovessero magari ritrovarsi in una posizione molto meno debole di quanto non sia quella attuale.
E mentre l’arrogante Cavaliere s’ostina a mantenersi in sella, a dispetto della responsabilità che dovrebbe avere verso il Paese, e suoi baciapile della Lega continuano a sfogliare la margherita delle elezioni sì, elezioni no, il consesso internazionale, di cui in questa tragica situazione inella quale si trova l’Italia ha molto bisogno, non risparmia frecciate al curaro ad un premier senza dignità. Berlusconi, recita sintetico e impietoso un editoriale del New York Times, «è screditato, non ha più una maggioranza in grado di funzionare. Non è una situazione che l’Italia può tollerare a lungo. Servono, e servono con urgenza, nuovi leader, nuove elezioni e uno stile di governo più onesto». Berlusconi ha fallito e il suo è «un fallimento personale». Il suo «restare in carica ha estenuato l’Italia, indebolito il discorso pubblico, indebolito il governo della legge», conclude il quotidiano d’oltre oceano.
Duro anche l'affondo del Financial Times. Berlusconi deve avere delle «unghie resistenti», scrive oggi il quotidiano, riferendo su come il presidente del consiglio italiano sia riuscito, «tra la violenza nelle strade di Roma e le risse in parlamento», a rimanere «aggrappato al potere» con il minimo scarto. Berlusconi può presentarsi come il vincitore, ma la sua «non è altro che una vittoria di Pirro» - sottolinea il Financial Times - «perché ha perso la maggioranza assoluta alla Camera e molti suoi ex colleghi sono oggi all'opposizione». Tuttavia, sebbene il governo sia in difficoltà, i suoi oppositori hanno poco da festeggiare, continua il quotidiano economico: «Il loro fallimento serve solo a illuminare il loro scompiglio».
Anche l'Economist dice la sua nel descrivere quanto accaduto il 14 dicembre. Tra scontri e voto di fiducia una «giornata non bella per la democrazia parlamentare in Italia», per poi delineare un futuro incerto per Berlusconi, leader di «un governo di minoranza», destinato a barcamenarsi «di crisi in crisi e a racimolare giorno per giorno e legge per legge maggioranze raccogliticce». La sua unica speranza è di «andare avanti finché non ci siano i segni di una ripresa dell'economia e della sua popolarità personale». Il vero perdente, conclude il settimanale britannico, è Fini. «Ma anche il premier è stato gravemente indebolito. A meno che non riesca a concludere un accordo con l'Udc, sembra ancora probabile un'elezione l'anno prossimo».
Che tristezza: e se questa è l’Italia che Berlusconi aveva promesso ai tanti illusi che gli hanno dato credito, allora viva quella di Gava e Pomicino.

mercoledì, dicembre 15, 2010

La vittoria di Pirro

Mercoledì, 15 dicembre 2010
Il titolo non sarà di certo originale, ma non crediamo esista una diversa definizione per qualificare la vittoria di Berlusconi al voto di fiducia di ieri in parlamento.
Una vittoria che avrà appagato il suo sciovinismo esasperato, ma che trascina sia lui che il Paese, - che è quello che più conta, - nel tunnel incertissimo delle elezioni di primavera. Sì, perché solo un illuso potrebbe pensare di governare con i due o tre voti di scarto, peraltro frutto di un ignobile mercimonio di vomitevoli mentecatti, un’Italia che nei consuntivi di Draghi proprio di ieri conferma di boccheggiare e di marciare inesorabilmente verso il precipizio.
Ma veniamo ai fatti. La vittoria di Silvio Berlusconi non è solo il frutto del consenso strappato ai quattro accattoni che pur di conservare il posto in parlamento avrebbero venduto persino madre e sorella. Al superamento della sfiducia hanno contribuito molti fattori e primariamente lo stato confusionale e d’inconsistenza in cui si dibatte un opposizione sempre più smarrita, dove PD e IdV da ieri hanno evidenziato la loro vera vocazione di movimenti talent scout, capaci solo di portare in parlamento quinte colonne del Cavaliere, ma non un progetto politico credibile. Razzi, Calearo, Scilipoti sono figure meschine senza ruolo e senza peso in seno ad un’armata Brancaleone incapace non di liberare il Santo Sepolcro dal giogo dei Mori, ma persino di garantire la disciplina al proprio interno, con il risultato che l’esito di ogni spedizione risiede nelle mani di un pugno di venduti, che quantunque senza peso alcuno finiscono per fare numero.
Il PD, inoltre, è ormai da tempo la maschera di se stesso, senza leadership, nelle mani di un buonuomo senza grinta e appeal che farebbe certamente meglio a spendere il suo talento nella Caritas piuttosto che nella compagine più significativa d’opposizione. Peraltro un partito corroso all’interno da mille dubbi, dallo scontro perpetuo tra i suoi ideologi salottieri in cui il doppiopetto ha definitivamente reso ridicola ogni memoria d’eskimo: a cosa serve riempire la piazza quando s’è poi nei fatti incapaci di tradurre in azione la rabbia e il disgusto che ne emerge? Non bastano né slogan, né ironico disprezzo per sloggiare l’avversario, che a ben riflettere sugli slogan è nato e del disprezzo ha fatto la propria bandiera.
Questo PD ha definitivamente seppellito l’insegnamento di Berlinguer, quell’insegnamento che predicava idee e progetti per far breccia nel cuore e nelle menti, quel progetto che sapeva parlare ai lavoratori, agli umili, ai diseredati da un potere cancerogeno che non ha mai fatto mistero di preoccuparsi solo degli interessi di coloro che hanno già tanto e vogliono sempre di più. Gli operai della Fiat in lotta per la salvaguardia dei loro diritti (pochi) sanciti nel contratto di lavoro non sono frange d’una eversione elitaria che vuol mantenere privilegi ad ogni costo, ma sono il nerbo vero di un Paese sempre più diviso tra coloro che non hanno più nulla, né speranza né dignità, e una casta di stupratori di ogni diritto alla sopravvivenza dignitosa. Marchionne non è il prodotto casuale dei tempi. E’ il figlio di un’ideologia sfrontata e di rapina che osanna il profitto anche a costo di sterminio sociale, con l’avallo dei Saccone, Maroni, Cicchitto e quanti facciano parte di quella delinquenza politica senza scrupoli che ha preso il sopravvento non per merito proprio quanto per debolezza di chi avrebbe dovuto contrastarli.
Non diverso è il discorso dell’IdV di Di Pietro, capace solo di insultare e sbeffeggiare, ma senza un progetto che superi l’antiberlusconismo preconcetto. Questo si sta dimostrando un altro movimento che pur d’emergere non disdegna d’attingere nelle discariche di periferia i propri rappresentanti, - e non v’è certo bisogno di citare esempi, - ma nella prassi poi si palesa come un drappello di scalmanati armati solo dell’offesa e privo di cervello, di quel senso della politica che impone in certi frangenti di accantonare rancori e velleità per realizzare quei compromessi funzionali alla realizzazione di un progetto, quasi il consenso derivasse solo dall’arroccamento su un Aventino virtuale dall’alto del quale si sputa su tutto ciò che passa sotto.
Mesta la figura di Fini e del suo FLI, che, nato sullo strappo da quel partito padronale in cui aveva condotto i suoi, ha visto frantumarsi ogni speranza di infliggere la lezione che avrebbe meritato al suo arrogante avversario per aver confidato eccessivamente nell’onesta di qualche Carneade senza patria e senza religione. D’altra parte l’errore Fini lo commise già nel 2008, quando spiazzato dalle mosse del Cavaliere accettò di salire su un treno che riteneva probabilmente di poter dirottare in corsa. Di occasioni per dimostrare che voleva un’Italia nuova e democratica ne ha avute tante, occasioni nelle quali avrebbe potuto palesare quella volontà di dare una sterzata decisa agli inconfessabili disegni di Berlusconi. Invece ha accettato i diktat ed ha avallato le scelte scellerate del comitato d’affari rappresentato dal governo in carica ed oggi non può lagnarsi di dover pagare lo scotto dell’utile ma tardiva alzata di testa: oggi la sua figura esce dallo scontro più appannata e la strada per una rinnovata credibilità non è certo in discesa. L’olio di ricino che i suoi referenti ideologici hanno somministrato in passato al dissenso oggi è probabile tocchi a lui e i suoi fedeli, che hanno il compito per sopravvivere di costruirsi un’identità riconoscibile entro le elezioni sempre più vicine.
In questo mesto quadro, paradossalmente, l’unico che conserva una credibilità non scalfita è Casini e l’UDC, quantunque abbia anche lui dovuto registrare la partenza di qualche peone prezzolato, che ha mantenuto una posizione chiara e continua a sostenere che mai cederà alle lusinghe di un Berlusconi che, sebbene vincitore sulla fiducia, non può certo pensare di continuare a vessare gli Italiani con la inconsistente maggioranza che si ritrova e, pertanto, ha necessità di acquisire qualche ciambella di salvataggio prima che la sua barca affondi irrimediabilmente.
Intanto la piazza rumoreggia e ieri, alla notizia della fiducia strappata da Berlusconi in parlamento, la rabbia di lavoratori e studenti s’è scatenata in tutt'Italia, come a dimostrare che quanto accadeva nel giardino d’inverno non è certo quanto una consistente parte del Paese s’attendeva. E c’è da sperare che se questo dissenso di popolo dovesse continuare il senso di responsabilità prevalga e si torni finalmente a chiedere il responso degli elettori, accantonando egoismi e pericolose spavalderie.

(nella foto, immagini dei disordini di ieri)

venerdì, dicembre 10, 2010

Onorevole venduto

Venerdì, 10 dicembre 2010
Il 14 dicembre è alle porte e in quest’imminenza cadono le maschere e si palesano i veri interessi dei tanti cialtroni che infestano il parlamento della "republicchia", i cialtroni che, baciati dalla fortuna, si sono accasati a palazzo Madama e a Montecitorio e che adesso hanno perso la trebisonda alla sola idea che si possa tornare a votare e, in quell’appuntamento, perdere la poltrona riccamente pagata sulla quale contavano d’adagiare le chiappe per cinque anni.
Questi cialtroni, incapaci spesso d’esercitare un mestiere dignitoso nella vita normale, ma grandi collettori di voti per le ragioni più svariate, dato che la politica non l’hanno mai vissuta come un fine ma come un mezzo, grazie ad una legge elettorale truffaldina e golpista, sono riusciti ad infilarsi in parlamento solo perché imposti da un capo bastone che ha pensato d’inserirli in lista, per attrarre al suo partito i voti che quelli controllavano, con il risultato che carneadi senza ideologia e valori si sono sistemati a stipendio principesco.
Ovviamente, per costoro sentire parlare di ritorno alle urne e come sentirsi dire dal medico d’essere affetti da un cancro incurabile, poiché nell’ipotesi che si dibatte in cui si dovesse metter mano alla legge elettorale e tornare ad un sistema con le preferenze, correrebbero in tanti il grosso rischio di restar disoccupati, senza possibilità alcuna di tornare agli antichi mestieri perché quei mestieri non ci sono mai stati o comunque non sarebbero certo in grado di garantire loro il proseguimento in una vita da nababbi.
La contezza dell’esistenza di questo squallido sottobosco ha innescato un mercato dei voti in vista della prossima fiducia, mercato che definire delle vacche suona d’offesa persino agli utili e umili cornuti.
Non che i transfughi da un partito all’altro non facciano parte della storia politica di una qualunque democrazia parlamentare. Ma i Paesi come i nostri nel mondo occidentale evoluto sono veramente pochi e occorre guardare alle finte democrazie sudamericane per trovare un’interpretazione della politica così corrotta e affarista. Nelle democrazie nelle quale vigono sistemi elettorali con premi di maggioranza, per contro, è radicata ben altra cultura e certi atteggiamenti speculativi del proprio ruolo rappresentativo sono vissuti con maggiore serietà e responsabilità.
Alla luce di questo clima da ultima cena, in cui di Giuda pare ve ne sia più di uno e di denari si mormora ne stiano scorrendo tanti, è del tutto incerto il risultato del voto di fiducia, sebbene, e comunque si concluda questa sorta di farsa che si trascina da parecchio tempo, sia da ritenersi scontato il destino del governo Berlusconi. Comunque vadano le cose solo l’arroganza sconfinata può far ritenere di poter governare con un pugno di voti di maggioranza, che potrebbero venir meno alla prima occasione senza offrire, dunque, alcuna garanzia di continuità al Paese.
E’ ovvio che se il match parlamentare deve servire solo a dirimere la sfida in atto sulla consistenza delle appendici di Berlusconi e Fini, allora non v’è dubbio che il 14 dicembre un significato lo avrà. Ma è legittimo chiedersi se uno scontro di questa natura sia lecito abbia coinvolto alla fine la tenuta dell’Italia, ancora in fase assai critica se non addirittura traballante, e non sia piuttosto stato il segno inequivoco del disfacimento irresponsabile delle istituzioni e del senso dello stato.
Qualcuno sostiene che lo scontro, alla fine, era inevitabile: è una sorta di gioco tragico a guardie e ladri, dal cui esito dipende la ricostruzione o meno d’un Paese con regole e supremazia della legge, che troppo a lungo è stato inquinato da stomachevoli provvedimenti tesi esclusivamente a mettere al sicuro i poco di buono dalle grinfie degli investigatori. Ma anche questa, per certi versi, appare una giustificazione debole e che dovrebbe far profondamente riflettere qualunque sia l’esito finale. Non basta che qualche complice abbia oggi dismesso i panni da lavoro ed abbia indossato la divisa per dargli la credibilità che ha perso. Sarebbe stato più edificante non avesse mai offerto il suo appoggio, a costo di restare ancora nel ghetto, piuttosto che ritirarlo dopo i gravi danni che sono stati compiuti. Né è cosa saggia fidarsi della caducità della memoria collettiva per rifarsi la verginità.
In ogni caso, mentre s’aspetta stancamente il fatidico 14, un’umanità senza valore, ma in grado con i numeri di condizionare il futuro di milioni di cittadini, continua i suoi baratti, il proprio mercimonio, intrisa com’è della propria pochezza e dell’egoistica convinzione che, al di là di ogni vincitore e vinto, quel che va salvato è il proprio piatto di lenticchie.

domenica, dicembre 05, 2010

Le pericolose resistenze del Caimano

Domenica, 5 dicembre 2010
E’ un uomo politicamente finito e lo sa bene. Ma sa anche bene che la sua fine non potrà che coincidere con la resa dei conti giudiziaria che con mille escamotage dribbla da oltre quindici lunghi anni.
La sua pervicace ostinazione a restare avvinghiato alla poltrona di palazzo Chigi, alimentata anche dalla speranza ormai defunta di salire al Quirinale, sono stati il suo elisir di lunga vita, la droga quotidiana che gli ha permesso di tirare avanti tra pericolosi salti mortali e vere e proprie campagne pubblicitarie sulla sua persona. Contratto con gli Italiani, cartellonistica ammiccante con promesse vaghe di elargire qualche sogno in più a tutti, il martellante utilizzo di slogan autoedificanti in difesa delle libertà contro un inesistente comunismo frutto di allucinate visioni, le nauseanti dichiarazioni sulla capacità di fare a fronte delle indimostrate altrui attitudini solo a far chiacchere, i faraonici progetti di ponti sullo Stretto e le speculazioni meschine su G8 e terremoto dell’Aquila, sono stati alcuni degli innumerevoli sciroppi miracolistici che ha ammannito ai cittadini, convinto che miopi e ciechi abbondassero in questo Paese zeppo di invalidi veri e finti.
E questo Caimano, portatoci in dono da un destino gramo, quest’illusionista maestro delle tre carte, non è stato in grado di calcolare le conseguenze degli scontri che ha generato persino in casa propria, convinto che i quattro ex fascisti che aveva sdoganato fossero disposti riconoscenti a fargli da scendiletto senza mai sollevare obiezioni, forte come si sentiva dei meccanismi di condizionamento dei gangli del potere che aveva costruito nel tempo.
Giornali servi, grazie al controllo garantitosi attraverso nepotistici affidamenti a parenti stretti, televisioni ammiccanti date in mano a fidatissimi amici, case editrici strappate con l’inganno ai concorrenti, monopolio di fatto del sistema della raccolta pubblicitaria per affamare gli avversari, agganci fortissimi in grado di condizionare il mondo economico e finanziario, gli hanno generato la convinzione di poter spadroneggiare a proprio piacimento per la Penisola, certo di poter contare costantemente su una borsa attrezzi fornitissima di strumenti pronti all’uso.
Ma il suo sogno s’è infranto nello scontro con Gianfranco Fini, ambizioso post-fascista confluito nel PdL per costrizione e non certo per scelta ponderata, dopo uno show notturno a piazza S. Babila a Milano, sul predellino d'una macchina. Un Fini che dopo aver fatto buon viso a cattivo gioco, sicuro di riuscire a logorare il Caimano dall’interno e raccoglierne così l’eredità, ha dovuto infine rompere gli indugi e porsi in posizione di scontro aperto con un uomo convinto di poter imporre il suo volere e suoi capricci, a dispetto anche dell’ultimo barlume di legalità, declamandosi prima Unto del Signore, - peraltro stanco anche lui della deboscia cui s’abbandonava persino con qualche minorenne il suo "delegato" in terra, - e poi sedicente prescelto dagli Italiani, grazie ad una legge elettorale truffaldina.
Adesso il Caimano strilla isterico e disperato che l’ex alleato, quel Fini affrancato dal ghetto della destra autoritaria e nostalgica, è un traditore e che la sfiducia che gli ha presentato non avrà seguito, mentre cerca di correre al riparo da questo mortale evento con un mercato di promesse e blandimenti per quanti alla resa dei conti si dissociassero dall’iniziativa dell’odiato ribelle.
Ma anche in questo caso ha fatto molto male i suoi conti. Perché se non sarà sfiduciato non potrà certo dire d’aver conseguito una vittoria: il Paese non si potrà certamente governare con lo scarto dell'eventuale manciata di voti favorevoli che dovesse riuscire ad ottenere. La situazione traballante dell’Italia nel contesto internazionale di riferimento è tale da non poter permettere il rischio di continue imboscate parlamentari ad ogni iniziative che dovesse assumere un governo non sufficientemente forte; né gli alleati, che in apparenza gli sono rimasti fedeli, potrebbero a loro volta rischiare di compromettere i rapporti con il proprio elettorato continuando a sostenere un esecutivo ingessato e logorato dagli scandali crescenti del suo premier.
Adesso il Caimano, dimostrando un’irresponsabilità esemplare è trincerato nel bunker, mestissima figura di novello Hitler restio a capitolare anche nella fase in cui le forze di liberazione già scardinano la porta del suo nascondiglio, in un’assoluta opacità d’idee e di reazione, arrogante al punto da ritenere che il diluvio potenziale dovuto alla sua uscita di scena possa essere evitato solo genuflettendosi e pregandolo di restare. Quasi non fosse lui a dover chiedere scusa ai cittadini per la disperazione in cui li ha cacciati con la sua spocchia e i suoi abusi. Ed è ancora talmente preso dalla sua folle autostima da permettere ai suoi scellerati predicatori, alle sue laide truppe di guastatori, di lanciare proclami e invettive contro i nemici e, addirittura, il capo dello Stato, che nel delirio vorrebbe ancora assoggettato ai suoi umori.
Dice bene chi avverte che in questi momenti si sta giocando una pericolosissima partita per la democrazia, poiché dal bunker il Caimano potrebbe inventarsi qualunque iniziativa, anche la più nefasta, pur di piegare il Paese ai suoi voleri. Ed è per questa ragione che è necessario mantenere alta la guardia contro ogni eventuale tentazione d’imporre nuovamente le infamie che la storia ha cancellato, anche se, a ben ponderare, con il calpestamento di ogni diritto e d’ogni speranza che ha perpetrato durante il suo dominio, il Caimano difficilmente potrebbe contare sull’appoggio incondizionato di quegli apparati preposti alla difesa dello Stato che in più occasioni ha umiliato.
E’ evidente che la storia di Bettino Craxi, - giusto per fermarci agli esempi più recenti, - non gli ha insegnato niente. Quando si rompe l’ultimo filo che inibisce ancora al popolo d’invadere le piazze non sempre ci sono lanci di monetine e invettive, ma talora conseguenze imprevedibili che ribaltano ogni spericolato calcolo, al cospetto delle quali si potrebbe rimpiange amaramente di non essersi tirati sommessamente la porta dietro per togliere il disturbo.

(nella foto d'epoca, un corteo di manifestanti verso Piazzale Loreto a Milano)

sabato, dicembre 04, 2010

Verdini…..ce ne freghiamo di te!

Sabato, 4 dicembre 2010
Il valente coordinatore del PdL, Denis Verdini, rivolto al Capo dello Stato lo dice senza mezzi termini: Napolitano, «Ce ne freghiamo!». Poi aggiunge, quasi a dare un senso alla sua volgare dichiarazione che «il Capo dello Stato, nelle sue prerogative, possa pensare che per risolvere i problemi di questo Paese si mandi a casa chi ha vinto le elezioni, Berlusconi e Bossi, e si mandi al Governo chi le ha perse, Casini e Bersani» è cosa priva di senso. «E su questo si innesca una polemica perché noi andiamo a toccare le prerogative del capo dello Stato. Noi sappiamo che le ha, ma ce ne freghiamo, cioè politicamente riteniamo che non possa accadere questo. Anche i partiti hanno le loro prerogative».
Disquisire su ciò che Verdini considera “prerogative” del suo partito, francamente, ci sembra cosa assai buffa, a meno che non alluda ai comitati d’affari e d’interesse con i personaggi con il quale è inquisito, nel qual caso, la cosa da comica non potrebbe che trasformarsi in tragica.
D’altra parte il più che modesto, - politicamente parlando, perché il quanto a pelo sullo stomaco riteniamo sia in grado di rifornire la Lana Gatto, - coordinatore del PdL non fa che sostenere a nausea la tesi golpista dei suoi camerati e del suo capo: il presidente del consiglio in carica è stato scelto, o indicato che dir si voglia, dal popolo e pertanto la sua caduta non può che implicare il ritorno alle urne.
La tesi non è suggestiva, - come si potrebbe sostenere con un eufemismo azzardato, - ma semplicemente priva di ogni fondamento. Il signor Verdini dovrebbe prima di aprir la bocca e ventilare la dentiera dedicarsi con maggiore attenzione allo studio della Costituzione, che non prevede affatto il meccanismo di cui blatera.
La Costituzione prevede che sia il Presidente della Repubblica che attribuisce l’incarico al capo del governo, il quale ha il dovere di sottoporre il proprio esecutivo all’approvazione del parlamento. E tale prerogativa il Capo dello Stato la conserva sino a quando, a suo insindacabile giudizio, non rilevi che non sussistano più le condizioni per l’aggregazione di una maggioranza intorno a un nome da lui indicato, - evento di fronte al quale non può che sciogliere le camere ed indire nuove elezioni.
Se questa è la regola scritta, incontrovertibile e chiara, non v’è nessun tribuno che possa arrogarsi il diritto di svillaneggiare la Presidenza della Repubblica adducendo misteriose quanto eversive prerogative da riconoscere in materia a singoli partiti politici. Pertanto Verdini, anziché arringare quattro figuranti con discorsi squilibrati farebbe bene a tacere e, semmai, a farsi promotore in ambito parlamentare di quelle riforme costituzionali che dovrebbero servire a legittimare le sue pretese.
«Parole vergognose e di gravità inaudita» - dice il segretario Pd Pierluigi Bersani, che aggiunge - «la squadra di Berlusconi sta perdendo la testa». Da Verdini «uno schiaffo alla Carta, un vocabolario e un atteggiamento di stampo fascista», sostiene il portavoce dell'IdV Leoluca Orlando. «Un'aggressione al Capo dello Stato, alle sue prerogative e alla Costituzione, tipico di un certo estremismo berlusconiano» - afferma il deputato Carmelo Briguglio, capo della segreteria politica di Fli - «se pensano di estendere il metodo Boffo anche al presidente della Repubblica, l'Italia reagirà». Affermazioni «sconvolgenti» e che «non hanno giustificazioni a meno che non fossero state pronunciate sotto i fumi dell'alcool», osserva Roberto Rao, dell'Udc. Parole «semplicemente incommentabili, volgarità politica e istituzionale senza precedenti», dice la portavoce di Api, Linda Lanzillotta, mentre Antonio Satta, segretario Upc, chiede «più rispetto per le prerogative del presidente Napolitano, non è certo è certo Verdini a stabilire che cosa deve avvenire». Infine l'editoriale di Domenico Maso, pubblicato su Ffwebmagazine, periodico online della Fondazione Farefuturo, parla dell'«ennesimo segnale di una deriva che va fermata, arrogante e strafottente, che non ha il minimo rispetto dei pesi e contrappesi che sono alla base del nostro sistema politico e istituzionale».
Insomma, signor Verdini, se c’è qualcuno che se ne frega e segnatamente di te e delle corbellerie che strilli, quello è il popolo italiano, che non può aver alcun rispetto per chi, come te siede su uno scranno parlamentare esclusivamente in virtù d’una imposizioni del tuo nome in una lista decisa dal tuo padrone, senza avere la minima cognizione delle cose di cui parla.

(nella foto, il coordinatore del PdL, Denis Verdini)

giovedì, dicembre 02, 2010

L’eutanasia del capitalismo

Giovedì, 2 dicembre 2010
Islanda, Grecia, Irlanda e la previsione è che a breve anche Portogallo e Spagna, seguite a ruota dall’Italia possano conoscere il cosiddetto default, il collasso delle loro economie a causa del macigno del debito pubblico e della crisi di insolvenza del sistema.
Le vicende in atto, messe a nudo dalla gravissima crisi mondiale, che ha colpito prima il sistema americano e poi s’è rapidamente espansa nel resto del pianeta, non è imputabile ai complessi meccanismi speculativi messi in pratica dagli spregiudicati santuari finanziari di mezzo mondo, ma si rappresenta sempre più come una crisi di modello di sviluppo e di filosofia del capitalismo, filosofia di mercato globale che al primo inciampo non avrebbe potuto non avere come conseguenza un effetto domino, con la messa a nudo delle insufficienti politiche di equilibrio interne alle singole comunità nazionali.
In Europa, poi, gli squilibri interni, sottostanti all’avvio della moneta unica, sono serviti da detonatore all’innesco esplosivo proveniente dagli USA, la cui economia è stata per lunghi anni drogata da una politica ammiccante e scellerata sostenuta dal liberismo guerrafondaio di Bush e del suo governo.
L’Europa dell’euro è nata su basi estremamente fragili, dove Germania e Francia hanno costituito le fondamenta sulle quali si reggeva un palazzo fatto di cartapesta, nei cui piani soprastanti sono state collocate Italia, Grecia, Spagna, Irlanda, Portogallo e paesi le cui economie registravano un divario assai forte. Il risultato di quest’architettura da palafitta ha fatto sì che il primo terremoto di una certa intensità ha fatto cadere i pezzi del palazzo e reso pericolante ciò che ne è rimasto, mentre le fondamenta hanno sostanzialmente retto e, con piccole opere di riparazione, hanno dimostrato di essere pronte a reggere una nuova costruzione. E senza considerare la “follia” recente e prossima dell’inserimento di paesi come Romania, Bulgaria, Lituania, Estonia, Cipro ed altri in predicato, sino alla Turchia e la Serbia, che sembra rispondere più alle esigenze di costituire un blocco militare d’interposizione con l’Oriente e la disfatta Unione Sovietica che una nuova realtà geografica d’integrazione economica e sociale .
Il problema, dunque, una volta tanto non s’è originato dalla base, ma dalle sovrastrutture, i cui materiali non erano adeguati a sostenere un’onda d’urto come quella registrata. L’errore è consistito nel consentire ai paesi ai margini di entrare a pieno titolo in un sistema monetario i cui costi si sono rivelati eccessivamente onerosi.
Questa filosofia costruttiva ha fatto sì che i paesi più deboli e comunque ancora immaturi per il salto di qualità, abbiano dovuto imporre costi altissimi ai propri cittadini, importando in un solo colpo il gap sul differenziale dei prezzi esistente e riducendo così in povertà stremante ingenti fette di popolazione, impossibilitata a garantirsi un livello di consumi come il precedente per effetto dell’automatico e immediato raddoppio dei prezzi dei beni a parità di reddito disponibile. Sul lato industriale, lo stesso processo ha accelerato in modo esponenziale la delocalizzazione delle attività produttive verso aree del mondo nelle quali il costo dei fattori di produzione era e rimane così basso da garantire il mantenimento dei margini di profitto derivanti dalla circolazione dei prodotti finiti.
Il combinato tra delocalizzazione e incremento delle importazioni dai paesi produttori a basso costo di prodotti realizzati fino ad allora in economia, ha segnato in un’inarrestabile spirale il tracollo delle economie nazionali, con incrementi spaventosi di disoccupazione e ulteriore caduta dei redditi.
La diagnosi effettuata dai vari governi nel tentativo di varare politiche d’emergenza per frenare il fenomeno sì è rivelata del tutto esatta. Sarebbe stato necessario varare politiche di sostegno ai consumi per mettere in moto un meccanismo virtuoso di rilancio produttivo. Com’era prevedibile, però, queste iniziative sono rimaste solo sulla carta, confinate nella biblioteca delle speranze, poiché la contemporanea esigenza di falciare la spesa pubblica, fonte di erosione consistente del PIL, ha colpito alla cieca sia la spesa improduttiva che quella in grado di generare effetto alone. La medicina, dunque, s'è rivelata un placebo incapace di curare la malattia.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Un risultato che non è circoscritto ai confini del nostro Paese, ma che con comprensibili sfaccettature diverse colpisce le realtà storicamente più deboli del Vecchio Continente, imponendo una realistica fase di riflessione che deve necessariamente cambiare i meccanismi sciovinisti sui quali s’è basata un’Unione Europea nei fatti del tutto finta.
In primo luogo, sarebbe opportuno un ripensamento dell’euro, che non può continuare a costituire moneta comune di una realtà profondamente squilibrata e che costringe ad ogni stormir di foglie i paesi forti, quelli creditori, a salassare i propri cittadini con oneri che finanziano i prestiti da erogare a quei paesi in procinto d’insolvenza, sebbene questi prestiti servano a garantire la soddisfazione dei crediti che le loro stesse imprese hanno contratto.
In secondo luogo, sarebbe auspicabile il ritorno a meccanismi protezionistici contro l’invasione di prodotti da paesi terzi, che notoriamente praticano dumping sociale per garantirsi la penetrazione sui mercati di quelli sviluppati.
In terzo luogo, occorrerebbe fissare criteri di cambio più credibili sui mercati monetari internazionali, che prevengano un export drogato da prezzi artificiosamente “sgonfiati”. La delocalizzazione selvaggia, in questa logica, è una scelta priva di senso, poiché tende solo a spostare geograficamente e nel tempo un problema di squilibrio sociale e di equità della distribuzione della ricchezza tra capitale e lavoro che prelude solo al suicidio del sistema economico internazionale.
La storia è maestra di vita, o almeno dovrebbe esserlo, pertanto non dovrebbe mai trascurarsi che i più grandi disastri dell’umanità, come le guerre, sono sempre stati figli di tensioni e fratture nel sistema dell’economia. Che poi l’ipocrisia di un capitalismo miope, con il supporto di maestri del pensiero debole, ammanti questi eventi di contrapposizioni religiose, d’irredentismi e di altro pattume ideologico manufatto ad arte, è solo l’inganno di cui amano cibarsi gli sprovveduti.