sabato, ottobre 30, 2010

Berlusconi - Squallido quadro da basso impero

Sabato, 30 ottobre 2010
Anche Confalonieri, il celebre amico di sempre Fedele di nome e di fatto, ha sentito il dovere di dire la sua, costernato com’è del lento e continuo appannamento dell’immagine di Silvio Berlusconi. «Dovrebbe riuscire a mettere a segno un gol alla Maradona per recuperare», ha detto. E c’è da sperare che non alludesse a quello segnato dal Pibe de Oro con la mano nella ormai mitica partita giocata dalla nazionale Argentina contro l’Inghilterra: quello fu un gol propiziato da un fallo di mano e, nel caso del premier, ormai abbiamo la certezza che sì ricorre al fallo, ma non ci mette la mano.
Sta storia del Bunga Bunga è diventato un tormentone, che ci perseguiterà per lungo tempo. Anzi è probabile che assurga a vero e proprio neologismo nel linguaggio giovanile per indicare una delle pratiche universalmente note e antiche come il mondo. Non ci sarebbe affatto da stupirsi se da domani si riceveranno o si faranno inviti a fare Bunga Bunga, che espressi così renderanno la proposta meno pecoreccia e certamente più canzonatoria.
Certo è che la vicenda che vede ancora una volta coinvolto il Cavaliere è a metà strada tra la comicità e la tristezza. E’ comica perché ad oltre 70 anni suonati fa specie che il magico Silvio faccia ricorso a questi fanciulleschi eufemismi per invitare nella sua alcova una compiacente signora o signorina, - se ma sia ancora di moda la distinzione. Fa tristezza prendere atto che l’arzillo inquilino di palazzo Chigi e delle tante ostentate magioni che si vanta di possedere a sfregio del basso profilo e della povertà diffusa dei suoi concittadini per rilassarsi, come ha personalmente dichiarato, abbia bisogno d’accompagnarsi ad implumi Lolite per soddisfare le sue pulsioni.
Ma tutto questo e sebbene qualche sprovveduto o bacchettone lo voglia far assurgere a grave pregiudizio della sua immagine di rappresentante in patria e nel mondo del Paese, sarebbe pressoché irrilevante se non fosse che la vicenda di Ruby, - la giovane marocchina, tra l’altro irregolare e minorenne, - non avesse svelato come nell’esercizio del potere il presidente del consiglio dei ministri commette reati di una gravità estrema.
La storia è arcinota e, dunque, non ci soffermeremo a richiamarne gli aspetti più succosi per gli amanti dell’hard. E’ però inammissibile che un presidente del consiglio, - ma la considerazione sarebbe stata analoga per qualunque ministro o funzionario pubblico in posizione di potere, - tiri su la cornetta del telefono e chieda di parlare con la questura, che ha disposto l fermo di una presunta ladruncola, per chiederne il rilascio spacciandola per parente stretta di un capo di stato estero, nella fattispecie di Mubarak. Non sarebbe cambiato nulla anche si fosse trattato della moglie o della figlia del ben più potente presidente Obama, dato che le norme di legge devono essere applicate indistintamente e uniformemente a tutti gli individui che le violino.
Questo passaggio è lo snodo imprescindibile di una vicenda nella quale sulla base dei propri principi morali, etici e religiosi si potrà anche ritenere di entrare nel merito, ma senza che questi possano mai costituire gli elementi essenziali per rilasciare una sentenza di condanna politica e comportamentale di Silvio Berlusconi.
Ben si comprende che la Chiesa abbia condannato la vicenda, dichiarando a proposito del premier che «La moglie, Veronica Lario, lo aveva già segnalato: uno stato di malattia, qualcosa di incontrollabile. Incredibile che un uomo di simile livello non abbia il necessario autocontrollo». Ma questo è un giudizio che muove da una concezione di moralità che è irrimediabilmente di parte, che si arroga il diritto di promuovere o bocciare chiunque esondi dall’alveo tracciato dalla visione che ha la fede della sessualità, della castità e del rispetto delle regole imposte dal cattolicesimo e dalla relativa percezione del mondo.
A nostro modesto avviso il cittadino Berlusconi nell’ambito della sua vita privata ha pieno diritto di fare ciò che vuole, pur se ricopre una carica istituzionale delicata e rilevante. I suoi comportamenti privati potranno divenire censurabili sul piano dell’opportunità solo quando finiscano per compromettere l’immagine del popolo che rappresenta, quantunque tale censura non possa sicuramente trasformarsi in motivo di impeachment. Ma il disprezzo delle norme di legge, quelle che non consentono l’abuso di potere e d’autorità, quelle che vietano d’accompagnarsi ai minori, quelle che inibiscono il favoreggiamento della prostituzione e lo sfruttamento dei servizi della stessa, per non parlare le norme sul rispetto della fede pubblica, gli obblighi di assolvere gli oneri fiscali e i tanti capitoli sui quali il personaggio non ha certamente dato buon esempio di osservanza, devono essere perseguiti senza sconti e tentennamenti e senza il ricorso a meschini ripari di scudi o illegittimi quanto fantasiosi e strumentali impedimenti.
Un uomo di governo finga di non aver capito quale sia il punto di caduta delle annose questioni che lo riguardano, associando a questa finzione le decine di squallidi servi che lo circondano e lo giustificano, è palesemente indegno del ruolo che ricopre e non merita né rispetto né attenuante alcuna.

(nella foto, Ruby,la protagonista dell'ultimo scandalo che ha coinvolto il premier)

venerdì, ottobre 29, 2010

La Repubblica di Bunga Bunga

Venerdì, 29 ottobre 2010
Pubblichiamo l’esilarante editoriale di Marco Travaglio su Il Fatto quotidiano di oggi, che commenta la scabrosa vicenda nella quale è incappato per l’ennesima volta il premier Berlusconi. I fatti non richiedono commento alcuno!

Lodo Al Bunga

E’ venuto il momento di fondare un comitato di solidarietà per Angelino Al Fano e Niccolò Ghedini. Due giorni fa, già molto provati dalle ottanta versioni del processo breve e dalle novantacinque della legge bavaglio (peraltro finite nel cesso), erano usciti esausti ma felici dalle segrete di Palazzo Grazioli, dopo mesi di duro lavoro, con l’ultima formula magica del cosiddetto Lodo: un algoritmo complicatissimo che non si capiva bene se fosse reiterabile ma non retroattivo, o retroattivo ma non reiterabile, o reiattivo e retroterabile, tenendo presenti la variante Mills, l’equazione Mediaset, la prescrizione Mediatrade, la radice quadra di Fini costruita sull’ipotenusa di Napolitano che produce una spinta dal basso verso Casini diviso Cuffaro moltiplicato Bersani fratto Di Pietro meno Bossi. I due poveracci stavano per esultare con il classico “eureka!”, ma l’urlo liberatorio gli s’è strozzato in gola.
Mentre quelli lavoravano, l’Utilizzatore Finale ci era ricascato con una minorenne, riuscendo a infilarsi in una storia di prostituzione e abusi di potere (vedi telefonata alla questura per far rilasciare la ragazza fermata per furto senza documenti). Tutto da rifare. Ogni volta che gli fabbricano uno scudo su misura e glielo provano addosso, quello si sposta di lato e ne combina un’altra delle sue. Provate voi a scudare un nano in movimento. Aveva ragione B.: non è lui a volere lo scudo, sono Alfano e Ghedini che, non potendone più, sono disposti a tutto pur di tornare a uno straccio di vita normale. Che so, rivedere ogni tanto la luce del sole, riabbracciare i familiari un paio di volte l’anno e soprattutto evitare che mogli e figli li guardino con due occhi così: “Caro, ma davvero hai detto che la storia di Ruby è assolutamente infondata, quando l’ha confermata persino Fede? Sicuro di star bene?”.
Ora Angelino Jolie e Niccolò Pitagorico sono ripiombati in laboratorio per apportare alcuni emendamenti al Lodo Al Nano: la maggiore età è abbassata retroattivamente a 12 anni; proibito ex post trattenere in questura le ladre carine nel raggio di 100 km da Arcore; depenalizzato lo sfruttamento della prostituzione quando appaia chiaro, come nel caso B., che non è lui a sfruttare la prostituzione: è la prostituzione a sfruttare lui. L’importante è che lui si cucia la bocca, altrimenti poi persino Minzolini capisce che non è perseguitato. Ieri invece lo sventurato ha spiegato la telefonata in questura con un meraviglioso “lo sanno tutti che sono una persona di cuore e mi muovo sempre per aiutare chi ne ha bisogno”. Ecco, è fatto così: come possono testimoniare migliaia di ladri, non appena ne finisce uno in questura, B. chiama da Palazzo Chigi per farlo rilasciare. Soprattutto se è di origini marocchine e balla sul cubo. E’ un uomo di cuore e farebbe di tutto pur di agevolare l’integrazione degli immigrati: li inviterebbe persino in una sua villa per un Bunga Bunga, li coprirebbe d’oro e li spaccerebbe per nipoti di Mubarak perché nessuno li infastidisca più.
Massima solidarietà anche agli agenti delle scorte di Fede e B.: forse, quando entrarono in polizia o nei carabinieri, non immaginavano che sarebbero finiti a reggere il moccolo a un anziano latrin-lover. Massima solidarietà soprattutto al ministro degli Esteri Frattini Dry, impegnatissimo in queste ore a rassicurare le ambasciate egiziana e libica sul fatto che quella storia della nipote di Mubarak era solo una battuta, così come quella sui bunga bunga di gruppo attribuiti all’amico Gheddafi. Ieri, per alcune ore, si è temuta la terza guerra mondiale: non bastando gli elogi del Foglio ai vignettisti anti-Islam e le magliette di Calderoli con insulti a Maometto, si rischiavano nuovi assalti ai consolati italiani in tutto il Nordafrica, con rappresaglie Nato ed escalation militari in tutto il Mediterraneo. Solidarietà anche a Bruno Vespa che, sempre sulla notizia, sta precipitosamente allestendo il plastico della piscina coperta di Arcore con dentro le donnine nude, per una puntata speciale di “Porta a Bunga”.

(la vignetta è tratta da www.insertosatirico.com)

lunedì, ottobre 25, 2010

Il treno per Belgrado

Lunedì, 25 ottobre 2010
Probabilmente salterà fuori l’imbecille di turno e ci verrà a redarguire per non aver contestualizzato le affermazioni di Marchionne. E’ un po’ come la bestemmia di Berlusconi, che estrapolata dal contesto in cui è stata detta si presta alle interpretazioni più svariate e negative.
Il signor Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat e noto provocatore, ieri è stato ospite della trasmissione di Fabio Fazio, Che tempo che fa, e ad una delle tante domande del noto conduttore non ha potuto fare a meno di piazzare il piede su una buccia di banana e prendere uno scivolone madornale.
«Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l'Italia» ha affermato un candido quanto arrogante Marchionne, che ha aggiunto «dei due miliardi di risultato previsti per il corrente anno, non un euro proviene dall’Italia». Poi ha ricordato che la Fiat non usufruisce di aiuti dallo stato e che se la posizione del nostro paese è modesta a livello internazionale, sia per efficienza che per competitività, sebbene la colpa non sia dei lavoratori, non si può non tenerne conto.
Le dichiarazioni di Marchionne sono state subito commentate da vari esponenti politici e sindacali. «A Marchionne ricordiamo che l'Italia è il Paese di storico insediamento del gruppo automobilistico, ove ha gli impianti e, soprattutto, un grande patrimonio di esperienze e professionalità», ha detto il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. «Le parole di Marchionne sono ingenerose nei confronti dell'Italia e dei lavoratori che hanno contribuito a fare grande la Fiat», replica Cesare Damiano, capogruppo in commissione Lavoro del Pd. «Marchionne ha la memoria corta sugli aiuti di Stato» sottolinea invece il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli, che aggiunge «Si potrebbe dire che gli Italiani senza la Fiat in questi anni sarebbero stati meglio. La verità è che in questi anni gli italiani la Fiat se la sono comprata già due volte», alludendo agli ingenti esborsi dello stato per sostenere il gruppo torinese, con cassa integrazione, pre-pensionamenti, agevolazioni fiscali, ecc., e in risposta al passaggio dell’intervista in cui Marchionne magnifica il prestito concesso dall’amministrazione Obama, che sarà interamente rimborsato da Fiat-Chrysler. Per il ministro leghista, Marchionne non può «prendere in considerazione solo il suo periodo di gestione» e per quanto riguarda gli incentivi «se crede di riceverne altri se lo scordi».
«Le dichiarazioni di Marchionne sarebbero coerenti se la Fiat restituisse tutti soldi che ha avuto dall’Italia», ha commentato invece il responsabile lavoro dell’IdV, Maurizio Zipponi. «Quella di Marchionne non è sfiducia rispetto all'Italia, ma verso quella parte di sindacato che si dimostra antistorica e contraria alle prospettive di sviluppo economico e industriale», è il commento di Enzo Ghigo, coordinatore piemontese del Pdl ed ex governatore della regione Piemonte. Secondo Giorgio Airaudo, responsabile auto della Fiom, «già dodici anni fa i predecessori di Marchionne dicevano che, grazie alla globalizzazione, gli stabilimenti italiani erano pagati dai profitti brasiliani», mentre infine Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, sostiene che «Marchionne deve evitare di continuare a umiliare i lavoratori e il sindacato».
Ma francamente ciò che infastidisce e nello steso tempo indispettisce delle affermazioni di Marchionne non è l’implicita difesa degli interessi del capitale che rappresenta. In una logica economica di capitalismo diffuso, appare più che giustificato che il responsabile di un’azienda abbia a cuore la remunerazione dei gruppi finanziari investitori e sia portato a sfrondare dei rami secchi la propria organizzazione.
Appare semmai miope un discorso che non tenga conto delle origini della Fiat, del significato storico che ha questa fabbrica per il paese e dei doveri etici che comunque incombono su qualunque impresa nei confronti del territorio, specialmente quando imperversi una crisi sociale ed economica di portata planetaria.
La regola di delocalizzazione che poco velatamente reclama Marchionne, che ha già manifestato l’orientamento di trasferire parte della produzione in Serbia e in Polonia, è del tutto peregrina oltre che di visione limitata. L’ad della Fiat è convinto che la scorciatoia verso paesi che hanno fatto del sottosalario e della destrutturazione dei diritti dei lavoratori una norma di comportamento, i paesi in cui il dumping sociale è regola consolidata, possano risolvere i problemi di sopravvivenza di un complesso industriale. Quest’ipotesi non tiene conto degli innumerevoli meccanismi protezionistici possibili da mettere in pratica quando l’invasione dei prodotti provenienti da questi paesi diviene eccessiva e minacciante.
C’è inoltre da richiamare l’attenzione di Marchionne che le qualità di un vero manager non si misurano solo con la quadratura dei conti, ma anche con l’assunzione delle adeguate misure tecnologiche e d’innovazione in grado di rendere i prodotti realizzati competitivi sul mercato globale.
Se poi Marchionne ritiene che imbarcarsi su un treno per Belgrado costituisca la panacea della fabbrica che dirige, allora che passi avanti lui, ma faccia il piacere d’acquistare un biglietto di sola andata.

domenica, ottobre 24, 2010

Veltroni: il pensiero debole della sinistra

Domenica, 24 ottobre 2010
E’ un fiume in piena, “Uolter” Walter Veltroni, l’ex segretario del PD. Un fiume in piena che deborda nella politica, nella sociologia, nell’economia per farsi portavoce di quella che definisce «una maggioranza silenziosa che si è stufata di questo paese immobile e rissoso e vorrebbe occuparsi di cose serie, che vorrebbe avere un'Italia unita e dinamica, che vorrebbe respirare un'aria di diritti e di doveri».
E secondo Veltroni la tragicità della situazione italiana va ricercata nella crisi dei valori che ha colpito il paese ormai da tempo e che viene costantemente alimentata da una politica incapace di trasformare i bisogni della gente in progetti veri. «Tutti hanno responsabilità in questo. Tutti hanno pensato che i valori fossero roba buona per i poeti e i visionari, e non ossigeno per la convivenza comune. C'è una crisi dei partiti, che parlano solo di se stessi. C'è una spaventosa crisi della scuola, che non riesce a interpretare i bisogni di una generazione figlia di una società frantumata. C'è una crisi terribile della Chiesa: quando ho sentito dire per giustificare Berlusconi da parte di un uomo di Chiesa che anche le bestemmie vanno contestualizzate, ho pensato che forse il processo di secolarizzazione è andato oltre i confini immaginabili. Un paese è anche figlio della sua storia. La rimozione del valore della Resistenza, ormai messa sullo stesso piano di chi aveva continuato l'avventura del fascismo, così come le difficoltà a riconoscere il valore fondativo del Risorgimento e dell'unità d’Italia, raccontano un altro degli elementi di questa cancellazione dei valori».
In questo processo di degenerazione dei valori la politica ha i suoi alleati, i suoi supporter e, allo stesso tempo, i suoi megafoni. L’allusione è diretta al ruolo della televisione pubblica, piegata su se stessa e preoccupata dell’auditel più che della supremazia del messaggio culturale che dovrebbe principalmente privilegiare.
«Quando il servizio pubblico televisivo fa "L'Isola dei famosi" smette di essere se stesso. C’è qualcosa che viene prima della miseria in cui il direttore generale della Rai ha cacciato l'azienda in questi mesi, dando l'impressione di una volontà di normalizzazione unidirezionale. Il servizio pubblico dovrebbe cercare proprio quello che sembra voler cancellare, cioè la diversità dei linguaggi, degli approcci. Non dovrebbe preoccuparsi dell'omogeneità di quello che offre al pensiero di chi momentaneamente governa. Dovrebbe aiutare l’intelligenza collettiva del paese».
Quantunque vada riconosciuto all’ex segretario del PD e sindaco di Roma una notevole capacità di analisi, allargata peraltro alle diverse variabili che si incrociano nei processi complessi di gestione politica, è necessario comunque non sottacere che nella prassi la sua azione se sovente contraddistinta per le vistose lacunosità e incapacità di correre dietro alla realizzazione delle visioni progettuali, facendone di fatto più un intellettuale illuminato che un politico pragmatico e capace di dar corso alle priorità implicite in un qualunque disegno di trasformazione socio-economica di un paese.
In buona sostanza, Veltroni s’è rivelato in più occasione un politico di progetto più che d’azione. E quest’attitudine, certamente non secondaria alle esigenze della politica, si è messa in evidenza quando all’indomani del suo abbandono della carica di primo cittadino di Roma ha dimostrato come il suo governo, contraddistinto da ben due mandati, non avesse lasciato alcuna eredità, alcuna continuità in grado d’essere raccolta dalla sinistra che rappresentava.
Ancora oggi, all’interno del suo partito, Veltroni vive un’esperienza di militanza isolata, incapace di aggregare quel consenso in grado di porsi alternativa ad una segreteria, quella di Bersani, sempre più in crisi di nitidezza, di chiarezza d’idee e capace di porsi quale alternativa d’un paese obiettivamente allo sbando.
Allora, giusto per banalizzare gli approcci teorici che comunque non conducono a nessuna strada maestra, il problema dell’Italia non è confinabile nel «genocidio dei valori» perpetrato impunemente dalla cultura del narcisismo prima e dell’egoismo poi di portata planetaria e interpretato in maniera magistrale da una destra revisionista e, allo stesso tempo, restauratrice di modelli autoritari e disugualitari. La crisi d’identità del paese sta più prosaicamente nell’azione lenta e continua condotta anche dalle parentesi dei governi di sinistra degli ultimi anni, angosciati dalla necessità di accreditarsi nei confronti del potere economico – difficilmente di aspirazione progressista e rivoluzionaria, - che hanno ispirato l’assunzione di modelli economici e sociali disgreganti, in evidente rottura traumatica con il sistema fondante dei valori e della cultura nazionale.
Un esempio su tutti sono stati i provvedimenti rivolti alla cosiddetta liberalizzazione del mercato del lavoro, per paradosso introdotti dal governo D’Alema, cioè proprio dal primo governo che sdoganava la sinistra autentica dal ghetto d’una opposizione sterile e talvolta accomodante. Un paese che storicamente ha fondato i principi cardini della propria identità e della propria sicurezza su un sistema di rapporto di lavoro stabile e continuato, in cui le tutele, magari eccessive, erano state garanzia d’un futuro certo, improvvisamente s’è visto crollare ogni riferimento, ogni speranza, in nome di un modernismo e di una globalizzazione che non richiedevano sicuramente quella tipologia di sacrifici.
Oggi tentare di ricostruire l’identità del paese non è cosa facile e rischia di costituire un patibolo sul quale rotoleranno molte teste prima che possa parlarsi di nuovo modello sociale ed economico. E in un quadro di assoluta confusione, oltre che di caduta verticale della motivazione generale, in presenza di una politica affarista, corrotta e squallidamente opportunistica, con un tasso di fiducia e, quel che più conta, di speranza tendente allo zero, di tutto si avverte la necessità, tranne che di predicatori idealisti incapaci di offrire il loro tangibile contributo alla costruzione fisica del nuovo palazzo. Senza queste premesse, la maggioranza silenziosa non solo non respirerà mai il clima di diritti e doveri cui agogna, ma dovrà continuare a patire nell'ombra in attesa di un nuovo messia.

sabato, ottobre 23, 2010

Il Grande Bordello

Non strepitare, non è certo la prima volta!

Sabato, 23 ottobre 2010

Ci siamo. Anzi, ci risiamo. E’ partita l’ennesima edizione del Grande Bordello, ma i partecipanti non sono diversi da quelli del trash reality precedente, perché pare che al pubblico piacciano e portino agli autori tantissima pubblicità.
Quest’edizione porta il nome di “lodo Alfano 2 – la vendetta” e prevede che l’attore principale, un uomo in fuga dai tribunali e braccato dalla giustizia, oltre che dagli scandali, tenti l’ennesima scalata all’impunità assoluta con un escamotage nuova escogitata dai soliti complici: Alfano, alla sceneggiatura e alla costumistica, Ghedini ai dialoghi, Letta al montaggio, Cicchitto e Gasparri al marketing promozionale, Capezzone alla fotografia e un cast di anonimi figuranti alla claque, ovviamente con la regia di Silvio Berlusconi da Arcore, che nella trash supera persino Woody Allen. Si, perché il grande regista attinge dalla realtà e ne porta sullo schermo la riproposizione in chiave interpretativa. Nel Grande Bordello non c’è invenzione, non c’è fantasia, c’è la grottesca verità di una disperazione senza fine di un uomo che tenta con ogni trucco, ricatto, colpo di mano, imbroglio, violenza ideologica di piegare la legalità a proprio beneficio e poter adagiare definitivamente il “culo nel burro”, - come si conviene con il linguaggio ormai in uso in ogni reality che si rispetti.
Ma questa volta la messa in onda dello spettacolo è probabilmente abortita ancor prima di vedere il piccolo schermo, perché già dai tioli di testa il signor Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica Italiana, - quella vera e che ancora grazie a lui sembra resistere allo sfacelo della legalità e della democrazia, - ha detto un secco no. Un no motivato dal fatto che non solo non intende farsi coinvolgere nella storia, visto che non ritiene di avere alcuna necessità di dotarsi di scudi ulteriori rispetto a quelli già previsti dalla Carta Costituzionale, ma anche dal fatto che a suo autorevole avviso «Il Lodo Alfano contrasta la Costituzione», - come ha scritto a Carlo Vizzini, presidente della Commissione del senato dove il testo del disegno di legge è stato approvato.
Se non fosse per la pietà che stimolano certe osservazioni, ci sarebbe veramente da ridere. La troupe del fuggiasco, infatti, non ha trovato di meglio che gridare allo scandalo, se non addirittura al sovvertimento delle regole costituzionali, poiché la segnalazione del Capo dello Stato «già sarebbe stato irrituale se un presidente avesse scritto, per criticare una legge in itinere, ai presidenti delle Camere. Figurarsi mandarla direttamente a un presidente di commissione. È un'ingerenza incredibile»: ma guarda un po’ che bella lezione di rispetto delle regole viene da un pulpito che abitualmente le calpesta ed è uso farne carta straccia!
E dire che Napolitano segnala senza mezzi termini: «Non posso peraltro fare a meno di rilevare che la decisione assunta dalla commissione da lei presieduta incide, al di là della mia persona, sullo status complessivo del presidente della Repubblica riducendone l'indipendenza nell'esercizio delle sue funzioni. Infatti tale decisione, che contrasta con la normativa vigente risultante dall'articolo 90 della Costituzione e da una costante prassi costituzionale, appare viziata da palese irragionevolezza nella parte in cui consente al Parlamento in seduta comune di far valere asserite responsabilità penali del presidente della Repubblica a maggioranza semplice anche per atti diversi dalle fattispecie previste dal citato articolo 90».
E mentre sulla scorta di queste chiarissime dichiarazioni il destino del provvedimento sembra irrimediabilmente segnato ed infuria la canea, già si mette in moto la macchina per una nuova sceneggiatura, che salvi capre e cavoli e aggiri la questione.
E’ inevitabile, the show must go on!: adesso che ci siamo abituati, come faremmo ormai dopo tantissimi anni a fare a meno del Grande Bordello?

(nella foto, una vignetta di Rainer Hachfeld pubblicata da Neues Deutscheland, che la dice lunga su come ci vedono all'estero)

giovedì, ottobre 21, 2010

Predicare e razzolare........

Giovedì, 21 ottobre 2010
«Signori si nasce ed io lo nacqui, modestamente!» dichiarò l’insuperabile e mitico Totò. Ed essere “signori”, nel senso in cui lo intendeva il compianto principe Antonio De Curtis, cioè uomini di qualità, onesti, retti, credibili e con il senso dell’onorabilità, non è cosa molto diffusa. Peraltro, mantenere quel titolo di merito è assai difficile nella nostra epoca, nella quale sembra si faccia quotidiana e paradossale gara per declassarsi a qualcosa che di signorile ha solo vago riscontro, se non mancanza totale di corrispondenza.
Il grande maestro della letteratura Leonardo Sciascia così scrive nel suo Il Giorno della Civetta «…l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più in giù: i piglianculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre…».
Orbene, la premessa pur se un po’ prolissa ha una sua ragion d’essere, se si considera che lo zoo a cielo aperto nel quale trasciniamo la nostra esistenza quotidiana ci riserva continui momenti di sconcertanti mutamenti, cambiamenti di fronte nei quali saltano gli schemi e il corretto diviene improvvisamente scorretto, il giusto sbagliato, il vero falso e viceversa, come se si fosse a bordo di una trottola che gira vorticosamente facendoci perdere senso del tempo e dell’equilibrio.
Un esempio? Il comportamento dei finiani delle ultime ore in occasione del voto sul lodo Alfano e la concessione dell’autorizzazione a procedere contro i reati commessi dall’ex ministro Lunardi, indagato dal tribunale di Perugia.
Questi “signori”, che oggi costituiscono la componente scissionista del PdL passata sotto l’ala di Gianfranco Fini, hanno lasciato Berlusconi dichiarandosi stanchi di dover subire fra gli altri diktat improponibili sulla giustizia, intesa come sbarramento di fuoco contro l’universale richiesta di trasparenza sull’operato pregresso del premier. Onestà e trasparenza dell’azione della politica e dei suoi agenti, applicazione di regole di giustizia uguali per tutti, senza sconti e scorciatoie lesive dei sacrosanti principi d’eguaglianza sanciti dalla Costituzione repubblicana sono sti gli slogan dei finiani dissidenti.
Un drappello di “uomini” politici che si stacchi dal nucleo d’un partito accusato di lavorare sostanzialmente e pervicacemente per annullare i principi di giustizia e d’uguaglianza, non può che meritarsi il plauso generale, senza per questo doverne condividere l’ideologia. E da questo drappello di “uomini” coraggiosi non ci si potrebbe che attendere che coerenza, una dimostrazione inequivoca e determinata di voler percorrere la strada dichiarata, senza indugi, infingimenti ed esitazioni. Ma quando, invece, alla prima occasione quegli “uomini” compiono atti intellegibili che vanno nel senso assolutamente contrario a ciò che hanno dichiarato e promesso, allora non ci possono essere scuse e giustificazioni: ci troviamo difronte a imbonitori conclamati, imbroglioni di bassa lega, non diversi dai loro precedenti compagni di viaggio, che hanno finto di rompere i precedenti equilibri per ragioni non chiare e, molto probabilmente, inconfessabili.
Né è consentito addurre a questi vigliacche manifestazioni di raggiro della fede pubblica nobili giustificazioni di strategia o tatticismo. E’ noto al mondo che nella fase attuale nessuno intende accollarsi la responsabilità di aver determinato la caduta del governo in carica, poiché potrebbe avere serie conseguenze nell’opinione dei cittadini. Ma persino tale motivazione d’opportunità non può ritenersi ammissibile quando sono in gioco i capisaldi sui quali si è costruito un consenso, una linea Maginot oltre la quale non si sarebbe mai potuto cedere.
Accetti, dunque, adesso Fini e il suo gruppo la condanna di quanti avevano applaudito al suo strappo dal giogo di Berlusconi, di quanti avevano apprezzato il modo traumatico ma orgoglioso con il quale s’era liberato dal tallone della prepotenza berlusconiana e, se ha intenzione di recitare, - stavolta sì, - un pubblico mea culpa, corra ai ripari e dimostri d’essere “signore” e di non meritare la pozzanghera con atti concreti che cancellino la sbandata cui s’è lasciato andare.
Granata, quel Fabio cui bisogna riconoscere la primogenitura del processo di revisione portato a termine dallo strappo di Fini, non ha esitato a dichiarare ieri a margine dei fatti: «Sulla legalità e la giustizia si gioca la partita decisiva, e il perimetro della nostra identità in questi mesi è stato costruito soprattutto su questi temi». E allora «bisogna avere l'onestà intellettuale di riconoscere che il voto al Senato sul lodo Alfano e quello su Lunardi alla Camera ha creato un combinato disposto che ha disorientato l'opinione pubblica e gran parte dei nostri quadri e militanti. Mentre sul lodo, fin da Mirabello, la posizione di Fini è stata favorevole» - ricorda Granata, per quanto non nei termini con i quali è stato licenziato dalla Commissione del senato, aggiungiamo noi - «il voto su Lunardi, pur motivato come semplice richiesta di nuovi atti, è stato un grave errore politico. Auspico l'impegno pubblico e solenne, al ritorno degli atti in aula, a votare compatti a favore dell'autorizzazione a procedere contro il Ministro per i gravi fatti di corruzione che lo vedono coinvolto», ma, ammonisce l'esponente finiano, «anche sul Lodo è opportuna una franca discussione politica per capirne le conseguenze e se comunque posizioni contrarie come la mia abbiano cittadinanza. Noi» - sottolinea Granata - «abbiamo suscitato speranze e nuovo entusiasmo verso l'impegno politico e la possibilità di cambiamento: tutto questo ci dà grandi responsabilità verso chi ci sostiene o semplicemente ci guarda con simpatia».
E questa volta non c’è in gioco l’affidabilità politica, ma le cose più preziose dell’individuo: il vanto di potersi dichiarare “uomo” e “signore”.

(nella foto, il manifesto del Convegno di Futuro & Libertà a Mirabello)

L’inesauribile tristezza del vivere

Mercoledì, 20 ottobre 2010
Ci sono giorni in cui succedono tante di quelle cose contemporaneamente che tentare di commentarle risulta assai difficile. Ci vorrebbero ore da dedicare ai vari argomenti, quantunque il rischio di dimenticare qualcosa non potrebbe dirsi del tutto evitato.
Ieri è stata la giornata del lodo Alfano, del revival della questione immunità di Berlusconi ,che si trascina irrisolta da molti anni e che oramai, a dirla senza ipocrisie, puzza come discarica a cielo aperto. Ma la notizia non è rilevante per il fatto che una Commissione del senato abbia approvato l’obbrobrio in questione, - togliersi dalle scatole questa miserabile peana ossessionante sarebbe oltremodo auspicabile, - ma perché, com’era prevedibile, qualcuno, che bene sembrava aver predicalo negli ultimi tempi, ha finito nella circostanza per razzolare veramente male. Alludiamo al partito di Fini, presente in commissione con un rappresentate, che a quanto pare non ha avuto alcuna esitazione a votare favorevolmente la proposta che stabilisce l’imperseguibilità del premier per qualunque reato commesso anche prima della sua discesa in campo, con buona pace della coerenza con le dichiarazioni fatte ancora qualche settimana fa a Mirabello.
Certo, qualcuno obietterà che trattandosi di legge modificativa della Costituzione i giochi sono ancora tutti da scoprire, visto che una legge di questa natura dovrà passare nei due rami del parlamento con l’approvazione dei due terzi dei suoi componenti, e lì tutto può succedere. Ma la trasparenza e la coerenza non sono optional, né, tantomeno, messaggi in chiave criptata per chi voglia capire.
Rimangono infine le valutazioni e del Capo dello Stato e della Consulta, che non è scontato debbano ritenere legittimo il provvedimento qualora approvato. C’è sempre un artico 3 della Carta, che sancisce un principio d’eguaglianza palesemente violato dal provvedimento in questione.
In vena di caritevoli consigli, suggeriremmo al premier e alla sua squadra di legulei e doberman di non arrovellarsi il cervello in cerca di soluzioni qualora malauguratamente ci fosse in itinere un ostacolo che blocchi l’ennesimo tentativo di farla franca. C’è sempre la possibilità di dichiararsi incapace d’intendere e di volere con relativa interdizione e il dado sarebbe tratto. Sull'argomento aggiungiamo solo che aver tirato per la giacchetta il Capo dello Stato, inserendolo tra le cariche cui s'applicherebbe lo scudo, non è una sciocca foglia di fico come ingenuamente ha voluto interpretare qualcuno: è il prologo d'un vitalizio d'impunità cui si vuol dotare il furbone di tre cotte di palazzo Chigi, nella disgraziata ipotesi in cui riesca pure a farsi eleggere alla presidenza della Repubblica quando, a fine mandato parlamentare, avrà finito di sfasciare del tutto il Paese.
Ieri è stata anche la giornata di Antigua, degli strascichi polemici seguiti ,come preventivato, al servizio della Gabbanelli sul suo Reporter. Sebbene non si comprenda ancora adesso la ragione per la quale il valente avvocato Ghedini reclamasse la sospensione del programma prima della sua messa in onda, se il premier non aveva nulla da nascondere come sembrerebbe accertato, i cittadini hanno ricevuto le più ampie delucidazioni sul presunto affaire: la villa dello scoop è del cavalier Silvio Berlusconi da Arcore, regolarmente denunciata al fisco e acquistata con integerrima trasparenza da una società poco trasparente. Che nella vicenda sia implicata una banca di nome Arner, con sede in Svizzera e filiale a Milano, alla quale sono stati versati i soldi della transazione e che è sotto indagine sia della Banca d’Italia che della magistratura perché accusata di riciclaggio, è cosa del tutto irrilevante e non inficia la trasparenza. Così come non inficia la trasparenza che i principali correntisti della banca in questione siano Berlusconi, suo figlio, Ennio Doris, ohibò, patron di Banca Mediolanum, - che sembra dire implicitamente di non fidarsi neanche di se stesso, - oltre che alcune delle società cui fanno capo i pacchetti azionari delle aziende di famiglia. Peraltro, i conti dei signori in questione non risultano molto attivi, sebbene registrino importi da superenalotto. Saranno spiccioli per loro.
Ma è stata anche la giornata della cronaca di guerra di Terzigno, la discarica campana all’ombra del Vesuvio, dove dovrebbero confluire i rifiuti di Napoli in attesa che i termovalorizzatori, quello esistente e parzialmente funzionante di Acerra e quello in programma, risolvano un’altra annosa questione di monnezza. Stavolta Bertolaso non s’è visto e non vorremmo per prevenire le conseguenze che avrebbe potuto generargli lo stress dei tafferugli. I tagli di Tremonti alle dotazioni ministeriali, presumibilmente anche a carico della Protezione Civile, non lasciano molto margine a massaggi rilassanti post trauma e, dunque, meglio starsene al caldo e non correre rischi.
Sempre ieri abbiamo assistito al grande atto di giustizia pro Cota, governatore del Piemonte vincitore contro la Bresso delle ultime amministrative, sospettato di brogli che ne avevano favorito il trionfo elettorale. Il Consiglio di Stato ha infatti accolto il suo ricorso contro il TAR di Torino, che s’era messo a spulciare le schede elettorali e aveva anticipato che i voti attribuiti a lui non erano del tutto legittimi, e ha emanato un’ordinanza di sospensione del riconteggio, rimandato ad altra data. Tanto è bastato a Bossi per fargli affermare che la democrazia aveva trionfato (ovviamente quella sua, a senso unico) e fargli sospendere la spedizione in Valle d’Aosta alle sorgenti della Dora, dove si era già previsto di radicare le origini della Padania. Chi aveva arrischiato segnalare che la Dora era in realtà un affluente del Po, s’era visto rimbrottare che il Po non sarebbe stato nulla senza l’apporto dell’altro sacro fiume. In ogni caso, grazie al Consiglio di Stato, operazione di revisionismo storico azzerata.
Merita menzione anche l’ennesima scorreria del direttore generale della RAI, Masi, che nell’arco di appena 24 ore ha prima bloccato e poi sbloccato la trasmissione di un programma di Fabio Fazio in compagnia di Roberto Saviano, con ospiti Roberto Benigni, Paolo Rossi e Antonio Albanese, noti ex BR ridotti oggi a più miti consigli, ma rimasti nell’animo nemici giurati dell’ordine costituito e sicuramente di Silvio Berlusconi. La frottola che s’era inventato per bloccare l’avvio del programma e la partecipazione di quegli ospiti era, - udite, udite, - centrata sul livello dei compensi richiesti dagli interessati, considerati insostenibili per mamma RAI, come confermato da un altro porta borse del regime, tale Alessandro Sallusti, che naturalmente ha omesso di precisare che gli scandalosi compensi in questione sono stati il frutto della spirale concorrenziale perversa innescata da anni da colui per il quale è disposo ad azzannare chiunque.
Fortunatamente nella vicenda è intervenuto Garimberti, presidente ectoplasma della RAI, che ha garantito il suo sostegno all'avvio della trasmissione. Chi pensava che Garimberti fosse un fantasma chiaramente s'è sbagliato. In realtà è una discendenza degli gnomi del Reno, che notoriamente portano fortuna come certi numi dell'antichità: tenerne una foto a casa, sopra al caminetto, non fa male.
Ma la chicca più bella ce l’ha regalata Belpietro, il Maurizio nazionale, che dal recinto di Libero, non spreca occasione per dimostrare al mondo e il suo candore deontologico e la sua fede cieca nel padrone che lo porta al guinzaglio e gli passa giornalmente la dose di croccantini Chappy.
In un suo editoriale di oggi sul volantino della propaganda della famiglia Berlusconi, il grande direttore Belpietro ci regala un commento sereno e obiettivo sulla situazione della RAI, che ,a suo autorevole giudizio, oltre ad esser comatosa andrebbe privatizzata con procedura d’urgenza, dato che , - ci spiega, - è divenuta un covo di ribelli sovversivi che si spacciano per giornalisti, ma che nei fatti sono solo servi di una propaganda nichilista tesa a mettere costantemente in cattiva luce le virtù sante e taumaturgiche del suo adorato padrone.
Questi ribelli, ci svela Belpietro, vere e proprie nullità sul piano professionale, vanno in giro con il portafogli gonfio grazie alla pazienza ed alla bontà del divino Cavaliere, che se ne libererebbe volentieri, ma non ci riesce, e dunque li tollera e li paga anche profumatamente. Gli ingrati, ancorché maoisti militanti di chiara fama, non solo attaccano costantemente e vilipendono chi da loro da mangiare, ma non perdono occasione per spacciarsi per difensori di una democratica libertà di stampa a senso unico, di cui invero non avrebbero loro stessi cognizione.
La lista dei sovversivi da purgare è lunga: da Corradino Mineo a Bianca Berlinguer, dal famigerato Santoro a Lucia Annunziata e tanti altri, in ordine che non è dato sapere se di pericolosità a di preferenza. Ma questo è forse il passaggio meno significativo, dato che in buona tradizione SS, quando si fanno le liste, non è necessario guardare all’alfabeto, quanto assicurarsi di avere imbottito a dovere i carri bestiame nei quali deportare gli impuri e i nemici del regime al più vicino forno crematorio.
L’editoriale di questo sedicente giornalista direttore di un foglio subalterno e servo, crediamo non abbia bisogno di alcun commento ulteriore, né può ritenersi, come facilmente si potrebbe concludere per liquidarlo, un illuminato esempio di vomitevole grettezza dell’intelligenza umana., dato che va ben oltre ed esterna un odio irriducibile per chi esprime pensiero dissonante. Naturalmente chi volesse documentarsi, magari per sviluppare un proprio giudizio sulle farneticazioni di cui si parla, potrebbe sempre acquistare Libero, per quanto i rotoloni Scottex si reperiscano a prezzi più convenienti e siano più consoni all’uso cui si intende destinare quella spesa.
Ieri è stata proprio una giornata triste.

giovedì, ottobre 14, 2010

Masi: punire Santoro per punirne 100

Giovedì, 14 ottobre 2010
Come ha osservato qualcuno, se la querelle Santoro-Masi fosse avvenuta in una qualsiasi azienda il destino del primo sarebbe stato probabilmente segnato: un licenziamento in tronco per “atto di grave insubordinazione” e fine della trasmissione. Fiat e Marchionne insegnano.
E’ doveroso precisare, comunque, che anche nel caso sopra detto il provvedimento non avrebbe potuto essere comminato senza il rispetto delle procedure disciplinari previste dai singoli contratti di lavoro e dalle norme della legge 300/70, nota come Statuto dei Lavoratori.
Sarebbe stata facoltà dell’azienda comminare la sospensione cautelare in attesa che l’iter disciplinare facesse il suo corso, ma l’erogazione immediata della sanzione è al di fuori di qualunque previsione, essendo riconosciuto al lavoratore il sacrosanto diritto alla difesa nei tempi e nei modi tassativamente stabiliti.
Questo presupposto è già di per sé un elemento dirimente della legittimità del provvedimento assunto, poiché il mancato rispetto della procedura rende automaticamente nullo, non annullabile, la sanzione comminata.
In ogni caso, le norme disciplinari dicono anche che la sanzione deve essere commisurata alla gravità dell’infrazione commessa e, nel caso in esame, è dubbio che l’espressione - infelice, ma non così volgare e offensiva come vorrebbe accreditare una certa stampa di parte, - di Santoro possa implicare il recesso per giusta causa o grave motivo oggettivo.
Ma nella vicenda in questione l’aspetto procedurale paradossalmente non è preminente, poiché lo scontro tra Santoro e Masi supera la mera problematica disciplinare e s’inquadra nella guerra senza quartiere che il capo del governo ha da anni dichiarato al dissenso, alla critica ed alla stampa che se ne fa interprete. E per condurre questa guerra di pulizia etnica si avvale oggi, come s’è avvalso in passato, di ogni mezzo: dalla minaccia all’interferenza con l’Autorità Garante, agli ordini a stuoli di lustrascarpe e baciapile, collocati persino in posti chiave di controllo e comando, che, rischiando apparentemente in proprio, compiono veri e propri atti criminali di killeraggio nei confronti dei dissidenti pur di raggiungere l’obiettivo comandato.
Questa posizione orami chiara e trasparente del capo del governo è frutto di una situazione che definire anomala nel contesto civile occidentale rende solo parzialmente l’idea. C’è un’annosa e irrisolta questione di conflitto di interessi, che è talmente ramificato da inquinare tutto; c’è una situazione giudiziaria, - che è vera ragione della discesa in campo, - che sta corrodendo il fondamento del diritto e che non consente l’amministrazione del paese, impantanato nelle infinite discussioni su processi brevi, prescrizioni corte e immunità del premier; c’è un uso talmente distorto dei media di cui il capo del governo è direttamente proprietario e di quelli che indirettamente controlla, che subissa l’opinione pubblica con scandali e dossieraggi sugli avversari, al solo scopo di ricattare o trascinarli nel fango, nell’intento di dare del paese una visione di troiaio in cui tutti sono coinvolti e con le mani sporche; c’è un uso dell’informazione controllata teso a distrarre l’attenzione dai guai del capo del governo, stordendo l’opinione pubblica con cronaca nera, gossip e notizie pruriginose di varia specie, che allontanano la gente dalla politica e ne assopiscono lo sdegno per lo stato di totale abbandono in cui vive gran parte della popolazione, oltre che la volontà di reazione.
E’ in questo clima che Masi si scaglia con inaudita ferocia contro un ingenuo Santoro, che perde il controllo e lo manda a quel paese: ha già fallito il tentativo di bloccare la partenza della trasmissione Anno Zero; ha toppato l’operazione di pulizia con Ruffini, rimosso con atto d’imperio e reintegrato dal tribunale del lavoro, e adesso non può permettersi un altro fiasco. Lo stesso direttore, che usa due pesi e due misure, non muove però un dito contro le falsità che blatera in diretta al TG1 Minzolini, - assoluzione e non prescrizione del reato dell’avvocato Mills, - o le omissioni di cui si rende autore il suo burattino su quella rete: è un altro soldato di ventura in forza alla sua truppa e si sa che il cane non mangia un altro cane.
In questo quadro scellerato e drammatico è impossibile, oggi, non schierarsi contro chi vuole imbavagliare notizie e opinioni. Perché l’attacco all’informazione “non conforme” è grave, continuo e sempre più inquietante e Santoro, al di là dei suoi errori, non può essere lasciato solo nella trincea della resistenza, rappresentando un vigoroso baluardo contro quella “normalizzazione” fascista, che un premier antidemocratico e liberticida intende imporre, quasi non fossimo in Italia ma in Birmania.
E che il dissenso di cui si fa interprete Santoro non sia fatto isolato è testimoniato dall’incredibile share che realizza Anno Zero, share che consente alla RAI di contabilizzare imponenti fatturati pubblicitari, con i proventi dei quali vengono pagati anche i lauti quanto immeritati stipendi di Masi e Minzolini.
La decisione di Masi è, dunque, gravissima sul piano del danno economico alla RAI, poiché farà saltare ben due puntate del programma con relativi introiti. E se questo non fosse sufficiente per condannare una decisione spropositata e illegittima, occorre rammentare al direttore generale della RAI che nessuno gli ha delegato il potere di punire, oltre che Santoro, anche i milioni di telespettatori che sono obbligati a pagare il canone ed ai quali per meschino atto di servile arroganza è preclusa la possibilità di seguire Anno Zero, con le vere o presunte faziosità che racconta.
Ma Santoro non è né il primo né l’ultimo di questa allucinante guerra per la restaurazione. Nel fare la lista, - sempre con il rischio di dimenticarne qualcuno, - dei numerosi silurati dal piccolo schermo in omaggio a questa concezione reazionaria dell’informazione, basterà ricordare Enzo Biagi, Daniele Luttazzi, Corrado e Sabina Guzzanti, Carlo Freccero, Giovanni Minoli, Paolo Di Giannantonio, Maria Luisa Busi, Tiziana Ferrario, Piero Damosso, giusto per fare qualche nome. E a conferma della melma che si stratifica a viale Mazzini il consigliere Antonio Verro, il giorno dopo in cui scoppiò il caso della contestazione a Minzolini per la falsa informazione sul caso Mills, affermò: «La Rai dovrebbe chiedere i danni» a chi ha firmato la contestazione al direttore Minzolini, «Il Tg1 cresce negli ascolti dei giovani, fascia appetibile alla pubblicità» e Minzolini è criticato «perché è uno che ha le palle», ovviamente senza specificare dove per decenza. Si badi, è lo stesso Verro che per attaccare Massimo Liofredi, direttore di RAI2 e prossimo personaggio da trombare, non ha esitato a sentenziare: «Avrebbe bisogno di cambiare aria. Rai2 vive solo su Santoro, X Factor e Isola dei famosi, programmi che esistevano prima di lui». Coerenza ha voluto che contro l’idiozia di Masi non abbia assunto alcuna posizione.
Mentre accadono questi fatti dagli sviluppi e gli esiti incerti per le parti in campo, viene comunque da pensare che la cosa peggiore che un regime illiberale possa fare è ad'vvelenare il pozzo della ragione, trasformando anche chi avrebbe torto in qualcuno che, legittimamente, può oggi dire d’essere nel giusto.

(la vignetta è tratta dal sito www.gianfalco.it)

mercoledì, ottobre 13, 2010

Caro Porro c’è un limite a tutto

Martedì, 13 ottobre 2010
Ci parrebbe si sia passato il limite. Non solo quello della decenza, che è fatto meramente personale, - ciascuno ha la sua e la gestisce come meglio gli pare, - ma quello della logica, che non è un optional e può farsene pertanto uso discrezionale. Se i dati di partenza son comuni, logica vorrebbe che le conclusioni lo fossero altrettanto e chi dovesse tirarne di diverse dovrebbe avere il buon senso di fare autocritica e ripercorrere il percorso in cerca dell’errore.
Sul piano pratico, l’enunciato non è di secondaria importanza, poiché conduce dritto al caso Porro-Sallusti-Feltri, che in queste ore stanno ingombrando il dibattito su ciò che costituisce informazione e l’uso strumentale e politico che di quella si fa; ciò che è notizia, con annesso commento, e il suo impiego a fini oscuri di killeraggio o persecuzione per nuocere a qualcuno e compiacere qualcun altro.
La questione sembra porsi oggi, ma in verità è tema di grande attenzione da lungo tempo, dato che le cosiddette campagne di stampa sono sempre state il companatico di tutte le redazioni, non solo per vendere più copie, ma anche per schierarsi pro o contro, con la scusa dell’inchiesta.
Ecco, perciò, che un signore giornalista, Nicola Porro, vice direttore della testata Il Giornale, diretta da Alessandro Sallusti e supervisionata da Vittorio Feltri, ma quel ch’è peggio sfacciatamente al soldo della famiglia Berlusconi, dopo aver massacrato i testicoli a milioni d’Italiani con storie di appartamenti monegaschi nei quali sarebbe implicato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, - attenzione, da qualche tempo in nettissimo dissenso con il capo del governo e, guarda caso, proprietario della testata per la quale lavora, - s’attacca al telefono e chiama il capo ufficio stampa della Marcegaglia per preannunciare un fuoco di fila distruttivo contro la presidente di Confindustria, - attenzione, rea di aver espresso giudizi assai negativi sull’operato del governo.
«Le romperemo il cazzo per venti giorni. Le faremo il mazzo come un paiolo», dice al telefono il signor Porro, anticipando l’uscita sul suo quotidiano fin dal giorno dopo di un dossier con il quale, si presume, saranno rese pubbliche le malefatte dell’interessata, giusto per distruggerne l’immagine e ricondurla a più miti consigli.
Il “pirla”, come affettuosamente l’apostrofa Feltri, non sa d’essere ascoltato e così, quando la minacciosa telefonata diviene oggetto d’indagine da parte della magistratura di Napoli, dichiara seraficamente che scherzava, che le sue dichiarazioni ad Arpisella, capo ufficio stampa della Marcegaglia, estrapolate dal contesto non potevano certo evidenziare il tono burlesco della discussione.
Certo è che da quel momento il povero Porro va in giro per salotti televisivi a cercare solidarietà o a chiedere addirittura l’intervento del Capo dello Stato in sua difesa, con l’evidente intento di stravolgere la verità e capovolgere il suo ruolo da persecutore in vittima.
Peraltro, la vittima non sarebbe lui o almeno solo lui. Secondo l’interessato, la verità sarebbe che, causa una leggerezza verbale, si vorrebbe profittare per saldare i conti sospesi con Il Giornale, che è sempre stato in prima linea nella difesa dell’indipendenza dell’informazione e nella denuncia delle ribalderie senza sconti a nessuno. Peccato che Porro nel sostenere questa suggestiva tesi non abbia usato lo slogan ricorrente sui magistrati comunisti o sulle toghe rosse, che sarebbe apparso poco convincente, ma avrebbe trovato senza dubbio qualche avvinazzato pronto a bersi la colossale fandonia. Tantomeno può reclamare l’assoluzione perché, a suo dire, tutti i giornali hanno qualche scheletro nell’armadio e, dunque, nessuno può permettersi di levar la mano e scagliare la prima pietra: questa morale è frutto di un sillogismo falso e opportunistico, altrimenti e per assurdo sarebbe del tutto lecito legalizzare il furto, considerato che parecchi di quanti ci governano sono stati sorpresi con le mani nel sacco.
Che poi Porro difenda l’indipendenza della sua testata e neghi l’uso distorto e politico dell’informazione che dà ad esclusivo fine di killeraggio e quasi allucinante. Ne sa qualcosa Dino Boffo, già direttore de l’Avvenire e reo d’aver espresso il disagio dei cattolici per i comportamenti non proprio ortodossi e dignitosi del solito Berlusconi, bersaglio di una campagna calunniosa da regime iraniano, costretto a dimettersi schiacciato dai dossier farlocchi di Feltri e soci. Ne sa qualcosa Gianfranco Fini, passato per “concusso”, per affarista immobiliare, nepotista sfacciato e autotrasportatore di cucine, reo d’aver rotto con il sistema zarista del suo compagno di predellino e, dunque, meritevole d’essere trascinato nel fango e nel sospetto.
E chi potrebbe sicuramente affermare che se la penna di Porro non fosse stata fermata dall’intervento della magistratura non sarebbe fiorito un caso Marcegaglia con il letame che si suole accumulare in via Negri 4 a Milano?
A noi non interessa sapere se Porro fosse colpevole o innocente, né se stesse effettivamente scherzando o minacciasse realmente. A noi interessa che cessi l’uso improprio dell’informazione allo scopo di insinuare il sospetto o infangare avversari e nemici, l’uso improprio come grimaldello per ridurre in cattività il dissenso e il diritto di critica.
E visto che la predica di Porro proviene da un pulpito maleodorante e compromesso, vorremmo fargli una proposta che ne accrediti la buona volontà e le intenzioni di riscatto: ci racconti con analoga dovizia di particolari, tignosa precisione ed eventuale sdegno cosa sa delle fortune del suo padrone e dei metodi con i quali ha messo su il suo impero, magari cominciando della miriade di società off-shore di cui si avvale per inconfessabili progetti, società off-shore che nelle lunghe disquisizioni sulla correttezza e la trasparenza di Fini lo hanno costretto a confessare il profondo sconcerto e disgusto.

(la vignetta è tratta da Il fatto quotidiano del 12.10.10)

lunedì, ottobre 11, 2010

Un altro colpo all’economia del lavoro: i “pizza bond”

Lunedì, 11 ottobre 2010
Sono oltre quarant’anni che esistono e hanno innegabilmente consentito un notevole risparmio per le azienda che gradatamente li hanno introdotti. Ma adesso, in tempi di crisi, i ticket restaurant, quei foglietti di valore variabile che mensilmente vengono dati a oltre 2 milioni di lavoratori in sostituzione del servizio mensa, sembrano essere arrivati al capolinea, in quanto nel tempo si sono trasformati nei confronti delle stesse aziende dei boomerang micidiali al punto da incidere negativamente sui loro risultati economici.
Ma per capire occorre procedere con ordine.
Alla fine degli anni ’70 si aprì una guerra senza esclusione di colpi tra le aziende da una parte e il fisco e l’Inps dall’altra. Oggetto del contendere, l’assoggettamento a contribuzione e ritenuta sul reddito dell’equivalente del valore mensa che le aziende erogano al personale dipendente. In pratica, l’Inps sostiene che il pasto consumato in mensa costituisse a tutti gli effetti retribuzione e, in quanto tale, il suo controvalore dove essere gravato di contributi. Sulla scia di quest’approccio rivoluzionario, anche il ministero delle finanze fa sentire la sua voce e chiede che il valore mensa venga assoggettato a ritenuta Irpef, in quanto retribuzione e, dunque, reddito a tutti gli effetti.
Le aziende sono in quegli anni già alla ricerca dell’ennesimo meccanismo che consenta di abbattere il costo del lavoro e la novità cade sulle loro teste come un aggravio insostenibile. Ovviamente, non mancano anche le proteste dei lavoratori. Fino a quando, dopo una lunga trattativa con tutte le parti in causa si perviene ad un’intesa che fissa un valore convenzionale del contributo mensa, al di sopra del quale scatta sia il contributo Inps che la conglobazione nel reddito del lavoratore dell’importo eccedente.
Rimane immutata la questione mense, con i relativi costi infrastrutturali che si trascina per le imprese, che non si risolve con il ricorso alla terziarizzazione dei servizi, ed è proprio per abbattere questa voce di costo che tante aziende decidono di sopprimere il servizio e, al suo posto, di erogare un ticket pasto giornaliero, che il percettore potrà utilizzare dove meglio crede per l’acquisto di generi alimentari.
Il meccanismo è semplice. Le imprese acquistano i ticket, che recano un valore stampigliato. Le società emittenti incassano immediatamente il controvalore dei ticket e rimborsano successivamente agli esercenti il valore facciale dei ticket presentati all’incasso.
Ma nel tempo non tutto fila liscio come s’era immaginato. «Se non troviamo una soluzione in tempi brevi il sistema dei buoni pasto rischia di saltare» dichiara Aldo Cursano, il vicepresidente della Fipe, la potente associazione dei pubblici esercizi che aderisce a Confcommercio. Già oggi, infatti, importanti catene della ristorazione, come McDonald's, non accettano i buoni pasto. Stessa musica per i supermercati a insegna Esselunga, e per alcune grandi cooperative aderenti a Coop. Quanto al colosso francese Carrefour starebbe meditando se continuare ad riceverli o meno. Per la grande distribuzione, infatti, il ticket si rivela sempre più spesso come una fonte di perdite.
«In realtà», accusa Cursano, «ormai i buoni pasto sono diventati una sorta di strumento finanziario. E chi ci rimette sono da una parte i lavoratori e dall'altra noi esercenti». Il sistema entra in funzione in seguito ad una gara indetta da un'azienda e vinta da una società emettitrice di ticket. Quest'ultima per vincere la gara deve offrire un sconto. Ad esempio se il buono ha un valore di 5 euro potrebbe aggiudicarsi la commessa a quota 4 euro. Per recuperare lo sconto la società applicherà una commissione all'esercizio convenzionato dove lo stesso ticket può essere speso. E' a questo punto che un sistema valutato 2,5 miliardi di euro all'anno entra in crisi.
Secondo la Fipe, infatti, la commissione è alta e il rimborso del ticket stesso da parte della società emettenti avviene con un ritardo tale da trasformarsi in un aggravio del 30% per ristoratori e baristi. Insomma, è come se da una parte si dovesse offrire un pasto del valore di 5 euro mentre dall'altra se ne ottengono 3,50.
«A questo punto», spiega Cursano, «il buono pasto si trasforma in una sorta di bond». L'analogia è azzeccata: i ristoratori, infatti, cercano di disfarsi al più presto dei loro ticket, magari usandoli al supermercato per rifornirsi di prodotti alimentari. Oppure girandoli ad altri intermediari, magari non sempre limpidissimi. Si innesca, quindi, una corsa affannosa per non restare con il cerino in mano. Perché tutti sanno che entro la fine dell'anno il ticket dovrà essere messo all'incasso e che il prezzo risulterà sensibilmente inferiore rispetto al valore facciale.
In questo quadro il progressivo irrigidimento dei supermercati che non vogliono continuare a perdere quattrini potrebbe mettere in crisi l'intero sistema. L'aspetto paradossale è che il padrone più occhiuto, quello che con la sua forza contrattuale sta portando il mercato dei ticket al ribasso strappando sconti sempre più consistenti è la Consip, cioè lo Stato, che da solo tratta ogni anno circa 600 milioni di euro di ticket.
Quanto alla soluzione, Carlo Pileri, presidente di Adoc, (Associazione difesa e orientamento dei consumatori) chiede da una parte di difendere il valore del ticket frutto di una trattativa sindacale. E dall'altra di garantire qualità e quantità delle prestazioni offerte a fronte del buono pasto. «Basta con i negoziati al ribasso», conclude Cursano, «se vogliamo difendere il sistema le gare devono vertere sulla qualità del servizio salvaguardando il valore facciale del buono pasto».
Come dire, smetta lo stato di drogare la contrattazione con le società emittenti i ticket, con operazioni al ribasso che finiscono per penalizzare gli esercenti ed innescano, per conseguenza, un circolo vizioso che danneggia gravemente le imprese e i lavoratori: qualcuno prendendo atto che sempre più il ticket restaurant sta progressivamente divenendo carta straccia in mano al portatore non ha esitato a parlare di “pizza bond”, memore della micidiale svalutazione e della successiva insolvenza che anni or sono colpì i titoli di credito argentini.

sabato, ottobre 09, 2010

La Russa e gli sciacalli

Sabato, 9 ottobre 2010
Cosa autorizzi l’animosità del ministro La Russa quando parla di sciacallaggio a proposito della critiche levatesi da più parti sulla presenza militare italiana in Afghanistan non è dato sapere.
Evidentemente al titolare della Difesa, che di sciacalli se ne deve intendere visto che è così pronto a riconoscerli e ad etichettare con questo termine coloro che levano le voci contro l’assurda avventura mediorientale in cui s’è imbarcata l’Italia, dà fastidio che davanti a quattro nuovi morti, quattro ragazzi mandati in missione in terre infide e lontane, ci sia un opinione pubblica stanca di assistere al vano massacro di giovani vite, sacrificate per difendere una patria che non conoscevano, non era la loro e di cui certamente non importava nulla.
Ma lo sciovinismo del ministro conta molto di più della vita dei disgraziati in missione in Afghanistan. Conta molto di più che nei consessi guerrafondai internazionali ci sia qualcuno che gli stringa la mano e faccia omaggio al suo esaltato d’orgoglio riconoscendogli gratitudine per il contributo profuso ad una guerra di cui persino a lui è probabile non importi nulla. D’altra parte lui non è né al fronte né nelle immediate vicinanze dei luoghi nei quali c’è il rischio concreto di restare impallinati e dalla stanza dei bottoni è cosa rilassante fare una divertente partitella a risiko.
Chissà quale sarebbe stata la reazione del ministro se al posto di uno di quei quattro ragazzi ci fosse stato uno dei suoi figli, magari il valoroso Geronimo. Ma la domanda è solo retorica. Il prode Geronimo è in tutt’altre faccende affaccendato, viaggia tra la Premafin di Milano e l’Aci di Roma per assolvere i meritati impegni che gli sono riccamente piovuti come una lotteria sul capoccione e lo stress cui sarà soggetto, sebbene di natura diversa, ci si può giurare sopra, sarà del tutto pari a quello che subiscono i giovani in divisa che scorrazzano per i deserti afghani a caccia di terroristi armati. E rischi non sono diversi, beccarsi una pallottola o saltare su una mina non s’equivale all’alea di un qualunque volo aereo da Milano a Roma e viceversa?
Ogni professione implica rischi cui è difficile sottrarsi, lo testimoniano gli edili e i tanti morti sul lavoro, che non saranno in guerra con tanto di moschetto e baionetta, ma ci lasciano le penne come le mosche sotto lo spray insetticida. E lì non ci sono talebani, ma spietati padroni assassini, che pur di risparmiare qualche centesimo se ne fregano della sicurezza.
Ma questi sono morti di seconda categoria, non fanno notizia, non difendevano la patria o il prestigio d’un ministro. Per loro un ipocrita cordoglio senza funerali di stato, che dato il numero costringerebbe l’attento Tremonti a chissà quali vigorosi giri di vite sulle spese di ceri e corone gravanti sul bilancio dello stato.
Dunque, chi critica e reclama il rientro definitivo delle nostre truppe è uno sciacallo, mentre chi si costruisce da una comoda poltrona e dietro ad una suntuosa scrivania visibilità e potere è un eroe, uno cui il cuore rischia di frantumarsi ogni momento per la trepidante ansia con la quale segue le vicende e i rischi di quanti ha inviato ad impartire in armi raffinatissime lezioni di democrazia a quattro selvaggi senza morale e religione.
Sembra quasi di risentire le folli eresie di quel miserabile signore in fez, che pur di dimostrare la virilità esibiva i testicoli al mondo, sterminando beduini e a minacciando di spezzare le reni agli Inglesi, salvo poi doversi dare alla fuga e finire attaccato per i piedi esposto al pubblico ludibrio.
Davanti a queste ridicole esibizioni di autoesaltazione e di disprezzo per la pelle altrui, ci si rende conto di quanto sia diffuso il vezzo di professarsi gay ostentando le terga altrui.

(nella foto, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, che non è chiaro se sia stato colpito da un colpo di sonno o dalla disperazione per le ennesime morti di soldati italiani innocenti in Afghanistan)

venerdì, ottobre 08, 2010

I campioni del nepotismo

Venerdì, 8 ottobre 2010
Parlando di clientelismo, quello nepotistico in particolare, non si sa bene per quale motivo la mente effettui una rapida associazione tra il viso di chi, in posizione di potere, si dedica a questa pratica antica, - tanto antica da non essere ancora in grado di stabilire se sia nata prima dell’altrettanto remota pratica del meretricio, - e un altro apparato del corpo umano, collocato immediatamente sotto la zona lombare e che serve per assumere senza traumi ossei confortevoli posizioni di riposo su sedie, poltrone e oggetti simili. Il nepotista, infatti, si individua per la netta corrispondenza tra viso e l’apparato descritto, che adopera disinvoltamente al posto del primo, grazie all’inespressività del secondo, per celare ogni emozione innescata dall’essere smascherato, colto sul fatto, sorpreso ad abusare della sua posizione di potere per finalità non propriamente “istituzionali”.
Sebbene clientelismo e nepotismo vengano generalmente associati a pratiche di malcostume assai prossime, avendo l'una per oggetto favoritismi più o meno disinteressati ad amici ed amici degli amici, mentre l'altra la sfacciata elargizione di favori d’ogni genere a parenti prossimi e lontani, in realtà si tratta di cose abbastanza diverse, poiché il clientelismo ha come finalità la creazione di condizioni ideali per inescare uno scambio di reciproci favori, in una sorta di concussione impropria, talvolta solo potenziale. Nel secondo, caso il nepotista è mosso da “teneri” motivi familiari ispirati da commovente pietà per le condizioni d’un congiunto sfigato e, dunque, si prodiga, oltre decenza e dignità, per sistemarlo da qualche parte, persino conscio di sfidare lo zimbello, oltre che altre conseguenze più serie in qualche caso, quando la sua azione dovesse essere scoperta. Il nepotista, dunque, ha solo un obiettivo immateriale, un tornaconto sentimentale provenientegli dalla gratificazione d'aver compiuto un'azione samaritana senza scopo di lucro.
Quantunque non si possa parlare di vera e propria patologia, non v’è dubbio alcuno che le pratiche in questioni sono immediatamente correlate con lo status di politico del soggetto agente, e chi ritenesse che queste devianze fossero state vinte con la scomparsa dell’arrogantelle prima repubblica, non sa quanto si sbagliava, poiché a terzo millennio inoltrato e sotto il segno di un berlusconismo sbruffone e bugiardo clientelismo e nepotismo imperversano indomiti e persino più diffusi, sebbene non sempre emergano alla luce del sole, grazie allo sfilacciamento dei valori etici e morali cui questa nuova ideologia sembra portatrice.
Qualche esempio? Il reumatico Bertolaso, bisognoso di periodici massaggi rigeneranti, che insedia il cognato disoccupato in posto di prestigio nell’ambito delle opere di recupero della Maddalena per il G8 mai tenutosi in quel luogo, in barba ad una selezione che tenga conto di attitudini, professionalità comprovata e, visto che si parla di cosa pubblica, di un qualche concorsino di puro maquillage, magari truccato, per imbonire i soliti comunisti pronti a contestare la trasparenza e la legittimità di quell’arruolamento.
Un boiardo d’alto rango, peraltro sodale di Bertolaso, che svende favori e lavori a man bassa ad amici e conoscenti, pur di garantire la carriera al figlio guitto di terz’ordine
E il signor Gianfranco Miccichè? Sulla scorta delle ribalderie dei compagni di merenda, - ma non si sa bene chi porti i formaggini e il pan carré, - non trova migliore occasione per sistemare il fratellino con tanto di diploma d’acconciatore in una posizione di supertecnico superpagato, con il compito di esaminare i lavori per la costruzione della scuola dei Marescialli a Firenze, realizzata con soldi pubblici. Ovviamente avrà valutato che in certe funzioni bisogna avere l’attitudine a fare pelo e contropelo, e chi meglio d’un provetto barbiere si sarebbe trovato a proprio agio in un ruolo del genere?
Poi c’è Bossi, il profeta della trasparenza e dell’onestà, che pur di salvare dalla disoccupazione eterna quel prodigio di suo figlio, non esita a metterlo capolista a Brescia per spedirlo a spese dei rincoglioniti che votano Lega in consiglio regionale, con tanto di principesco stipendio. Così la Trota, come il buon Umberto, cuore di babbo, chiama il rampollo di casa, ha una sistemazione per la vita dopo una più che disastrosa carriera scolastica durante la quale aveva manifestato la pasta di cui era fatto. Per onor di verità, il patriarca leghista aveva già stigmatizzato dli scarsi risultati negli studi del figlio e ne aveva attribuito la colpa agli insegnanti terroni cui era stato affidato il povero cucciolo. Tuttavia non ha mai chiarito se era il figlio il vero tonto o fossero i docenti che, nel parlare l’italiano, si esprimevano piuttosto in un idioma sconosciuto al rampollo, uso ad esprimersi con suoni gutturali d'origine celtica.
Ma, ultimo in ordine di tempo, ecco arrivare il prode ministro della Difesa, Ignazio La Russa, - che d’ora in poi passera alla storia come ministro della difesa degli interessi suoi.
Complice Maria Vittoria Brambilla, ministro del turismo per meriti oscuri e detta “mocio vileda rosa” per la fattezza della capigliatura vagamente somigliante al noto utensile diffuso tra le massaie, s’è visto nominato, senza aver esercitato nessuna cortese pressione, il figlio Geronimo ai vertici dell’ACI, probabilmente in virtù della notevole esperienza di guida maturata a bordo della sua Audi A3 e niente più. E’ vero, il giovane La Russa ha un curriculum di tutto rispetto: frequentazioni con Barbara Berlusconi, Paola Ligresti, Francesca Versace, Lucia Scajola, Micol Sabbadini, oltre che qualche starlet del programma culturale Grande Fratello, vedi Monica Ravizza, e poter vantare di aver scorrazzato sulla propria autovettura personaggi di cotanto rango per poi restituirli illesi ai rispettivi genitori deve aver pesato in modo determinante ai fini del suo incarico all’ACI. Certo, al suo attivo vanta una forte esperienza di membro del CdA della società capogruppo dell’impero Ligresti, incarico acquisito, sempre per competenza inoppugnabile in materia di finanza, assicurazioni ed edilizia, con l’eredità lasciatagli dal nonno Antonino. Insinuare che il giovanotto abbia acquisito il nuovo incarico perché figlio del potente Ignazio sarebbe del tutto fuori luogo, anzi qualificherebbe chi insinua come il solito maldicente di sinistra.
Comunque, il rampante Geronimo in questa lampante manifestazione di opportunità aperte a tutti i giovani di talento non è solo, essendo stato nominato in compagnia di altri due grandi professionisti del settore, tali Massimiliano Ermolli, figlio dell’arcinoto amico e prezzemoloso consulente di sua eminenza Silvio Berlusconi, e di Eros Maggioni, oscuro odontotecnico di Calolziocorte, di professione fidanzato del Mocio Vileda Rosa.
Naturalmente chiedere alla ministra conto e soddisfazione di queste nomine e dei criteri che sono stati utilizzati, sarebbe una pura perdita di tempo. In primo luogo perché solo porre la domanda evidenzierebbe un animus comunista, notoriamente inviso all’interessata. Secondariamente, perché si costringerebbe la poveretta ad una imbarazzante arrampicata sugli specchi pur di dimostrare quelle nomine come il segno di una volontà del governo, cui miracolosamente fa parte, di voler creare opportunità anche per le nuove leve, creando le condizioni per un ricambio generazionale. Ed essendo la brava donna avvezza ad indossare vertiginose quanto pruriginose minigonne, l’esito dell’arrampicata potrebbe imbarazzare anche colui che ponesse il quesito. In ultima ipotesi, ci si potrebbe magari sentire ribattere che si tratta di ragazzi promettenti, con una buona radicazione nei ceti che contano e che il successo dell’attività di un’impresa e dell’azione di un’istituzione è anche frutto del network personale che si è in grado di gestire: come dire, i tanti giovani disoccupati restano tali perché frequentano anonimi ragazzi come loro, non hanno ascendenti che contano e vivono in quella normale e piatta mediocrità che non fa merito. E se questi sono i plus dei delfini La Russa ed Ermolli, non è neanche opportuno inquisire sui requisiti premianti dell’odontotecnico Maggioni, di professione fidanzato. E che a buon intenditore bastino poche parole.
Scrive un lettore del blog di Franca Rame, c- he per prima s’è interessata a questa inqualificabile azione di plateale nepotismo, - a quanti sdegnosamente hanno criticato le nomine: “Ma è possibile che in questo paese, qualunque cosa faccia il governo Berlusconi non vada mai bene?
Ad Antonio, - questo il nome dello sprovveduto commentatore, - bisognerebbe rispondere che non è affatto vero che qualunque cosa abbia fatto il governo Berlusconi non vada bene. E’ piuttosto che questo governo non ha ancora fatto l’unica cosa per la quale si meriterebbe l’immenso plauso degli italiani per bene, quelli onesti, senza intrallazzi e conti sospesi con la giustizia, quelli che sgobbano e pagano le tasse, quelli che vedono i propri figli marcire nell’ozio forzato o si prostituiscono per quattro spiccioli in ruoli umilianti e precari: andarsene fuori dalle balle con tutti gli spregevoli ipocriti di cui si circonda.

(nella foto, Geronimo La Russa e il suo mentore, Maria Vittoria Brambilla, ministro del turismo)

lunedì, ottobre 04, 2010

Lettera virtuale di un (ex) operaio a Berlusconi

Lunedì, 4 ottobre 2010
Caro Presidente,
sono un operaio senza lavoro, lavoro che ho perso dopo un lungo periodo di cassa integrazione, che non ha evitato però che l’azienda effettuasse una ristrutturazione, - come si dice in gergo tecnico, - per far fronte alla situazione di gravissima crisi in cui diceva di versare e mandare a casa dieci dipendenti. Così, a 56 anni d’età e 36 anni di contributi, mi ritrovo senza lavoro, senza un reddito, una moglie, due figli ancora in cerca di prima occupazione e, cosa ancor più grave, senza alcuna speranza di uscire dal tunnel nel quale involontariamente sono stato cacciato, visto che l’età anagrafica non mi permette di confidare nella possibilità di trovare una nuova occupazione.
Non ho nemmeno il conforto di sperare nella pensione, speranza che m’ha ucciso Maroni, - ma le confesso che al tempo in cui fu fatta quella prima riforma lavoravo senza pensieri e mi sembrava persino giusto, - e sepolto Prodi, che ha preso per i fondelli i lavoratori con la promessa di rivedere il maledetto scalone, - ma s’è inventato gli scalini, come un geometra di terz’ordine, - che il suo ministro Sacconi ha pensato bene di alzare di qualche centimetro, senza che i “paladini del proletariato”, Bonanni, Angeletti ed Epifani abbiano mosso un dito.
Lei mi dirà che da questi personaggi c’era d’aspettarselo. O meglio, c’era d’aspettarselo dalla CGIL, perché sia la UIL che la CISL hanno invece dimostrato quel senso di responsabilità che i “rossi” non possiedono e, dunque, non hanno mosso un solo dito, per connaturata insipienza e propensione a fregare i lavoratori con grandi discorsi e pochi fatti.
Per quanto mi riguarda, non sono mai stato un iscritto alla CGIL, ma debbo confessarle che allo stato delle cose non condivido affatto il “senso di responsabilità” di CISL e UIL , non fosse perché il disoccupato sono io e il miraggio della pensione è adesso svanito anche me, per ragioni d’età e di contributi che non so più come racimolare.
Non ho neanche il conforto che i miei due figli, disoccupati anche loro, ma con tanto di laurea conquistata a prezzo di durissimi sacrifici di tutta la famiglia, possano contribuire al sostegno di casa, perché sa bene che lavoro non se ne trova e, se per caso viene fuori quella che qualcuno con una vera bestemmia chiama “opportunità”, si tratta di lavoretti precari e spesso in nero: call center, vendita di prodotti assicurativi, assunzioni a progetto e così via, che non offrono alcun futuro e finiscono spesso per mortificare chi accetta solo per disperazione.
L’unica risorsa che possiedo è la casa, un modesto appartamentino di tre locali con servizi, comprato con un mutuo fortunatamente finito, tenuto in condizioni dignitose da quella santa donna che condivide la mia disperazione e che ho sposato tanti anni fa, ma che è nel degrado del Giambellino, che non devo certo illustrare a lei che è di Milano. Ma in ogni caso, non penso di liberarmene per poter sopravvivere, perché dopo l‘unico posto in cui dormire sarebbero le arcate dei Navigli o i corridoi della Centrale, fra i tanti barboni, visto il prezzo degli affitti qui a Milano.
Eppure, caro Presidente, sono un suo elettore, uno che ha votato convinto che lei potesse cambiare l’Italia e dare a me, come ai tanti che l’hanno scelta, quel benessere e quelle certezze che ci aveva promesso e da troppi anni ci mancano. Invece, niente è cambiato in positivo, ma tante cose sono peggiorate, a cominciare dal lavoro che, con la scusa della crisi, è venuto a mancare mentre il costo della vita si è fatto insostenibile.
Ho seguito in questi giorni i suoi interventi sia alla Camera che al Senato per richiedere la fiducia dopo il voltafaccia di Fini e i suoi e debbo dirle che mi ha particolarmente colpito il suo aneddoto sull’intervento che dice di aver fatto su Obama all’indomani del fallimento della Lehrman Brothers. Lei ha raccontato di aver passato un’intera giornata con Il Bello e Abbronzato, come lo ha definito scherzosamente, per convincerlo a mettere in gioco ben 700 miliardi di dollari per sostenere l’economia americana e, di riflesso, quella mondiale. La cosa m’ha fatto immensamente piacere, sebbene mi dispiaccia che non abbia avuto lo stesso potere persuasivo su Tremonti, che non ha esitato a tagliare spesa sociale e pensioni, mandando così un chiaro segnale che a pagare le crisi sono sempre i più deboli. A questo proposito mi verrebbe da chiederle perché non sia stato usato lo stesso metro nei confronti degli evasori conclamati, che hanno invece goduto di un tappeto rosso per far rientrare il frutto dei loro reati in Italia grazie allo scudo fiscale.
Queste scelte, caro Presidente, non hanno alcuna giustificazione e le sue parole, sistematicamente contraddette dai fatti e dalle azioni dei suoi ministri, mi fanno sorgere il dubbio che per quanto i suoi detrattori non siano stinchi di santo abbiano ragione quando dicono che lei sta nel posto che occupa solo per curare i fatti suoi, - vedi l’interminabile guerra ai giudici, le infinite storie sui provvedimenti per non farsi processare, e non ultimo il grandissimo regalo che s’è fatto con la vergognosa vicenda Mondadori, - possibilmente con qualche favore a chi sta già bene, giusto per rinforzare l’amicizia e ottenerne l’appoggio, e qualche goliardata populista alla gente, che preferisce i simpatici ai predicatori gigioni come Bersani o Casini.
Se ciò che comincio a sospettare non dovesse corrispondere a verità, la prego di smentirmi, ma non con le chiacchiere, ma con provvedimenti veri, che ripristinino il diritto al lavoro e ad un’esistenza dignitosa a quanti sono in procinto di perdere il posto o l’hanno perso come me o ai tanti giovani che non trovano occupazione o sono costretti a prostituirsi per quattro miserabili soldi con occupazioni precarie e senza futuro. Non consenta alla Gelmini di pensare solo alla scuola dei ricchi, ma le rammenti che l’istruzione è un diritto irrinunciabile per tutti i cittadini. E se quest’è vero, non può tagliare classi, imbottendo quelle restanti di 35 alunni, lasciando a casa migliaia d’insegnanti per risparmiare sui costi dell’apparato. Richiami piuttosto, che so, Bertolaso affinché si faccia qualche massaggio in meno o qualcuno che usa l’auto di servizio con tanto d’autista pagati dai contribuenti per fare scorrazzare figli, mogli e amanti. Pensi al degrado della rete stradale e ferroviaria della Calabria o della Sicilia, invece di investire in progetti faraonici di ponti sullo Stretto, che quando ultimati serviranno solo a rimpinguare le casse di chi ne avrà la gestione, dato che i pedaggi sono previsti esosi e la gente comune continuerà ad utilizzare i traghetti della Caronte. Nel frattempo la gente è costretta per muoversi su strade che è già un complimento chiamare tali, dove da decenni non compare una pala o un piccone e un camion di bitume per fare la normale manutenzione. Forse son cose che le sfuggono, visto che lei si muove in Lombardia di preferenza e, se va altrove, usa aerei ed elicotteri, che le evitano di prendere atto degli immensi disagi che subisce chi ogni giorno è costretto a muoversi per le strade della Campania, della Puglia, o della dimenticata Sardegna. Io ho parenti al Sud, - grato se vorrà non dirlo a Bossi, - e in quelle rare occasioni in cui le finanze me lo hanno permesso e sono andato a trovarli mi son reso conto che sarebbe stato doveroso fare testamento, considerato che sai quando parti ma non se o quando torni.
Io, nonostante tutto, caro Presidente, continuerò a sperare e a sostenerla, ma non vorrei che tanta gente con quest’andazzo insopportabile perdesse la fiducia che io invece ancora conservo e, alla fine, delusa e indispettita, desse sfogo alla rabbia repressa che ha accumulato dentro per troppo tempo e le si rivoltasse contro.