giovedì, settembre 29, 2011

Ma Provenzano si chiamava Bernarda?

Giovedì, 29 settembre 2011
Finalmente s’è concluso l’ennesimo tormentone nazionale, l’ennesimo spaghetti-giallo che ha visto per parecchi mesi un bravuomo senza macchia perseguitato dall’odio mediatico e dal livore di avversari incarogniti, forti dell’appoggio di un pugno di magistrati sediziosi e di falsi pentiti di mafia – ma che sarà poi ‘sta cosa? – con velleità di protagonismo televisivo.
Era successo già a Mannino, quel Calogero accusato ingiustamente e poi tardivamente assolto, a Dell’Utri, i cui peccati sono stati la frequentazione di stallieri in cerca d’occupazione e il trasporto di uno smoking nel bagaglio a mano durante una gita di fine settimana a Londra, oltre ad un’amicizia storica con Silvio Berlusconi. Era successo a Totò Cuffaro, uno dei pochi a pagare il clima neo-maccartista radicatosi in Italia, e purtroppo non sarà certo l’ultimo episodio di caccia alle streghe che coinvolge e coinvolgerà la casta politica nostrana. C'è un certo Vizzini in stand-by di cui si sentirà parlare ancora.
Fortunatamente Saverio Romano, ministro dell’Agricoltura del governo in carica e specchiato cittadino, ce l’ha fatta. Giustizia ha trionfato e, pertanto, per volontà del parlamento, in cui siede il fior fiore dell’onestà patria, non dovrà dimettersi per gli infamanti quanto fatui sospetti di contiguità con la malavita organizzata.
Il senso di questa tragedia mancata è oggi su tutti i giornali, testimoniato da quel tenero abbraccio liberatorio tra l’innocente ministro e il suo boss – e che non si travisi il termine! – Silvio Berlusconi, seguito al voto contrario dell’assemblea parlamentare, che ha bocciato senza appello il vile tentativo d’insinuare nella coscienza degli Italiani che sono governati da poco di buono espressione di poteri occulti, persino sanguinari.
A dare una mano – ma sarebbe il caso di parlare di manforte – al ministro-vittima l’uomo più buono del mondo, quell’Umberto Bossi che da sempre ha nel cuore la giustizia e il bene del Paese, dall’Alpi a Capo Passero, da Lisert a Ventimiglia, senza distinzione alcuna di razza, religione e condizioni sociali delle genti che abitano quei luoghi ameni. E’ lui che con determinazione ha dato imperativo ordine ai suoi picciotti, a quelli della Lega, di votare contro la mozione di sfiducia presentata dai ribaldi dell’opposizione, per inibire un epilogo tragico a tutto l’esecutivo, al quale la caduta di Romano – e già il nome sul boss del carroccio deve aver esercitato un certo magnetismo – non avrebbe avuto alternativa alle dimissioni.
Umberto Bossi, il cui nome come s’è sospettato per qualche tempo non è derivato da quella bella pianta seminana usa ad adornar giardini e parchi, ma dal termine inglese boss, capo, condottiero, l’equivalente di mammasantissima in certe realtà, che tutto sa, tutto pensa e dispone per l’indiscusso bene dei suoi adepti, siano essi parenti che discepoli, di qualunque colore ed estrazione. E’ lui che ha deciso dall’alto della sua infinita saggezza di salvare Romano, uomo a cui peraltro doveva riconoscenza per aver chiuso un occhio – non per prendere la mira, come potrebbe insinuare qualche irriducibile velenoso – sulla questione del latte e delle multe comunitarie a carico dei vaccari cispadani: come si suole dire nelle tante bettole della provincia lombarda e veneta, tra un ombreta de vin bun e una correzion in parte, “una man lava l’altra e insieme lavano il culo”.
Poi, per chi non lo sapesse, il braveheart di Cassano Magnago non ce l’ha mai avuta su con i terroni, che ama smisuratamente e delle cui tradizioni è profondo ammiratore. Lui stesso adora esprimersi in vernacolo siculo quando gli è possibile e lo stesso gesto del dito medio ostentato in segno di disprezzo è un modernismo importato d’oltre oceano – l’esotico è così di moda! – con il quale ha inteso rendere universale il suca!, ben più grezzo e provinciale in uso da millenni alla Kalsa o alla Vucciria di Palermo.
Meno male che c’è Bossi e sua Lega, in buona sostanza, a far da termostato ai bollori del Paese. Immaginarsi un Italia senza di lui, con le gag sulla secessione, sulla Padania e i rituali sul Po dei suoi pescatori d’anguille sarebbe una tristezza immane in quest’epoca di crisi attanagliante, in cui sorridere è diventato un lusso per pochi eletti, tant’è che è già allo studio una patrimoniale ad hoc. In ogni caso, proprio per confermare l’universalità dell’ideologia leghista, già dal prossimo anno la pantomima periodica dedicata al Po si svolgerà a turno sul Sele, sul Simeto o sul Tirso, cancellando così ogni polemica sul regionalismo bieco cui s’accusano i sanculotti guidati da Calderoli e da Castelli.
Tornando a Romano, dice bene il premier Silvio Berlusconi – uomo bersagliato dalla sorte avversa e braccato dalle procure golpiste di tutt’Italia – che è ora che s’indaghi sulla magistratura tramite un’apposita commissione d’inchiesta. Non è pensabile continuare a svolgere una sana azione di governo con la spada di Damocle di attentati nell’ombra orditi da procuratori senza scrupoli in vena di sabotare l’ordine costituzionale. Lui farà anche il presidente del consiglio “a tempo perso”, ma il voto dei cittadini ha sancito che va bene così e che il suo profumo preferito sia l’eau de patonce o la broegna aftershave o passera dream sono affari che non possono riguardare la stampa malevola, né giudici invidiosi, né moralisti in abito talare disattenti ai peccati gravi che si consumano in casa loro. Che la Brambilla porti il reggicalze o indossi un tanga non è cosa che infici la credibilità del governo, così come non lo sono il cedimento al Bocchino della Carfagna o, men che meno, qualche goliardica conversazione scambiata con l’illustrissimo signor Tarantini, noto animatore professionale d’eventi ed amicone di un certo Lavitola, amico al punto da concedergli di giacere con sua moglie: forse per una cosa del genere si dovrebbero mettere in galera tutti gli Eskimesi, che com’è noto, seguono la stessa pratica per puro senso d’ospitalità? Forse i peccati, tutti da dimostrare, di Tarantini e Lavitola debbono ricadere sul capoccione di un eroe, che ha messo in secondo piano i propri interessi pur di fare il bene dello stato? Che colpa mai ha lui se Bertolaso o Verdini o Scajola o Lunardi o Dell’Utri o Previti o non-so-chi-altro, profittando della sua amicizia e dello smisurato senso dell’ospitalità, hanno commesso qualche marachella? Sono questioni personali sulle quali non è ammissibile alcuna speculazione.
Non ci si lagni se a questa escalation diffamatoria si metterà un freno, quello che i soliti maligni chiamano bavaglio. Questo è un governo serio, che gode di grande prestigio internazionale e di un accredito notevole nel consesso dell’economia mondiale che conta. E se un Matteoli viene preso a pernacchie da una congrega di muratori incazzati non sarà che ci si debba intimidire: il dissenso, quando è mosso dall’irriconoscenza, merita solo disprezzo.
E adesso si torni al lavoro, nell’attesa del prossimo tentativo di sovversivo di scardinare l’ordine costituito.

(nella foto, la vignetta di Vauro pubblicata ieri su Il fatto quotidiano, che riproduce in versione aggiornata il noto quadro di Pellizza da Volpedo, ribattezzato per l'occasione con il nome di Patonza da Volpedo)

mercoledì, settembre 28, 2011

Quelli che il sole delle Alpi

Mercoledì, 28 settembre 2011
Il mitico dissacratore Enzo Jannacci non avrebbe potuto inventare di meglio che una canzone, un po’ stonata e sorta d’elenco tragicomico, per mettere alla berlina i tanti bizzarri personaggi che costellano la nostra esistenza quotidiana . Un’ode da sgranare a guisa di rosario di persone comuni che votano scheda bianca per non sporcare o che credono che Gesù Bambino sia Babbo Natale da giovane.
Quelli che….., - questo è il titolo della nota canzone – ha subito nel tempo vari adattamenti, includendo nuovi stereotipi di ordinari boccaloni, illusi, sconfitti dalla vita, mitomani pervicaci, saccenti d’ogni sorta, in un valzer irrefrenabile di macchiette scoordinate, che costituisce l’umanità quotidiana.
Forse perché le bizzarrie e i loro autori son troppi, forse per non dare un’eccessiva rilevanza ad un fenomeno che, in fondo, è solo regionalizzato in questo nostro Paese così variegato ed esteso, certo manca nell’inno alla futilità di Jannacci un richiamo a Quelli che il sole delle Alpi, anche se il sole lo vedono di rado.
Sì perché quello del sole delle Alpi sembra essere diventato ormai un vero e proprio incubo per gli amministratori leghisti, al punto da non poter fare a meno di tappezzare muri, strade, edifici pubblici, scuole e bocciofile con questo simbolo lì dove sono presenti in forze ed hanno assunto le redini del governo locale. Così, treni pendolari, toilette di bar, cabine telefoniche e qualunque posto sia in grado d’ospitare una vetrofania sono pieni di questi simboli a memoria persecutoria della presenza o del passaggio del Carroccio e delle sue ossessioni propagandistiche.
Già il sindaco di Adro, nel bresciano, tal Oscar Lancini, s’è ritagliato un posto nella storia per i soldi spesi per far mattonellare la locale scuola elementare d’inserti raffiguranti il simbolo padano e per lo scontro che ebbe con il Quirinale a cui questa bizzarra rappresentazione di un autonomismo esasperato e mortificante dei simboli dello stato italiano non era andata giù.
Ma, come insegna un vecchio adagio, la madre delle teste fini è sempre gravida e così l’iniziativa del primo cittadino di Adro ha fatto scuola e tanti altri amministratori leghisti sono venuti allo scoperto dichiarando il loro incontenibile amore per il mosaico e l’intarsio. Così chi non esibisce il fiore stilizzato non è trendy; è quasi uno spergiuro agli occhi della nomenklatura di Cassano Magnago, a cui si devono le mille gag e i mille gadget che rendono il movimento regional-autonomista-secessionista una macchietta sgangherata in Europa. Drezzo, nel comasco, Carrù, nel cuneese, Calcinato, nel bresciano, Vimodrone, nel milanese, Garlate e Mandello, nel lecchese, - e la Lega ci perdoni se abbiamo dimenticato qualcuno dei suoi buffi avanposti, - oggi ostentano sparsi per il loro territorio analoghi emblemi a perenne ricordo del passaggio dei nipotini d’Alberto da Giussano, quasi che le mille promesse di autonomismo, federalismo, riduzioni fiscali, secessione e balle varie si possano realizzare con i simboli e non con azioni concrete e convincenti.
Per altro, questo sole ostentato dai leghisti è, a dirla tutta, anche un poco tristarello: di colorazione verde biliare, con sei petali geometrici disposti a raggiera e ingabbiati in un cerchio da moderna mountain bike, che nulla ha in comune con il simbolo da cui trarrebbe origine ed alla cui storia si rimanda il lettore curioso che avvertisse l'urgente necessità d'approfondire il tema. La stessa magistratura, più volte intervenuta su segnalazione di qualche cittadino scocciato da questa invasione di simbolismi e dall’imposizione di una rappresentazione di fede politica esasperata, ha espresso giudizi controversi, che vanno dall’abuso bell’e buono, con tanto di distrazione di pubblico denaro, al non luogo a procedere, in quanto richiami storici ad analoghi graffiti assiri, egizi e celtici che non intaccherebbero il decoro dei luoghi nei quali sono stati replicati.
Queste decisioni non hanno certo convinto i detrattori, che ritengono d’aver individuato nel simbolo leghista un preciso richiamo alle foglie della marijuana, con tutto ciò che d'immorale e diseducativo si trascinerebbe dietro l’appello indiretto a questa droga vegetale.
Questo lo state dell’arte, che come si vede ha aperto un nobile dibattito assai proficuo in quest’epoca di crisi e di malessere sociale. Noi francamente e a costo di passare per cialtroni poco attenti ai dibattiti intellettuali di un certo spessore, rimpiangiamo il buon Jannacci, che attualizzando il testo della sua canzone, di certo, oggi non potrebbe omettere un verso in omaggio di Quelli che il sole delle Alpi, anche se il sole lo vedono di rado.

martedì, settembre 27, 2011

Talebani pontifici

Martedì, 27 settembre 2011
Chi è convinto che Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger, abbia ammorbidito la sua posizione di difesa ad ogni costo d’una Chiesa collocata nella torre eburnea e stia cedendo ad una revisione dei ranghi sull’onda degli scandali sessuali che sempre più investono gli apparati ecclesiastici, probabilmente sbaglia. Infatti, anche il Papa sembra avvezzo all’eterno esercizio ipocrita di predicare bene razzolare malissimo.
Alcune delle dichiarazione del capo del cattolicesimo nella recente visita in terra patria sembrerebbero confermare l’opera di revisione in corso, se non fosse che, - senza alcuna pretesa d’insegnare a colui che nell’ortodossia cattolica rappresenta il verbo in terra quali siano i requisiti della credibilità delle dichiarazioni, - i buoni propositi debbono essere seguiti, se non addirittura preceduti, da fatti concreti che rendano incontrovertibile ciò che, altrimenti, rischia d’apparire solo un buon proposito se non addirittura un esercizio di demagogia dozzinale.
E a rendere dubbie, se non a smentire, le parole di Benedetto XVI ecco che interviene qualche cicisbeo in abito talare, intriso di una cultura integralista e di retorica oscurantista, che si arroga il diritto di scendere in campo per rilasciare demenziali giudizi su ciò che costituisce lo spartiacque tra morale e antimorale.
Uno dei talebani in gonnella risponde al nome di Giacomo Babini ed è un famigerato omofobo e antisemita, non nuovo a sortite sconcertanti, che non ha mai perso l’occasione – deve ritenersi con il consenso delle alte sfere vaticane, visto il suo ruolo di vescovo emerito di Grosseto che gli è attribuito – per attaccare con ferocia inaudita in primo luogo la diversità.
Questa volta interviene nel maldestro tentativo di difendere il presidente del consiglio, quasi fosse questo colui che gli passa lo stipendio e gli consenta di vivere nelle mollezze della sua alta carica ecclesiale. «Credo che oggi sia in atto una vera caccia al Berlusconi, se penso che buona parte dei giornali è dedicata a lui e che ben quattro procure gli dedicano esagerate attenzioni. - sottolinea il presule - Penso che sarebbe utile lasciarlo governare e aspettare che la recente manovra finanziaria dia i suoi frutti. Molti osservatori sembrano più intenzionati a fare cadere il governo che alla fedele aderenza alla realtà».
E questa patetica difesa del premier non subisce tentennamenti nemmeno quando gli si fa notare che quella di Berlusconi non sembrerebbe proprio una vita ad esempio dei dettami del cattolicesimo. «E’ vero, non mi sembra un modello, ma oggi la politica spesso si fa con le mutande e non con la testa. Tuttavia, sarebbe bene accertare realmente che Berlusconi abbia fatto cose malvagie e i baccanali. Non è pensabile condannare una persona solo per sentito dire».
E’ probabile che Babini, considerata l’attempata età e la comprensibile caduta d’interesse per i fatti salienti della vita e del mondo sia più dedito alla lettura di fumetti come Zagor o Superman, piuttosto che ai giornali seri, dove quotidianamente è reperibile un’ampia letteratura dei dialoghi piccanti tra il premier e suoi pusher abituali di troiette, possibilmente senza mutande per restare in tema. Ma a Babini tutto ciò non sembra interessare, anzi è forse persino irrilevante. E’ molto più rilevante, invece, sparare fango a raffica per chi, non si sa bene in base a quale teoria razzista che gli infetta il DNA, diversamente da lui osa attaccare il leader del PdL, ribattezzato da qualche acuto buontempone in Partito della Libidine.
Nel mirino c’è allora Vendola, che rappresenta per Babini un vero cruccio esistenziale. «Io non ne posso più della retorica inutile di Vendola. – confessa - Credo, da cattolico, che la omosessualità praticata sia un peccato gravissimo e contro natura, certamente peggiore di chi va con l'altro sesso. Alla luce dei fatti, senza stilare classifiche, Vendola pecca molto di più di Berlusconi». Ovviamente le attenzioni per qualche minorenne, anche di sesso maschile, manifestate e pratricate da tanti suoi compagni di merenda, per il presule illuminato, debbono considerarsi maggiormente edificanti e degne d’assoluzione divina più di quanto invece non sia il “vizietto” attribuito a Vendola.
Esternazioni choc, che l’interessato non risparmia ad ogni sorta di diversità sessuale e razziale. Famose sono quelle contro gli ebrei (alcune delle quali smentite tramite la CEI, ma sempre confermate dall'autore dell'intervista) e musulmani. «Nella storia sono stati perseguitati ed è vero. - dichiarò a proposito degli ebrei - Ma loro non fanno e non hanno mai fatto molto per farsi benvolere ed amare, hanno i loro peccati commessi come e forse più degli altri e poi sono tremendamente attaccati ai soldi. Gli ebrei usano la shoah come una clava».
Ma il suo vero chiodo fisso è sempre stato quello degli omosessuali. Dopo aver sostenuto la necessità di «non dare la comunione a Vendola e agli omosessuali conclamati», Babini ha anche asserito che «gli omosessuali sono dei malati e nel nome di un populismo da quattro soldi non è possibile paragonare un gay con un essere normale».
Chissà cosa penserà Babini delle dichiarazioni di Bagnasco alla CEI di ieri, dove, pur senza mai menzionare il nome di Berlusconi, non si è certo risparmiato una critica ferocissima al suo stile di vita ed alla corruzione morale di cui, a suo giudizio, il premier è affetto. Magari per bocca di questo ayatollah alla vaccinara verremo prima o poi a sapere che Bagnasco frequanta l'ARCI-Gay e scopriremo il gioco del presidente della Conferenza episcopale, noto per esser membro della congrega segreta "gli uomini che odiano le donne".
Di sicuro Benedetto XVI, prima di aprire bocca e dichiarare cose che i suoi smentiscono in modo così clamoroso, farebbe bene a promuovere un’opera di pulizia radicale all’interno delle mura vaticane, dove la coerenza pare difettare alquanto e le macchine del fango senza eccezione da quelle laiche lavorano a pieno regime.

(nella foto un'immagine di Giacomo Babini, vescovo benemerito di Grosseto, accanto ad uno dei suoi articoli allucinanti pubblicati dalla rivista Pontifex, vero e proprio organo dell'oscurantismo e della reazione clericale, con tanto di benedizone vaticana. Per più esilaranti approfondimenti, si consiglia http://www.pontifex.roma.it/ )

sabato, settembre 24, 2011

L’uomo che sussurrava alla patonza

Sabato, 24 settembre 2011
Marco Milanese è salvo. Non andrà in galera com’era successo ad Alfonso Papa, ma continuerà a godersi i suoi 19.500 euro netti mensili, salvo arrotondamenti, in piena libertà, mentre il corso della giustizia proseguirà claudicante e lui avrà la possibilità d’inquinare le prove più di quanto non abbia già fatto nel periodo tra la richiesta d’arresto e la pronuncia della cosca cui competeva autorizzare quella richiesta.
Evviva! Siamo contenti che ancora una volta abbia trionfato la legalità, che ancora una volta la Camera, che sempre più somiglia al un boudoir d’un bordello primi novecento, abbia impedito che uno dei suoi clienti per colpa di una magistratura proterva si dedicasse al gioco degli scacchi invece di perseverare nella pratica delle camarille arrangione e arraffone.
Sì, perché se è giusto chiudere in gattabuia il pensionato sorpreso al supermercato con un pezzo di parmigiano nelle mutande è altrettanto giusto lasciare in libertà chi manovra nomine d’alto rango nella guardia di finanza o pilota appalti per favorire gli amici e gli amici degli amici. E’ la logica sfuggente all’uomo della strada del valore aggiunto intrinseco: il pensionato rubacchia per mangiare, dunque fa bene solo a se stesso. Il secondo mette in moto in qualche modo il volano della moltiplicazione della ricchezza: un appalto truccato è comunque un appalto e c’è sempre gente che lavora anche dietro un affare sporco.
Certo farlo capire alla base della Lega non sarà cosa facile. Spiegare al Padano medio che il nonnetto è un gaglioffo e il politico con il vizietto è un benefattore è impresa ardua, dato che il seguace del Carroccio non ha notoriamente una grande apertura mentale e, in quanto a finezze logiche lascia un po’ a desiderare. Poi son concetti che per essere compresi richiederebbero anche una certa dose di cultura, requisito che i bossiani possiedon poco, intenti come sono da sempre a far la guerra alla grammatica prima ancora che a quella Roma ladrona di cui han sentito parlare e che sanno essere collocata a sud del Po e nulla più.
Un esempio a conferma di questa mesta verità? Gli slogan altisonanti su un’improbabile secessione – da qualcuno scambiata per pratica più confortevole di accomodamento sul bottino – corroborati dal pensiero che va sull’ali “d’orate”. D’altra parte, tra un delfino e un trota che al valligiano di San Pellegrino o di Val d’Ossola le idee si siano confuse è più che legittimo.
Certo è che digerire l’ennesima assoluzione forzata di un sospetto delinquentello a quelli della Val Trompia non è andato proprio a genio e così hanno protestato verso un vertice di partito che si appiattisce sull’immagine delle tante congreghe affariste rappresentate dagli altri movimenti politici, sciroppandosi puntuali la censura di Calderoli e soci, padre-padroni di una falange sempre più allo sbando.
Nel frattempo, nel palazzo regio, il satrapo Berlusconi continua imperterrito a resistere, piantando qualche chiodo ulteriore tra la giacchetta e la sedia sulla quale spalma le regali terga, sì da rendere più difficoltoso il suo prematuro defenestramento, incurante del coro ormai perpetuo di quanto pregano, suggeriscono, richiedono, auspicano, gridano che se ne vada con i suoi piedi e non sotto il pungolo del forcone di qualche sconsiderato che prima o poi potrebbe riuscire ad eludere la sorveglianza e irrompere nelle sue stanze per tentare di risolvere con metodi sommari la sua presenza ingombrante e perniciosa al timone del Paese.
Ma lui non sembra preoccuparsene più di tanto, intento come dev’essere a “far girare la patonza” e a sussurrare a fior di labbra lascivi pensieri alla pulzella di turno.
Ancora ieri, colta dall’occhio indiscreto di qualche telecamera nascosta, l’ape regina, al secolo Sabina Began, è andata o trovarlo nelle stanze imperiali, non è data sapere la ragione, anche se sembrerebbe legittimo pensare che un ripasso di com’è fatta la patonza non guasti ad una certa età, quando la memoria si fa più labile e il rischio della confusione s’ingrandisce pericolosamente. Di certo c’è che il buon presidente del consiglio, così attento al rispetto delle leggi che tutelano la privacy, - la sua, - non avrà gradito le riprese dello spione e, venutolo a sapere, avrà incaricato qualche caicco della sua ciurma di preparare un disegno di legge che parifichi queste riprese alle intercettazioni telefoniche e ne vieti l’esercizio e la diffusione.
E in fine, che dire di Tremonti, quel Giulio senza fissa dimora ospite a sua insaputa in una casa pagata dal suo stretto collaboratore Marco Milanese, che profittava di quella gentile e disinteressata concessione al capo per abusare spudoratamente del potere che gliene derivava? E’ per certi versi un altro caso Scajola, con la differenza che Giulio s’è veramente incazzato di scoprire che veniva utilizzato a sua “insaputa” e allora non solo ha tagliato i ponti con l’infido segretario, ma non è andato neanche a votare in Parlamento per una sua condanna o per un’assoluzione. Ha preferito andarsene ad una riunione del Fondo monetario, così adducendo un legittimo impedimento che va tanto di moda.
Peccato che Bossi e Berlusconi, inventori dell’obbrobrio giuridico a proprio vantaggio, ma contrari a far proliferare l’ennesima guarentigia, non abbiano gradito e si siano ritrovati ancora una volta alleati nel giurare all’infingardo, - che ha messo a repentaglio con il non suo voto la tenuta del governo, - che pagherà carissimo il comportamento tenuto.
Chissà se l’uno, che si dedica al pediluvio con l’acqua del Po, e l’altro, intento a mormorare suadenti confidenze alla patonza, avranno l’accortezza di meditare durante le loro pratiche che la caduta di Tremonti sarebbe l’atto conclusivo e augurabile di una lunga e disgraziata avventura per l’Italia.

martedì, settembre 20, 2011

Basta!

Martedì, 20 settembre 2011
Se ne devono andare!, con qualunque mezzo e a qualunque prezzo, ma se ne devono andare.
Hanno ampiamente dimostrato non solo d’essere incapaci di governare il Paese, ma anche di avere quel minimo di spessore morale necessario per sedere al posto di comando e dettare le norme d’indirizzo e gestione di una nazione.
Un paese non può essere governato da puttanieri e affaristi, da traditori esaltati di fantomatiche secessione che mai saranno consumate, da sospetti malavitosi e da malavitosi conclamati, che fanno da intermediari del malaffare e da rappresentanti della malavita organizzata.
Questa notte l’Italia ha dovuto incassare l’ennesimo colpo allo stomaco da parte di S&P, agenzia di rating internazionale, che ha stabilito che la credibilità del paese è sempre più debole. Ed è una credibilità che s’assottiglia sempre più a causa di un governo comatoso e rissoso, tenuto in piedi dagli immondi interessi di un presidente del consiglio “a tempo perso”, la cui preoccupazione principale è stata per sua ammissione quella di “far girare la patonza”, - ovviamente incurante di ciò che gira agli Italiani, - non certo di gestire al meglio le preoccupazione della gente, quella povera gente stuprata in massa da una politica infame e volgare, che con sistematicità criminale gli addossa l’onere delle crisi che si amplificano con i suoi comportamenti e che deve subire manovre di risanamento avvilenti. Tutto questo mentre chi potrebbe contribuire in maniera più sostenibile è posto al riparo da ogni onere grazie alla protezione di una classe politica malvagia, che include se stessa nel circolo ristretto dei graziati dalla sorte e ostenta violento disprezzo verso chi protesta e reclama.
Il declassamento dell’Italia e la catastrofe ulteriore che tale declassamento si porta dietro non si può imputare esclusivamente all’effetto di manovre insufficienti per fronteggiare la crisi economica in atto, ma - va detto senza ipocrisie e senza reticenze - è per la maggior parte da imputare alla presenza in capo all’esecutivo di un premier da quattro soldi, di un personaggio che ha fatto della sua conquistata posizione di capo del governo un salvacondotto, per non varcare la soglia del carcere per gli atti criminali commessi prima della sua comparsa in politica, e un lasciapassare per continuare a commettere ogni sorta di ribalderia.
Attenzione, ribalderie il cui onere è ricaduto sulla collettività, visto che gli appalti di lavori pubblici o le nomine ai vertici di importanti aziende o persino le nomine in posti di governo sono sempre state funzionali alla realizzazione di condizione favorevoli affinché si potesse soddisfare la sua vorace fame di “patonza”, in prima battuta, e pilotare la messa in atto di provvedimenti a favore della sua costellazione d’aziende e dei suoi interessi personali, in seconda istanza.
Adesso viene a raccontarci che il giudizio di S&P è politico, non tecnico. Come sarebbe politico tutto ciò che mette a nudo lo squallore delle azioni che compie e la morbosità ossessiva con la quale freme nel desiderio incontenibile di giacere con la disgraziata di turno in cerca di notorietà e guadagni facili.
Non vuol rendersi conto che le migliaia di esternazioni, di confessioni scabrose, di frequentazioni equivoche hanno fatto di lui solo uno sgorbio morale, che deve esclusivamente allo scudo d’armadillo che se fatto cucire sul volto il coraggio di presentarsi in pubblico per raccontare meschinità a nastro. L’onestà integerrima di Papa, gli aiuti ad un lenone bisognoso dal nome Tarantini, le commoventi storie sulla nipote di Mubarak, giusto per fermarsi alle ultime tristissime gag che ci ha offerto, ne fanno un personaggio sfigurato, di cui persino la storia probabilmente si vergognerà narrarne le gesta ai posteri.
Non di meno fa il capobastone della Lega che gli serve da stampella, pur se nel suo caso a fare scandalo è la sua netta incompatibilità tra il ruolo di ministro e quello di facinoroso condottiero di un drappello di delinquenti che attentano continuativamente alla Costituzione. Invasato fuori controllo, con la lingua e il passo incespicante oltre che il cervello, continua imperterrito a proferir idiozie allucinanti su propositi secessionisti e referendum inammissibili, ad uso e consumo di un manipolo di frustrati in camicia verde, convinti di poter cambiare l’assetto costituzionale a proprio piacimento. Crede questo forsennato che quattro ridicoli rituali a base d’ampolle riempite d’acqua di fiume possano risolvere le disgrazie del Paese? Crede questo nano della morale, razzista e volgare, che basti insultare i suoi degni colleghi di governo per rendersi credibile? Se Roma gli fa schifo, come ipocritamente predica da sempre, lasci il suo immeritato e lussuoso appannaggio nelle casse che glielo erogano, piuttosto che intascarlo e poi sputarci sopra! Rompa il sodalizio omertoso e demagogico con quel “Berluscaz” che ha tanto vituperato, anziché strizzargli l’occhio e reggergli il bordone anche nei frangenti più equivoci e degradanti. Ma per chi dell’opportunismo ha fatto un credo ed una regola di vita, questi argomenti rimangono senza valore.
Questa non è politica. E’ uno squallido teatrino di marionette per affetti da gravi patologie mentali, che ci sta conducendo alla rovina: forse sono ancora parecchi coloro che non hanno capito che il default dell’Italia significherebbe licenziamenti di massa, impossibilità di pagare pensioni, blocco dei servizi sanitari e di tutto ciò che viene amministrato con i pubblici denari, e dunque uno stato di prostrazione e di povertà generale con conseguenze inimmaginabili. Ecco perché è necessario dire basta a questa ignobile farsa che si sta giocando sulla pelle dei cittadini, con una mobilitazione di massa che rispedisca immediatamente a casa una classe politica scellerata al punto da non avere precedenti.

(sotto al titolo, una vignetta di Vauro)

domenica, settembre 18, 2011

Politica e nepotismo

Domenica, 18 settembre 2011
Cristiano Di Pietro, figlio dell’ex pm di Mani Pulite, è candidato alle prossime elezioni Regionali molisane di ottobre. Si proprio lui, il Cristiano battezzato “BMW e Valori” grazie ad una storiella di rimborsi per spese di trasferta a dir poco generosi, che sollevarono un nugolo di feroci critiche. E per chi volesse approfondire, http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5556
La notizia aveva lasciato perplessi già quando era stata comunicata. Ed ora scatena le prime «defezioni» e pubbliche proteste. «Di Pietro come Bossi e Berlusconi, accomunati dalla stessa concezione familistica e privatistica della politica», scrivono in una nota i membri del circolo Idv di Termoli (Cb) abbandonando il partito. Una candidatura, scrivono esprimendo il loro dissenso, «figlia della stessa concezione familistica e/o privatistica che presumibilmente ha mosso il capo della Lega Nord, Umberto Bossi, a candidare e a far eleggere il figlio al consiglio regionale della Lombardia o il presidente del Pdl, Silvio Berlusconi a candidare e a far eleggere Nicole Minetti nello stesso consiglio».
Questa la notizia che oggi ci regala il Corriere della Sera, notizia di denuncia di un vezzo tipicamente nostrano e che la dice più che lunga sulle debolezze che affliggono i nostri politici, incapaci di sganciarsi dal noto proverbio napoletano “ogni scarafone è bell’a mamma soja”.
E non importa qui se il metodo “dipietrista” sia diverso da quello di Bossi: non un’imposizione in cima alla lista del nome del Trota, quel Renzo Bossi le cui qualità politiche sono notoriamente sotto il livello del percepibile, in modo da farlo risultare eletto grazie ad una manciata di voti minimi attribuita al partito, ma una lista di signor nessuno, nella quale il nome di Cristiano Di Pietro troneggia inevitabilmente.
Un vezzo di puro nepotismo al quale sono pochi coloro che riescono a sottrarsi. I “figli so’ piezz’e core” recita un altro adagio partenopeo e La Russa, il terribile Ignazio Benito Maria post-fascista tutto d’un pezzo e ministro della Difesa, che ha già un fratello, Romano, al parlamento europeo e un altro, Vincenzo, avvocato e politico già trombato in Forza Italia, non ha saputo resistere al canto delle sirena e al momento opportuno ha piazzato il primogenito Geronimo ai vertici dell’ACI, dopo un tentativo miseramente fallito di lanciarlo in politica. Naturalmente, il delfino di casa La Russa, già piazzato nel cda di Ligresti non si sa bene in base a quali competenze e frequentatore di salotti d'alto bordo in cui fare bricolage di signorine dal pedigree altisonante, di auto ci capisce come il comune automobilista e magari sarà stato piazzato all'ACI per la lontana assonanza del suo cognome con "la rossa" di Modena. Alla prima occasione sarà il caso di sentire sull'argomento la Brambilla.
Adesso è il turno di Di Pietro, che con il suo blitz ha sollevato le proteste tra i dirigenti e gli iscritti termolesi. «Avevamo chiesto – dice una nota dei dissidenti - di inserire personalità che avrebbero portato voti e qualità; ad esempio Vincenzo Greco, stimato notaio ed ex sindaco della città. Nessuno ci ha mai dato una risposta. Poi vediamo che si accolgono esponenti di altri partiti, come uno dei candidati alle primarie del Pd. Se il fosso lo saltano gli altri verso l'IdV per Di Pietro va bene, diversamente il partito mette veti e pregiudiziali. Questa visione strabica della politica non ci piace».
«Ci spiace che i componenti del circolo dell’Italia dei Valori di Termoli non abbiano letto bene i nomi che compongono la lista elettorale e si siano fermati solo a quello di Cristiano Di Pietro - ribatte Pierpaolo Nagni, segretario regionale IdV Molise. - Infatti, a rappresentare il territorio per il partito c’è Antonio D’Ambrosio e non Cristiano Di Pietro. Ci rammarica, quindi, questa presa di posizione: loro sanno bene che il vero motivo dell’attacco è un altro. L’IdV non ha accettato il loro ricatto: infatti volevano imporre il nome di un candidato che, pur sollecitato in altre circostanze elettorali a correre con IdV, ha sempre scelto di non voler fare nessun percorso con l’Italia dei Valori. Al suo posto, abbiamo preferito ascoltare le istanze del territorio e rispettare un curriculum di grande professionalità e trasparenza come quello di D’Ambrosio che, pur provenendo da un altro partito politico, essendo uomo di una certa esperienza, ha colto al volo l’occasione offerta dall’Italia dei Valori e ha deciso di intraprendere con noi un discorso di lunga durata. Attaccarsi al nome di Cristiano Di Pietro, che, tra l’altro fa politica da tanto tempo (sic!, ndr), è solo un triste tentativo di spostare l’attenzione».
E bravo Di Pietro e i compagni/amici dell’IdV! Peccato che il metodo denunciato dai dissidenti sia purtroppo una regola consolidata per l’IdV. Un esempio? Siracusa, dove tal Raffaele Gentile, ex socialista ed ex sottosegretario del governo Prodi, grande collettore di tessere nell’ambito provinciale, è stato accolto con tanto di fanfara non appena ha lasciato intendere che, pur di riacquisire la visibilità perduta con il comatoso PSI, avrebbe come Caronte traghettato un bel mazzo di tessere al partito della colomba multicromatica. E i dirigenti fondatori del partito sul territorio? Beh, quelli erano oramai aficionados certi, gente che pur se aveva messo di tasca propria qualcosina per lanciare e far crescere il partito poteva benissimo contentarsi della stretta di mano occasionale di Giambrone e Orlando, i veri padroni/patrigni del partito nell’Isola. Per il resto, va capito che la politica è fatta anche d'inevitabile opportunismo, giusto per adattarsi alle regole del mondo.
Risultato, il partito magari cresce ad ondate, man mano che la disaffezione per una sinistra demagoga e inutile aumenta, ma, là dove qualche porcheriola è stata fatta, è scomparso sul nascere e difficilmente ritroverà adepti, con buona pace dell'ambizioso e nepotista Antonio.

(nella foto, Cristiano Di Pietro)

Il Paese di merda

Domenica, 18 settembre 2011
Immaginiamo che per anni il signor Berlusconi, i suoi cortigiani ed i suoi equivoci amici abbiano fatto i loro bisogni in un’improvvisata discarica nei pressi di casa, nascosta agli occhi della gente comune, ma assai comoda, visto che lasciava lindi i servizi domestici e, più che atro, non ammorbava di fetidabondi effluvi le stanze del potere. Poi, un bel giorno, la collinetta che nel frattempo s’era creata per sedimentazione progressiva, comincia a franare e investe poco a poco il palazzo regio, sino a circondarlo e ad assediarlo con i suoi odoracci sgradevoli, al punto da non poter più passare inosservato lo scempio compiuto nel corso degli anni e disvelarsi in tutta la sua drammatica opera di inquinamento sistematico.
Ecco il quadretto che pian pianino sta prendendo corpo agli occhi degli italiani. Un quadretto nel quale il guano rappresentato dai Tarantini, dai Lavitola, dagli interessi incrociati di Bertolaso con affaristi border line, smottando gradualmente fa affiorare qualche sozzo indumento intimo o qualche camice d’infermiera dismesso ora da Ruby Rubacuori o da Sabina Began, ora da Patrizia D’Addario ora da Nicol Minetti. E questo è ciò che affiora. Figuriamoci cosa rischia di venire alla luce nel momento in cui le operazioni di scavo in quella melma si concluderanno, visto che qualche magistrato – solito affiliato alle falangi maoiste che infestano l’ordine giudiziario del Belpaese – ha deciso con il consueto e incontenibile fumus persecutorio di ficcare il naso nelle questioni “private” del premier.
E’ chiaro che anche questa volta Silvio Berlusconi griderà sdegnato allo scandalo, alla protervia di un nucleo di brigatisti irriducibili che ormai sono riusciti a reclutare adepti anche nella procura di Napoli, quasi non bastassero quelli presenti nel covo di Milano, sebbene e forse involontariamente una mezza via d’uscita se la sia già creata, dichiarando al suo amico Lavitola in una conversazione telefonica non sospetta, che lui fa il premier “a tempo perso” avendo esigenza di dedicarsi con maggiore impegno e devozione alla “pelosetta”, della quale non riesce a fare a meno e nella cui gestione si ritrova impegnato per buona parte della giornata.
Insomma , ricordate Lucio Battisti e le sue 10 ragazze? Beh, il Lucione nazionale era un poveraccio. Al super macho Silvio se non son 40 gli rimane l’appetito, un languore che si porta dietro tutto il giorno e che la sera, se non se lo toglie, non gli consente nemmeno di prender sonno.
Dunque, se questa è la semplice vera evidenza, di cosa lo dovrebbero accusare gli italiani? Tutti hanno il diritto di curare i propri affari privati e di dedicare il tempo che ritengono necessario agli hobby. Lui fa il presidente del consiglio “a tempo perso”, l’ha dichiarato in modo inequivoco e in tempi non sospetti, e dunque, politicamente è a posto. Nessuno gli può chiedere di più. E poi notoriamente gli Italiani sono arrangioni e traffichini: sono anni che tra DC e socialisti, repubblicani e socialdemocratici se la cavano benissimo anche coi governi che non governano. PdL e Lega non hanno fatto che seguire le orme tracciate già da qualcun altro.
Sul fronte magistrati, non c’è dubbio alcuno: sono una categoria di frustrati invidiosi, ai quali la “pelosetta” fa certamente gola, ma per mille ragioni non se la possono permettere e allora scatenano ignobili persecuzioni ai danni dei più fortunati, in base alla difesa d’incredibili quanto insostenibili principi moralisti e bacchettoni. Lui pagava le ragazze? Ma quando mai!, solo maldicenze costruite ad arte per farlo apparire non come un play boy, com’è nei fatti, quanto un vecchietto con il vizietto da soddisfare solo a pagamento. In realtà i soldi spesi non sono stati il corrispettivo di nessuna prestazione mercenaria, ma solo un atto di liberalità nei confronti di tante giovani sfortunate, alle quali s’è data una mano per sopravvivere: cos’è la vita e che significato ha se non ti puoi permettere una bora di Louis Vuitton o un abitino di Versace? Attenzione, s’è “data” una mano non s’è “messa” una mano come vorrebbe insinuare qualche volgare denigratore. Ecco, quei regali, sì in denaro ma equivocati da persecutori opportunisti, sarebbero divenuti la prova tangibile di rapporti piccanti a pagamento. Menti malate! Terroristi al servizio delle opposizioni!, che non hanno argomenti migliori per attentare alla legittimità del potere sancito dal voto popolare.
Se si guarda poi all’attività politica di questo governo, non si può che restare esterrefatti alla luce dell’impegno “a tempo perso” che è stato dedicato ai problemi del Paese. S’è organizzato un G8 da favola, recuperando lo stato d’abbandono in cui versavano alcune zone della Sardegna; s’è risolto il problema d’un terremoto sconvolgente a L’Aquila, che ha colpito migliaia di cittadini; s’è data una regolata ai fannulloni del pubblico impiego, interpretando alla lettera il sentimento popolare di odio verso atavici scansafatiche; s’è modernizzata la scuola, mandando a casa migliaia di parassiti intenti a rubare solo stipendi pubblici invece d’assolvere la loro missione d’insegnati; s’è fatto qualche provvedimento per tagliare le pensioni, la zavorra di vecchi convinti di poter campare a spese del pubblico bilancio; s’è tagliato lo sconcio di invalidi e storpi, che offuscavano l’immagine del gallismo nazionale; s’è dato qualche contentino ai ricchi, con scudi fiscali e un po’ di fumo sulla lotta all’evasione fiscale, ché sono quelli che con il risparmio mettono in moto gli investimenti; s’è tagliato qualcosa nella sanità, giusto perché troppe medicine è provato fanno male; e dopo tutto ciò, premesso che qualcosa s’è trascurata nell’elenco, s’osa parlare di disimpegno o di malgoverno?
La verità è che il popolo non è mai contento ed è sempre pronto a colpire alle spalle i suoi benefattori. Poi, diciamocelo con assoluta franchezza, l’Italia è un paese di merda, come acutamente ha fatto osservare il nostro premier, e non c’è niente che sia meritevole di riconoscenza. Poco importa che il Silvio Berlusconi sia oramai sulla scena da oltre tre lustri e, come provano i fatti, un grosso contributo a questa merda l’abbia dato proprio lui.

(nella foto, Giampaolo Tarantini)

giovedì, settembre 15, 2011

Strage Ustica. Polemiche infinite

Giovedì, 15 settembre 2011
Lo Stato è stato condannato dal Tribunale civile di Palermo a risarcire i familiari degli 81 passeggeri rimasti uccisi nell'esplosione dell'aereo DC 9 Itavia, avvenuta sopra i cieli di Ustica nel lontano giugno 1980. Ragione della condanna è nell’aver omesso il rispetto delle comuni regole di protezione di un’aerovia civile e nei plateali depistaggi susseguitisi negli anni da parte delle autorità militari, chiamate a fornire spiegazione su ciò che accadde la notte dell’incidente nei cieli di Ustica.
Ma Carlo Giovanardi, sottosegretario con delega alle politiche per la famiglia, intervenuto, non si sa bene a quale titolo, nel dibattito scatenatosi dopo la clamorosa sentenza, non ci sta e, in conferenza stampa con il sottosegretario ai trasporti, Aurelio Misiti, annuncia che «il governo impugnerà una sentenza ideologica, firmata da un giudice monocratico che butta a mare 31 anni di processi e perizie, ribaltando decisioni prese da una ventina di magistrati». Insomma, il governo farà ricorso perché reputa la sentenza «inaccettabile», come la definisce anche il ministro della Difesa Ignazio La Russa, che spiega di condividere pienamente «quanto affermato in un comunicato dall'Aeronautica Militare, dove viene manifestata l'indignazione della Forza Armata per il tentativo di riaccendere dubbi e riaprire un caso oramai chiuso, dopo un procedimento durato oltre 30 anni e conclusosi in Cassazione con assoluzione definitiva e formula piena, per la non sussistenza del fatto, di tutti i militari». Ignazio La Russa ringrazia anche «per le parole di verità» espresse da Giovanardi, che ha ribadito che quel 27 giugno del 1980 «non c'era alcun altro aereo in volo vicino al DC 9 precipitato. Le conclusioni di una commissione di 11 periti internazionali nel 1994 parlarono di un'esplosione a bordo; le altre ipotesi, dal missile alla collisione, sono fantapolitica. Il governo ha fatto chiarezza in Parlamento e nessuno ha portato elementi solidi per contrastare quello che abbiamo detto». Nessun riferimento a quanto emerso dalle indagini, cioè che l’aerovia sulla quale fu stranamente indirizzato il velivolo Itavia quella tragica notte, peraltro per ragioni mai chiarite, sia riservata al transito di aerei militari e, abitualmente, sia percorsa da quelli francesi.
E se per Leoluca Orlando dell'Italia dei Valori «Giovanardi conferma la complicità politica ed etica del governo nei confronti degli assassini di Ustica», Walter Veltroni sembra invece sposare la tesi del giudice di Palermo, sottolineando come sia «molto grave che, dopo la sentenza di ieri, Giovanardi continui nella sua personale ostinata crociata contro la verità sulla strage di Ustica. E’ acquisita da anni la certezza che la notte del 27 giugno 1980, nel cielo sopra Ustica, si svolse una azione di guerra tra diversi aerei militari, che portò all'abbattimento del velivolo Itavia e alla morte degli ottantuno passeggeri». Carlo Giovanardi spiega invece che è la documentazione fornita dalla NATO a dimostrare che vicino al DC 9 dell'Itavia non volavano altri aerei, ammettendo invece che «il problema vero è la Libia che non ha mai risposto alle rogatorie». I legali dei familiari delle vittime della strage di Ustica, infatti, hanno già espresso l'auspicio che «in concomitanza della caduta del regime di Gheddafi, la nazione sia direttamente informata del contenuto degli archivi dei servizi segreti libici nei quali si ha ragione di ritenere che siano contenuti ulteriori documentazioni rilevanti sul fatto. E ciò consentendosi un accesso diretto da parte dell'Italia senza alcuna manomissione».
Ma Daria Bonfietti, presidente dell'Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica, afferma anche che «è una bugia sostenere che solo la Libia non ha risposto alle rogatorie. Alle ultime non hanno risposto Francia, USA, Belgio e Germania e - conclude - quando ne abbiamo chiesto conto al Governo italiano questo non ci ha neppure degnato di riscontro».
In ultima istanza nel comportamento dei due ministri si può cogliere un raro esempio di sensibilità per la tragedia vissuta dai familiari delle vittime e trascinatasi senza alcuna chiarezza per oltre trent’anni. Forse mancheranno colpevolmente anche quelle certezze definitive cui c’è da credere facciano riferimento i due importanti membri del governo, quantunque i giudici palermitani abbiano motivato il loro provvedimento con l’accusa di non aver messo in atto tutte le misure di sicurezza che erano nelle facoltà degli enti dello stato per minimizzare un rischio possibile per il volo Itavia. Ma al di là di ogni ragionevole dubbio e di qualunque polemica, almeno l’umana pietas forse avrebbe dovuto suggerire a Giovanardi e La Russa di tacere e a non cercare, sulla pelle di 81 innocenti, unica certezza nell’intera vicenda, squallidi palcoscenici dai quali improvvisare comizi in difesa di chi altrettanto certamente si dimostrò complice omertoso di una strage indegna d’una qualunque democrazia.

(nella foto, il sottosegretario alla famiglia Carlo Giovanardi)

mercoledì, settembre 14, 2011

Quando la vita è una caserma

Martedì, 14 settembre 2011
Sino a questo momento gli ordini impartiti da palazzo Grazioli e da via Bellerio sono stati rispettati alla lettera: la manovra economica è stata licenziata dalla Commis-sione della Camera senza che una virgola sia stata cambiata e, adesso, sarà l’aula di Montecitorio a dover dare prova di come gli ordini debbano essere eseguiti senza alcuna possibilità di discussione.
D’altra parte, in questo scorcio di fine estata in cui la legislatura sembra avviata sul viale del tramonto, pare d’assistere alla ritirata di Gheddafi, con i ribelli che incalzano e i cosiddetti lealisti che obbediscono tacendo senza arretrare d’un metro, pronti a morire nella difesa di quel che appare più un simulacro che un ideale vero e proprio. E che la rissosa corte del centro-destra si sia trasformata in una sorta di caserma in cui Bossi intima cosa e come votare ai suoi o Berlusconi-Alfano impongono i comportamenti da tenere alle proprie truppe è un data di fatto, con la conseguenza che la maggioranza alla Camera obbedirà alla richiesta del governo di non rimaneggiare la manovra e di procedere alla sua approvazione.
Le diffide inviate a Tosi, sindaco di Verona, che continua a ripetere che Berlusconi è ormai cotto e deve fare un passo indietro, e a Fontana, sindaco di Varese e presi-dente dell’Anci, cui è stato inibito di partecipare alla manifestazione di protesta or-ganizzata proprio dall’Associazione dei Comuni contro i beceri tagli imposti alle amministrazioni locali, la dicono lunga sul clima di Repubblica di Salò che regna in casa leghista e in generale nell’area di maggioranza. Si guardi anche al caso Milanese, dove gli ordini di scuderia sono stati inequivocabili: no all’autorizzazione all’arresto in Giunta, ma libertà di coscienza per il voto in aula. Come dire Alfonso Papa non ha padrini e quindi va in galera. Milanese è “amico” di Tremonti e forse va salvato dalla gattabuia. Questi sono gli ordini e, com’è buona regola, gli ordini non si discutono.
Sul fronte manovra, l’opposizione ha presentato i suoi emendamenti, già tutti di-scussi e tutti respinti dalla commissione Bilancio, sebbene alcune proposte presen-tate dal Pd però siano state giudicate, non senza imbarazzo, interessanti anche da Pdl e Lega. Una in particolare è piaciuta al presidente della commissione, Giancarlo Giorgetti, autorevole esponente lumbard vicino al ministro Maroni. Si tratta di un emendamento firmato dal capogruppo dei Democratici in commissione, Pier Paolo Baretta, che obbligherebbe il governo italiano a seguire la strada già percorsa di recente da Germania e Gran Bretagna: stringere un accordo fiscale con la Svizzera per combattere l’evasione e l’esportazione clandestina di capitali.
Per stanare questi cittadini furbetti e infedeli e costringerli a pagare le tasse i governi predetti hanno trovato una soluzione assai semplice rappresentata da un’intesa che fissa criteri di tassazione dei capitali stranieri ospiti delle banche svizzere. Con la nuova intesa i cittadini tedeschi che hanno patrimoni in Svizzera non dichiarati al loro Paese dovranno pagare una imposta (anonima, perché il governo elvetico ha ottenuto il mantenimento del segreto bancario) del 26 per cento. All’incirca l’aliquota in vigore in Germania, alla faccia dello scudo del 5% regalato dal nostro governo agli evasori italiani.
Secondo le ultime stime, i capitali italiani non dichiarati e portati in Svizzera oscille-rebbero tra i 130 e i 230 miliardi di euro e, dunque, lo stesso accordo frutterebbe alle nostre dissestate casse statali tra i 5 e i 9 miliardi, sia pure una tantum. Insomma almeno quanto l’aumento dell’Iva, se non di più. Perché allora non seguire l’esempio di Germania e Gran Bretagna? Il ministro dell’Economia Tremonti pare sia ostile a questa soluzione, non si capisce perché. Ma a Giorgetti, politico riservato e competente, evidentemente l’accordo con la Svizzera piace. Tanto che sabato scorso in commissione ha sollecitato caldamente il Pd a ripresentare in aula l’emendamento sotto forma di ordine del giorno, vale a dire un documento che non modifica il testo della manovra, ma che, se approvato, impegnerebbe il governo a seguire quella strada.
Ora sorgono spontanee delle domande. Perché Giorgetti, che partecipa spesso ai vertici Lega-Berlusconi-Tremonti, non ha portato a quel tavolo, in cui si prendono le decisioni, questa proposta? O perché non ha presentato un emendamento? O al-meno, perché non avanza lui un ordine del giorno in aula, che avrebbe un peso maggiore, invece di “sperare” che lo faccia il Pd? Ma non eravate voi a possedere la golden share del governo? Non è che per presentare una proposta v’è stato ordinato di consultare prima il Trota? Che se così fosse, si capirebbe il vostro imbarazzo: spiegare al giovanotto di belle speranze cos’è un emendamento richiederebbe tempi tali da consentire alla crisi di fare tutti i suoi disastri. Un po’ più di coraggio e d’indipendenza onorevoli lumbard, ché la vita della caserma garantirà pure un lauto stipendio (salvo per demagogia, sputare nel piatto in cui si mangia), ma spesso mortifica l’orgoglio di pensare con il proprio capoccione!

(nella foto, Giancarlo Giorgetti, presidente della Commissione Bilancio della Camera)

martedì, settembre 13, 2011

«Baccanali mentre l'Italia destabilizza l'Europa»

Martedì, 13 settembre 2011
Pubblichiamo un articolo estratto dal prestigioso The New York Times riportato dalle colonne di la Repubblica di oggi, nel quale Frank Bruni, columnist del quotidiano newyorkese e già corrispondente dall’Italia, esprime il punto di vista americano sul credito internazionale che gode il nostro governo e il suo premier.
*****
«Non si può solo ridere, perché questo Paese sta mettendo a rischio la stabilità finanziaria di tutto il continente».
Questa la sintesi di un articolo nelle pagine dei commenti firmato da Frank Bruni, che anni fa fu corrispondente da Roma. Il New York Times pubblica un pezzo durissimo contro il premier italiano, dal titolo «L'agonia e il bunga bunga». Parla di «baccanali di Berlusconi», di uno spettacolo da «petit guignol» che va in scena mentre l'Italia è in crisi e addirittura minaccia la stabilità finanziaria di tutta Europa. Bruni ricorda il settembre nero italiano: in cui non si sa se il Parlamento riuscirà ad approvare la manovra finanziaria, se questa sarà sufficiente e come sarà giudicata dall'Europa. Ma in questo momento drammatico - secondo il columnist del quotidiano americano - ci si domanda come il «lussurioso imperatore» del Paese vorrà festeggiare i suoi 75 anni.
Nell'articolo si ricordano il processo che il presidente del Consiglio dovrà affrontare perché accusato di aver fatto sesso con una minorenne, i bunga a bunga in cui riunisce veri e propri harem di donne, spesso travestite da infermiere. Bruni ammette: «Noi americani abbiamo trovato anche divertente tutto questo, perché è terrificante, ma anche rassicurante. Però - ammonisce i suoi connazionali - non dovremmo restare a bocca aperta e ridere. Perché ora l'Italia minaccia la stabilità finanziaria di tutta l'Europa. Il cammino dell'Italia dalla gloria al ridicolo - continua Bruni - spianato dalle distrazioni legali e carnali del premier, non dà benefici a nessuno. L'Italia ha una storia che dovrebbe rappresentare un monito per molte democrazie occidentali che si sono fatte cullare dal comfort nella compiacenza di sé. Aver tollerato troppe buffonerie ha provocato troppi danni».

lunedì, settembre 12, 2011

Il default di Berlusconi sull’onda dello sfacelo economico

Lunedì, 12 settembre 2011
Oramai è chiaro a tanti: il default è alle porte. Sull’onda delle vicende economiche che stanno scuotendo la Grecia, incapace di dare una sterzata positiva alla propria economia nonostante gli ingentissimi aiuti europei tramite il fondo salva stati, si susseguono le previsioni di un capolinea anche per l'Italia.
La Grecia ha ridotto il proprio PIL di oltre 7 punti percentuali e adesso si prepara ad introdurre una patrimoniale sulla proprietà immobiliare, come misura aggiuntiva alle già pesantissime azioni messe in atto negli scorsi mesi. Nessuno, però, se la sente di scommettere su quello che appare sempre più il tentativo di salvare un moribondo in fase terminale, che anziché rispondere alle sollecitazioni dei medici al suo capezzale da sempre più segni sconfortanti di irreversibile agonia.
D’altra parte, come hanno fatto notare concordemente gli addetti ai lavori, nessuno è in grado di uscire dal tunnel dell’indebitamento con una costante e progressiva riduzione delle risorse necessarie a pagare persino le rate di quel debito, cosicché lo spettro dell’insolvenza prende giorno dopo giorno forma concreta e non lascia più speranza.
Un analoga situazione si prospetta per l’Italia, che oggi in un quadro depresso di borsa e fiducia, e con una crescita non ancora negativa ma in palese stagnazione, tenterà di collocare ben 18 miliardi di titoli del debito pubblico con uno spread bund/BTP vicinissimo ai 400 punti, che tradotto in soldoni significa garantire ai sottoscrittori di quei titoli un tasso di rendimento superiore al 6% annuo. Ovviamente un onere del genere non fa che azzerare immediatamente buona parte dei proventi derivanti dalla manovra economica ancora in discussione, poiché i suoi introiti – alcuni colpevolmente solo virtuali – anziché poter essere utilizzati per ridurre i debiti contratti dovranno essere dirottati per pagare gli interessi sulle nuove emissioni.
E’ la classica situazione del cane che si morde la coda, dalla quale venir fuori appare sempre più difficile, in quanto la crisi in atto, oltre che puramente economica, è di natura politica e di fiducia dei mercati internazionali nella politica. Nella capacità riconosciuta al governo Berlusconi, squassato da continui e inarrestabili scandali personali che coinvolgono il premier e dalle guerre intestine al partito che lo esprime, di tener fede agli impegni assunti per il risanamento.
Da qui un coro quasi monotono di proteste da parte dell’opposizione – divenuta oramai maggioranza in base ai sondaggi – affinché il divino Silvio si faccia da parte e lasci gli spazi per il varo immediato di un governo di riconciliazione nazionale, aperto a tutte le parti politiche, che si assuma l’onere di gestire la terribile crisi in atto e di riguadagnare il livello di credibilità internazionale essenziale in frangenti come questi. E questa richiesta non proviene solo dalle opposizioni, ma è una convinzione che si sta facendo strada anche in alcune componenti della maggioranza, nella quale il malumore serpeggia da tempo e il panico di un disastro alla tornata elettorale del 2013, – sempre che si riesca ad arrivare a quella scadenza ancora in sella, che falcerà decine di poltrone, - si fa sempre più acuto.
E’ l’affondamento del Titanic quello in atto, un naufragio in cui la ricerca della salvezza propria sta facendo emergere vere e proprie lotte senza esclusione di colpi e che coinvolge persino donne e bambini. Ed è un naufragio per tanti versi annunciato, ma non per questo meno drammatico, dato che i mezzi di soccorso che si sarebbero dovuti approntare sono stati spocchiosamente sottovalutati da chi doveva organizzarli per tempo. In primo luogo dallo stesso Berlusconi, che sino a tempi recentissimi ha negato l’esistenza di un pericolo crisi e, anzi, ha inveito persino con volgarità contro coloro che lanciavano allarmi o, addirittura, gli chiedevano di destarsi dal trip auto-ipnotico in cui è sembrava caduto per lungo tempo.
Quei soggetti, tuttavia, non erano untori, come voleva farli apparire il Cavaliere, ma solo persone di buon senso che osservavano i dati reali e non avevano la mente obnubilata dai bunga-bunga o dai decolleté di mercenarie disposte a tutto pur d’emergere dal guano nel quale strisciano ogni giorno.
D’altra parte è anche vero che un paese non può essere governato con la menzogna, anche la più ingenua e pacchiana, sullo stato dell’economia o la solidità dei suoi fondamentali. Né quattro slogan da venditore di lattughe, come quelli del non mettere le mani in tasca agli italiani, - peraltro contraddetti platealmente dalla dissennata politica di controllo di prezzi e tariffe, schizzati verso l’alto a causa dei folli provvedimenti di tartassamento dello stato sociale, - potevano ingannare i mercati: quegli slogan sono serviti a pennello per irretire parecchi dei cerebrolesi che hanno creduto alle infime panzane di un premier attinto dall'avanspettacolo o si sono fatti abbagliare dall’ingente ricchezza ostentata, senza chiedersi cosa ci fosse dietro, da un’uomo cui stava a cuore solo la ricerca di un metodo sicuro per la propria impunità.
E’ proprio in quest’epilogo che acquisiscono ancora più valore le parole che pronunciò Veronica Lario al momento della sua rottura con il premier: è un uomo ammalato, che avrebbe bisogno di cure, ma che è circondato da consiglieri fraudolenti, opportunisti e feccia di vario genere, che di quella malattia approfitta per proprio tornaconto, rinforzandogli la convinzione di essere onnipotente e indistruttibile.
Ma la dura realtà e governata da fatti, non dalle parole dei ciarlatani di turno. Chissà se, al pari del suo venerato amico Muammar Gheddafi, altro prototipo di slogan e demenziali menzogne, anche il Cavaliere si renda conto che anche per lui l’ora della resa dei conti è assai vicina.


giovedì, settembre 08, 2011

Manovra economica: un gravissimo vulnus per l’Italia

Giovedì, 8 settembre 2011
«Ebbi a dirvi qualche tempo fa che eravamo sull’orlo di un precipizio. Bene, dopo aver messo in campo tutto ciò che era in nostro potere, è con grande soddisfazione che oggi posso affermare che abbiamo fatto un passo in avanti!»
Queste qualche anno fa furono le illuminate parole del presidente di una delle tante repubbliche africane e queste sembrano le conclusioni cui ci sta conducendo la dissennata e disgraziata politica del governo di Silvio Berlusconi e di Bossi: la caduta in un baratro economico e sociale dal quale riemergere sarà assai difficile.
D’altra parte da un presidente del consiglio che non ha esitato a definire l’Italia, - quell’Italia che gli ha permesso d’ingrassarsi con mille imbrogli, - «un paese di merda» e da un bifolco, sdoganato dall’ignoranza becera di un manipolo di egoisti e illusi con il sogno demenziale di una Padania indipendente, cosa ci si poteva attendere? Il quesito sarà anche tardivo, ma certamente è nella mente di moltissimi di coloro che, anche in assoluta buona fede, nella sventurata tornata elettorale del 2008 hanno dato il loro voto al duo in questione.
Governeranno, probabilmente e salvo che la rabbia popolare o la misericordia divina non intervengano prematuramente a toglierci quest’amaro fardello, sino al 2013, data dalla quale, sembra ormai scontato, entrambi, con annessi partiti e cialtroni al seguito, se non scompariranno del tutto, saranno drammaticamente (per loro) ridimensionati e messi in condizione di non nuocere per parecchi anni.
Nel frattempo dovremo sopportarci la loro nauseante presenza accompagnata da miserabili sceneggiate a base di persecuzioni bibliche verso i lavoratori dipendenti, gli impiegati dello stato, i poveracci, i meridionali e tutte le categorie che non fanno parte delle losche élite in grado di far scattare adeguati ricatti nei loro confronti e, dunque, che godono di laidi privilegi ai danni della maggioranza della collettività.
Sono questi i grandi evasori, magari allenati mazzettisti di lungo corso, parecchie categorie professionali come avvocati, ingegneri, architetti e un sottobosco maleodorante fatto di commercianti di beni di lusso, che risultano sistematicamente poveri in canna, con redditi di gran lunga più modesti dei loro impiegati di più basso livello. Sono questi anche i membri di quella congregazione esclusiva di politici che appestano senato, camera dei deputati e posti di sottogoverno, che rifiutano ogni sacrificio anche minimo ai loro scandalosi privilegi.
Dopo la tragicomica farsa del varo della manovra economica, contrassegnata da decisioni e controdecisioni, da emendamenti contraddittori e di colpi di mano oltre ogni ridicolo, alla fine i nostri valente governanti sono riusciti a realizzare ciò che avevano giurato non avrebbero mai fatto, come toccare per l’ennesima volta il sistema pensionistico – la dichiarata linea Maginot dei leghisti – e la tassazione, affondando le mani nelle tasche degli italiani in maniera inaudita. Naturalmente ciò che appare in modo sempre più evidente come un borseggio bello e buono senza destrezza s’è concentrato sui soliti noti, cioè sui lavoratori dipendenti, a reddito certificato e controllabile, mentre nei confronti degli evasori certi e della folta casta dei privilegiati con redditi da lavoro autonomo, dopo un’orgia ridicola e confusionaria di chiacchere e roboanti dichiarazioni, nulla s’è fatto, lasciando così intatti gli eterni privilegi di pagare pochissimo e occultare al fisco moltissimo.
Ma se tutto questo non bastasse, ecco che anche l’incremento di 1 punto percentuale dell’IVA ha inferto un ulteriore mazzata alla maggioranza dei cittadini, - considerato che l’incremento impositivo indiretto andrà a colpire i prezzi finali dei beni e, dunque, le tasche di chi aveva già poco. Senza trascurare, inoltre, che l’aumento dell’imposta, in una realtà che proprio qualche ora fa è stata data per agonizzante dalle previsioni di crescita anche per il prossimo anno, produrrà un ulteriore appiattimento dei consumi e una progressione della contrazioni della produzione e del PIL.
Ciò non significa che qualche misura, anche impopolare, non dovesse esser presa. Ma anche la comune massaia, senza scomodare provetti economisti, sa che qualora ad un aumento dell’imposizione indiretta fosse possibilmente corrisposto un decremento della tassazione diretta sui redditi un qualche beneficio sarebbe derivato sulle prospettive di crescita. Le decisioni assunte , invece, fanno precipitare il Paese nella tipica situazione di stagflazione, cioè stagnazione e inflazione, dalla quale uscire, specialmente in una situazione di crisi mondiale generalizzata, è impresa assai ardua.
In questa prospettiva, quantunque appaia un inutile richiamo quello al senso di responsabilità e ad una dignità sempre più labili, l’unica soluzione è che questo governo di balordi scriteriati, approfittando anche della significatività della data dell’8 settembre se ne vada a casa, - La Russa, che certamente se ne intende, potrebbe indossare i panni di novello Badoglio e comunicare la decisione, - consentendo così la formazione di un esecutivo di salvezza nazionale, in grado di presidiare con maggiore efficacia di quanta ad oggi dimostrata i meccanismi di gestione della crisi. A questo esecutivo il compito di traghettare la nazione a nuove elezioni, possibilmente con nuovi strumenti legislativi di votazione, che inibiscano a comparse, leccapiedi e portaborse di sedere in parlamento con l’unico scopo di far numero e supportare con pedissequa obbedienza le scellerate pantomime di un Silvio Berlusconi ormai decotto e sempre più preoccupato di farla franca dalle innumerevoli malefatte personali consumate prima e dopo la sua strumentale comparsa nella politica attiva. Questo cambiamento radicale di scenario è ciò che darebbe al Paese anche quel necessario recupero di credibilità internazionale, senza la quale si rischia di restare in ostaggio di una speculazione costantemente in agguato e pronta a trar profitto di ogni debolezza palesata quotidianamente dal governo in carica.