domenica, novembre 30, 2008

Politica: affarismo o gestione del bene comune?

Domenica, 30 novembre 2008
Se si cerca su Wikipedia, la libera enciclopedia di internet, il termine politica, si troverà la seguente definizione: “Secondo un'antica definizione scolastica, la politica è l'arte di governare le società. Il termine, di derivazione greca (da polis "πόλις", città), si applica tanto alla attività di coloro che si trovano a governare (per scelta popolare in democrazia, o per altre ragioni in altri sistemi), quanto al confronto ideale finalizzato all'accesso all'attività di governo o di opposizione. Volendo tentare una definizione [più articolata, ndr] potremmo dire che la politica (dal greco πολιτικος, politikós) è quell'attività umana, che si esplica in una collettività, il cui fine ultimo - da attuarsi mediante la conquista e il mantenimento del potere - è incidere sulla distribuzione delle risorse materiali e immateriali, perseguendo l'interesse di un soggetto, sia esso un individuo o un gruppo. La prima definizione risale ad Aristotele ed è legata al termine polis, la città, la comunità dei cittadini; politica, secondo il filosofo Ateniese, significava l'amministrazione della polis per il bene di tutti, la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano. Altre definizioni, che si basano su aspetti peculiari della politica, sono state date da numerosi teorici: per Max Weber la politica non è che aspirazione al potere e monopolio legittimo dell'uso della forza; per David Easton essa è la allocazione di valori imperativi (cioè di decisioni) nell'ambito di una comunità; per Giovanni Sartori la politica è la sfera delle decisioni collettive sovrane”.
Come si tratta di un concetto assai complesso, che indica l’attività umana di gestione delle risorse collettive e l’indirizzo della loro godibilità in un dato agglomerato sociale. Tali modalità gestionali e di fruibilità sono diversificate dal modo con il quale la politica medesima esercita la sua sovranità, si costituisce in sistema politico di governo. Pertanto, avremo sistemi democratici, totalitari, monarchie, direttori e quant’altro in funzione di scelte rispondenti alle indicazioni della maggioranza dei cittadini o alla capacità di minoranze di imporre le proprie o all’affermazione della leadership di singoli soggetti.
Ciò che comunque sembrerebbe accomunare le categorie elencate sommariamente è il concetto di bene collettivo, che in una concezione aulica non può non intendersi che come beneficio distribuito a favore della più ampia moltitudine di cittadini compresi nell’aggregazione socio-geografica di riferimento.
Tale assunto si è tuttavia rivelato storicamente sostanzialmente teorico, poiché nella pratica è stato molto spesso contraddetto dalle vocazioni non sempre cristalline di chi ha esercito il potere delegato, esente da meccanismi di controllo o per negligenza dei cittadini o per delegittimazione dei meccanismi medesimi ove previsti, con la determinazione di conseguenti derive autorefenziali che hanno fortemente indebolito il vincolo primario tra governanti e governati.
Sebbene sia dagli albori della storia dell’uomo che chi detiene il potere o chi lo assume ne fa un esercizio al servizio del proprio privilegio, mai come nell’era moderna il governo della cosa pubblica è stato un vero proliferare di affarismi d’ogni sorta gestiti a vantaggio di un’élite, che attraverso il condizionamento di chi assume i provvedimenti, emana le leggi, dispone misure amministrative, determina condizioni “lecite” per accumulare denaro e prestigio ed accrescere l’originario potere di condizionamento. La stessa partecipazione agli organismi decisionali è divenuto un elemento di potere a beneficio di coloro che ne fanno parte, grazie al distorto uso di mezzi di compensazione di tale partecipazione, spesso esageratamente elevati e che prescindono da qualsiasi rapporto equilibrato tra impegno effettivo, risultato realizzato ed equità. Ciò ha generato un pernicioso sistema carrieristico-professionale della politica che dà a sua volta origine a guerre per bande per accaparrarsi i limitati posti nei consessi di rappresentanza, senza esclusione di colpi, che certamente pone al fondo della scala gerarchica le esigenze della collettività ed il rispetto dei mandati ricevuti, con l’evidenza di una caduta etico senza precedenti.
In questo quadro di imbarbarimento dell’etica democratica e politica, emerge una nuova deontologia, quella spregiudicata del malaffare e dell’opportunismo bieco, tradotta sapientemente con la metafora “la politica è l’arte del possibile”, che non sta a sottintendere la magnificazione delle virtù diplomatiche, quanto la capacità di barattare come in un mercato del bestiame qualunque nefandezza, qualunque sconcezza pur di realizzare un tornaconto per ciascuna delle parti in causa.
Questa constatazione, che suona come la campana a morto per l’ideologia, - quella nobile, intesa come analisi delle idee ed elaborazione di una personale visione del mondo, non come sovrastruttura dottrinale e indotta dal credo dominante, - ha in conclusione fatto precipitare le società moderne i una sorta di pragmatismo neo-empirista, in virtù del quale non è giusto ed equo ciò tende a realizzare un sistema ideale, ma è lecito ed utile solo ciò che corrisponde ai principi sanciti da chi detiene il potere, in una prospettiva monopolizzante che disconoscenze il valore del dissenso e la sua capacità di rappresentare una molla evolutiva per il conformismo di massa. Il potere dominante a questo punto assume il vero e proprio volto protervo del regime, l’espressione manichea dell’esercizio della ragione di chi governa, che nel massimo delirio della sua autoreferenzialità assume come nemico pronto a sovvertire dell’ordine costituito chiunque esprima dissenso dalla sua linea, con ciò soffocando ogni libertà.
E’evidente che davanti a questa degenerazione nell’esercizio del potere che parlare di democrazia ha scarso se non del tutto vuoto senso, poiché il vero problema è oggi quello del ripristino dei meccanismi minimi di controllo del sistema politico e la riattribuzione ai cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti e di conferire loro mandati vincolanti. E sino a quando questo processo non sarà compiuto, rompendo lo straripante potere delle oligarchie affaristiche che scelgono avulsamente i rappresentanti, la loro posizione in lista di eleggibilità, lo spazio della loro autonomia operativa e quanto interferisca con le rispettive prerogative, il sistema è destinato a degradare inesorabilmente, relegando gli individui al ruolo di sudditi e non di cittadini.

martedì, novembre 25, 2008

Enzo Biagi e i maramaldi senza vergogna

Martedì, 25 novembre 2008
Se si prova a chiedere all’uomo della strada chi fosse Enzo Biagi la risposta immediata sarebbe senza alcun dubbio “un grande giornalista”, un uomo che ha interamente dedicato la propria vita alla professione, con onestà e trasparenza e, soprattutto, con il massimo rispetto per gli avversari.
Ciò non significa che il rispetto mostrato per gli altri gli sia stato ricambiato, essendo stato silurato dalla RAI, con la quale aveva collaborato per tantissimi anni, per non avere ostentato compiacenza al potere dell’epoca. In tanti ricorderanno il vile provvedimento con il quale furono allontanati lui e Santoro da un potere politico squadrista a cui è invisa ogni forma, garbata o aspra che sia, di dissenso o di sospetta propaganda antiregime, alla faccia della democraticità tanto dichiarata.
Personalmente, non abbiamo mai amato Biagi, per lo stile ed il modo un po’ gigione di raccontare la realtà. Ma questo nulla toglie al valore professionale di un uomo, che non deve necessariamente piacere affinché gli sia tributato il giusto riconoscimento per quanto ha fatto e l’onestà intellettuale con la quale ha portato avanti le sue idee.
Adesso il nome di Biagi torna alla ribalta. E questa volta finisce per creare anche una diatriba nella fazione dei suoi carnefici, qualcuno dei quali, non pago, mostra un non sopito accanimento anche verso la memoria del grande professionista, che Letizia Moratti, sindaco di Milano, intendeva insignire con la medaglia d’oro in occasione della consegna degli Ambrogini d’Oro per l’anno 2008 nel corso della prevista manifestazione del 7 dicembre prossimo.
Invano la Moratti ha insistito, dichiarando che l’assegnazione della medaglia alla memoria costituisce «un atto dovuto per la città». Diversamente la pensano i suoi amici di coalizione di AN e Forza Italia, che osteggiano la proposta del primo cittadino. «Credo che Milano gli abbia già dato tutto: non è con la rincorsa alle medaglie che si riconosce l’importanza di una persona», ha affermato Giulio Gallera, capogruppo di Forza Italia, cui ha fatto eco Carlo Fidanza, capogruppo di AN, secondo il quale sarebbe «strumentale continuare a insistere candidandolo: il suo valore è già stato riconosciuto con il Famedio e l’Ambrogino», che sembra farne solo una questione di quantità di riconoscimenti, prescindendo dall’effettivo valore dell’uomo.
La vera ragione dello scontro viene comunque fuori dalle parole di Matteo Salvini della Lega, che a margine della querelle ha affermato: «Potrei anche dire sì, ma solo se il centrosinistra avesse l’onestà di riconoscere che è stato un uomo di parte». Come dire che è attribuendo improbabili paternità di pensiero ad un Biagi che non risulta abbia mai bazzicato collettivi e circoli di sinistra che sarebbe possibile rivalutarne la memoria.
Francamente lo scontro ci sembra solo disgustoso. Né certe prese di posizione possono giustificarsi con lo schieramento compatto del centrosinistra con l’iniziativa della Moratti, poiché non è ammissibile che la memoria d’un uomo, comunque dal merito riconosciuto, posso divenire argomento di scontro politico o, peggio, di squallida speculazione.
A breve, comunque, sarà riunita la commissione che dovrà decidere e c’è da augurarsi che non venga trasformata nel solito ring nel quale le opposte fazioni si misureranno a colpi di voto di maggioranza. Anche perché se per qualche mediocre ogni occasione è buona per inventarsi la trasparenza ed emergere all’onore della cronaca, pur se questo gli costa il disprezzo del comune cittadino, non è certo con queste azioni maramalde che può mutare il giudizio della gente su di un uomo al di sopra d’ogni sospetto.

giovedì, novembre 20, 2008

I metodi dell’onorata società



Giovedì, 20 novembre 2008

La vicenda Renato Villari sta mettendo a nudo ciò che sembrava un semplice sospetto, cioè che dietro la mancata elezione di Leoluca Orlando alla presidenza della Commissione di Vigilanza RAI ci sia stato più di un semplice atto di piratesco colpo di mano della maggioranza. La conferma a questi sospetti arriva da un episodio, - di mala politica potremmo dire, - accaduto qualche giorno fa e che da qualche ora sta diventando motivo di scontro e resa dei conti all’interno del PD con il suo alleato IdV, cui fa parte il trombato Orlando.
Il tutto si riconduce alla trasmissione Omnibus andata in onda su La7, che vedeva la partecipazione di Italo Bocchino (AN), Nicola Latorre (PD) e Massimo Donadi (IdV) dibattere sulla questione della mancata elezione di un presidente alla Commissione in questione, presidente istituzionalmente previsto in quota all’opposizione, alla quale spettava la scelta di un nome da proporre all’assemblea dei votanti. Si vede, infatti, che nel corso della trasmissione Latorre passa all’avversario Bocchino un “pizzino “ , con il quale suggerisce all’esponente della maggioranza, incalzato dal fuoco di sbarramento di Donadi, la risposta da fornire, - che la dice lunga sui rapporti collaborazionisti possibili nel nostro quadro politico malato.
La vicenda, denunciata da Striscia la Notizia, e divenuta rapidamente la prova provata di un’intesa sotterranea tra maggioranza ed esponenti dell’opposizione tendente a silurare il candidato Orlando, ha costretto Antonello Piroso, direttore di La7, ha mostrare al telespettatori di Omnibus il “pizzino” incriminato, che né Latorre Né Bocchino avevano avuto l’accortezza di distruggere dopo esserselo scambiato, cosa che ha comprensibilmente mandato su tutte le furie il leader di IdV, Antonio Di Pietro, oltre che parecchi esponenti dello stato maggiore del PD, che avanzano l’ipotesi che, in realtà, l’operazione sia il sintomo dell’ennesimo capitolo della guerra mai sopita tra veltroniani e dalemiani, mirante ad indebolire la leader del segretario del PD con il metterlo in difficoltà davanti ad un alleato considerato da più parti scomodo se non addirittura concorrenziale rispetto alla linea di partito.
Nel filmato mostrato da Piroso si vede, infatti, il senatore Latorre estrarre una penna e scrivere sul lembo di un quotidiano un appunto e poi passare lo stesso giornale a Bocchino, in evidente difficoltà sotto la gragnola di domande di Donadi. «Se voi ci avete detto no a Pecorella - dice Bocchino - perché noi non possiamo fare altrettanto con Orlando?». Passa qualche minuto e Latorre toglie ancora di mano al’esponente di AN il giornale. Questa volta è per strappare il bordo scritto a mano. Ma commette un errore: avrebbe dovuto distruggerlo. E invece i giornalisti di La7 lo recuperano a fine trasmissione ed Antonello Piroso, sull’onda del clamore sollevato dalla denuncia di Striscia la Notizia decide di svelare cosa c'era scritto sul bordo del giornale: “Io non lo posso dire. E la Corte Costituzionale? E Pecorella?”.
Le reazioni dell’IdV arrivano puntuali. «Lo scambio del pizzino fra La Torre e Bocchino dell'altro giorno ad Omnibus è la dimostrazione che in questo paese esiste un rapporto malato tra media, politica ed affari», dice Donadi. «Che un rappresentante dell'opposizione, mio alleato» - aggiunge - «suggerisca a un autorevole esponente della maggioranza come attaccarmi durante un dibattito televisivo, è una rappresentazione visiva della politica del compromesso, che mira solo all'esercizio del potere. L'Italia dei Valori è il peggior nemico di questa politica e per questo siamo bersaglio persino di una parte dei nostri alleati». Anche Silvana Mura, parlamentare dell’IdV non risparmia il suo sdegnato commento al comportamento di Latorre: «Imbeccare un avversario politico su come mettere in difficoltà un alleato, è un modo vecchio di fare politica basato sugli intrighi di palazzo, le doppie verità e sull'inciucio». L’episodio di certo «contribuisce a far perdere credibilità alla politica e ci piacerebbe che il Senatore Latorre avesse almeno l'onestà intellettuale di spiegare il motivo del suo gesto», conclude Mura.
Sul fronte opposto, pur nell’intuibile imbarazzo, le dichiarazioni di qualche esponente del PD non sono servite a smorzare la polemica. Anzi le dichiarazioni di Francesco Boccia, deputato del PD, assurto tempestivamente a difensore d’ufficio di Latorre, non hanno che buttato benzina sul fuoco. «La vicenda del senatore Latorre si iscrive in una delle tante vicende che accadono e come tale andava valutata.» - dice Boccia - «Invece in queste ore la sensazione più evidente è che si stia utilizzando questa vicenda per rifare le liste dei buoni e dei cattivi. Il senatore Latorre ha fatto un errore di leggerezza, non penso che ci fosse quella malafede poi attribuitagli più dalla stampa e dai suoi amici di partito che dagli avversari. Quell'appunto scritto dal senatore Latorre è stata una goliardata fatta male, capita male, un errore, ma che anche questa vicenda si trasformi in una contesa tra dalemiani e veltroniani». Sostiene infine l’esponente del PD che «da questa vicenda dobbiamo uscirne con un chiarimento politico che deve avvenire a breve. Veltroni è il segretario di tutti, a lui chiedo chiarezza e il coinvolgimento di tutti coloro che vogliono che questo sia davvero un partito di massa. Non vorrei che dal mito di Obama si fosse tornati a quello di Stalin». E le argomentazioni, ancorché esagerate da riferimenti a metodi politici improponibili, denotano il profondo nervosismo che serpeggia nel partito d’opposizione, incapace oggi più che mai di mettere da parte giochetti e mezzucci che nulla hanno a che condividere con il contributo riformistico che si attende il Paese, e puntare a proporsi come alternativa seria e credibile dell’attuale compagine di governo, superando scriteriate divisioni e faide interne.
Certo, il trascorrere del tempo sta sempre più dimostrando che la matrice culturale che contraddistingue le componenti confluite nell’attuale PD è fortemente diversificata e lungi dal realizzare quella convergenza di strategie ed obiettivi così pubblicizzati nelle premesse di fondazione del nuovo partito, rimasto oggi più che mai una sigla e non un aggregato vero d’indirizzi condivisi. Il PD nei fatti si sta rivelando una signora attempata alla quale la chirurgia plastica ha dato l’illusione di avere acquisito una giovinezza, se non addirittura un’identità, clamorosamente smentita dai vizi acquisiti con la vera età anagrafica. D’altra parte e contrariamente alle illusorie convinzioni dei promotori di un’operazione rivelatasi solo trasformista, sono in tanti ancora a chiedersi quali affinità elettive potessero mai esistere tra un Veltroni ed un Rutelli, tra un Franceschini ed un Bersani, giusto per citare nomi a caso, se non forse nell’opposizione alla prassi ed alla visione politica di un Berlusconi pigliatutto, ma non certo nell’interpretazione di principi di equità, giustizia sociale, superamento delle barriere classiste nella distribuzione della ricchezza e quanto ideologicamente alla radice di movimenti di massa, che non possono cancellarsi nello spazio di un mattino con congressi e tecnicismi ingegneristici.
L’errore esiziale commesso dai DS e che si sta perpetuando nella componente PD che da quell’esperienza deriva sta proprio nell’aver opzionato compagni di viaggio che nulla hanno a che spartire con quei principi cardine. E non erano certo in errore Mussi o Diliberto quando guardavano all’operazione PD come al tentativo egemonico di una sinistra illusa di accaparrarsi il consenso con argomentazioni indigeribili per la maggior parte di quanti nella sinistra storica, quella vera e delle rivendicazioni nascenti dalle difficoltà quotidiane delle classi storicamente emarginate della società italiana, erano nati ed avevano creduto. L’operazione PD, in conclusione, si è rivelato solo un fallimentare tentativo di costruire un’opposizione duttile, alternativa di una compagine maggioritaria nel Paese, che ha conservato intatti i connotati di un capitalismo disuguagliante ed infarcito dalla chimere di successo alla portata di tutti, convinto di potersi affermare grazie all’eguaglianza del linguaggio ed all’esibizione di personaggi non compromessi con un passato di lotte condotte con metodi non sempre condivisi.
La scomparsa di Bertinotti e di altri esponenti politici che questa assenza di compromissione non avevano non è andata però ad ingrossare le fila dei nuovi profeti del buonismo lezioso, ma sterile. E’ andata alla Lega, a quella compagine sì odiosa ed arrogante, ma capace di tutelare le istanze dei propri aderenti anche con l’arma della minaccia e del ricatto se necessario e, dunque, sicuramente più credibile ed incisiva.
Dice bene chi sostiene che la politica ha bisogno di un ricambio di volti e, aggiungiamo noi, di metodi. Non è più il tempo dei buonismi fine a se stessi né delle prediche sulla necessità di imbastire collaborazione con chi di questa collaborazione in forza dei numeri può anche fare a meno; men che meno è il tempo di esternare lamentazioni per non essere tenuti nel dovuto conto di fronte alle emergenze del Paese. L’opposizione rinasce e si consolida solo se riuscirà a rinnovare la stagione delle lotte, dell’interdizione allo strapotere ubriacante di forze spadroneggianti tra l’indifferente assuefazione di quanti non hanno più punti di riferimento e devono necessariamente pensare alle loro tragedie quotidiane, dato che chi dovrebbe rappresentarli perde il proprio tempo a passar pizzini, come Provenzano o Lo Piccolo, piuttosto che pensare a loro. E con l’attuale leadership politica d’opposizione questo non sembra possibile.

(nella foto, il senatore Nicola Latorre)

martedì, novembre 18, 2008

Vigilanza RAI, un peone inchioda la sinistra


Martedì, 18 novembre 2008
Non c’è speranza. Il nostro sistema politico è affetto da una malattia incurabile, deturpante. E come le malattie peggiori, quelle altamente infettive e ripugnanti, anziché suscitare pietà vera, come talora opportunisticamente si afferma, da qualunque angolazione si guardi rende la politica ormai invisa al cittadino comune, quello che s’alza alle sei del mattino e che va a lavorare per qualche migliaio di euro al mese e non intende più capire le ragioni di coloro che, per diciannove volte ciò che lui porta a casa, pascolano a Montecitorio e Palazzo Madama facendosi dispetti e ripicche da mattina a sera, in un gioco senza fine.
Adesso è la volta di un certo Villari Riccardo, signor nessuno sino ad ieri, assurto all’onore della fiction parlamentare grazie alla sua elezione alla presidenza della Commissione di Vigilanza RAI in dispetto a Di Pietro e Veltroni, che da sempre sostenevano l’invisa candidatura di Orlando per tale incarico.
Invece, con un colpo di mano magistrale, facendo carta straccia di ogni regola istituzionale, il PdL ha concentrato i suoi voti su Villari, forte del suo peso maggioritario, e lo ha eletto alla presidenza della Commissione schiaffeggiando l’opposizione e buttando il seme della querelle all’interno di una sinistra che, francamente e al di là del suo peso specifico, nelle mani di Veltroni appare sempre più incapace di farsi valere e rispettare come soggetto politico d’opposizione da una maggioranza sempre più priva di scrupoli e decisa ad imporre le sue regole.
Quel che frastorna, comunque, non sono tanto le imboscate, che in politica sono un hobby consueto, quanto le reazioni della sinistra e di Villari in particolare, che, a sgarro incassato, ondeggiano tra minacce di espulsione dal PD del valente senatore e la dimostrazione di attaccamento alla poltrona dell’interessato, a cui non dev’essere sembrato vero che dall’oscurità in cui era confinato il suo nome è assurto nella schiera dei VIP, di quelli che contano e comandano.
Da qui il balletto inaudito di richieste di dimissioni gridate a gran voce da Veltroni & C. alla volta di Villari, - che in tutta onestà non può sostenere la legittimità della sua elezione grazie ai voti del “nemico”, - e le mielose dichiarazioni di un Villari, che si appella al senso di responsabilità che gli sarebbe dovuto dall’incarico istituzionale e che subordina le dimissioni all’esito di incomprensibili colloqui con Fini, Schifani e Napolitano, prima, ed all’individuazione di un candidato alternativo e condiviso, poi, dimentico che un incarico come quello assegnatogli per sfregio equivale a sedere in paradiso a dispetto dei santi.
Francamente, - se come ci vorrebbe far credere è in buona fede, - ci saremmo attesi che il signor senatore Villari rifiutasse l’incarico un istante dopo la conclusione dello scrutinio, così come ci saremmo aspettati che il buonista ad ogni costo Veltroni assumesse il provvedimento di radiazione per indegnità dal PD del soggetto in questione dopo sessanta secondi dal suo primo tentennamento. Il fatto che ciò non sia avvenuto emana sgradevoli effluvi lontano un miglio, sebbene non sia lecito processare le intenzioni o in assenza di indizi consistenti. In entrambi i casi, comunque, si sarebbe dato al Paese un segnale inconfutabile che la sinistra, questa sinistra sedicente rinnovatrice e popolare, è cosa ben diversa in quanto a metodi, senso delle istituzioni e della chiarezza da coloro che governano.
Invece no. Si conferma che in quanto a manfrine e populismo questi signori non sono diversi da coloro che accusano di vecchi metodi e di arrivismo, oltre che di opportunismo tattico.
Ma sono effettivamente coscienti Veltroni, Franceschini, D’Alema, Di Pietro, Rutelli e tutto lo stato maggiore dell’opposizione del tempo che ha perso il Paese, - quello vero e che si rompe la schiena per quella pingue prebenda da mille euro al mese, - per assistere a questa moina inqualificabile? Pensano veramente che all’operaio della Fiat o all’impiegato dell’Alitalia interessi qualcosa di chi siederà alla guida della Commissione di Vigilanza RAI? Quest’operaio e quell’impiegato, - magari qualcuno dei due in procinto di perdere il lavoro, - vuol sapere come potrà pagare il conto del droghiere sotto casa e poco è interessato a queste squallide vicende di potere, che non danno valore aggiunto nell’alleviare il suo dramma quotidiano.
Ciò che resta comunque impressa nella percezione del cittadino è che, comunque la si giri, al momento della spartizione della torta destra e sinistra discutono, s’accapigliano, s’attaccano alla sedia, minacciano e non arrivano mai a niente, e lui, solo lui, checché ne dicano ipocriti e venditori di fumo, sarà il solo chiamato a pagare il conto e portare la croce.

(nella foto, il senatore Riccardo Villari neo-presidente della Commissione di Vigilanza RAI)

Crisi economica e fallimento dell’economia di mercato

Martedì, 18 novembre 2008
Il perdurare della crisi economica internazionale sta sempre più creando le condizioni per una fase estremamente negativa per i singoli paesi, oggi in evidente fase recessiva.
L’economia non si espande più, anzi è in recessione, è fortissime ripercussioni si registrano sulle previsioni di PIL, che determinano una spirale negativa anche sulle prospettive di medio termine di invertirne la tendenza.
Non si tratta di semplice stagnazione per il processo economico, poiché le aspettative negative inducono i comportamenti di imprese e consumatori rispettivamente ad una contrazione della produzione e ad una limitazione della spesa, con l’intento di fronteggiare il costo dei fattori di produzione, - materie prime, energia, costo del lavoro, - e, per i cittadini, di dirottare la liquidità residua alla spesa primaria con criteri progressivamente selettivi. Di fronte a questa situazione, nella quale le aziende per vendere, costrette a diminuire prezzi e ricavi, devono assumere provvedimenti di contrazione d’organico, i consumatori vedono il reddito disponibile contrarsi progressivamente a causa della perdita di posti di lavoro e di uno scenario fiscale che mantiene inalterata la sua pressione. Il circolo vizioso, dunque, si stringe come un cappio intorno al collo dell’economia sino a determinarne il soffocamento.
Il processo che si determina assume il nome di deflazione, che ha caratteristiche sostanzialmente inverse a quello inflattivo, ma con effetti deleteri sull’economia di un paese altrettanto perniciosi e necessari di interventi correttivi da parte delle autorità pubbliche, su cui grava l’onere di ricreare condizioni di sviluppo e di rilancio.
La crisi attuale è in ogni caso contraddistinta da un’ulteriore elemento di distonia, poiché ha preso origine dalle forti criticità del sistema finanziario e bancario, a cui tradizionalmente spetterebbe l’onere di innescare comportamenti virtuosi, trainanti del processo di rilancio. Se in fase deflattiva le aziende ricorrono meno al sistema creditizio, a causa la minore propensione a investimenti produttivi, v’è da registrare nella situazione corrente un’accresciuta indisponibilità delle banche ad allargare la propria esposizione, dato che la crisi ha preso origine dal fallimento delle politiche di facilitazione del credito attuate particolarmente dagli istituti bancari americani, sull’onda di un gonfiamento artificioso dei prezzi degli immobili. L’esplosione della cosiddetta bolla speculativa immobiliare ha determinato una reazione a catena, - plausibile in un sistema a globalizzazione planetaria, - che ha portato al fallimento di importanti istituti di credito, dovutosi dichiarare insolventi causa il meccanismo sbilanciato esposizioni-ricavi venutosi a creare. Questo fatto, di per sé dirompente, intervenuto in una situazione mondiale di recessione strisciante, - incremento costante di beni e servizi, aumento di materie prime e prodotti energetici, tendenza al calo occupazionale nei paesi ad economia trainante, ecc., - ha funzionato da catalizzatore del processo di implosione economica.
Ciò che comunque connota la situazione in atto è che, di fondo, ci si trova d’innanzi all’ennesima crisi di un capitalismo incapace di generare condizioni di sviluppo equilibrato e duraturo. Si tratta del sostanziale fallimento delle teorie di sviluppo affidate alle regole di libero mercato, che, nonostante tutto, sembrano ancora radicate nel credo di parecchi capi di governo. E questa non vuole essere un’affermazione preconcetta, poiché all’indomani del G20 di Washington, dove sono state varate misure a sostegno dell’economia dei paese partecipanti, la risposta del sistema reale è stata di segno negativo. Come dire che, le misure preannunciate, non sono stata ritenute sufficienti a determinare la necessaria inversione di tendenza.
Ciò nonostante, Bush, anfitrione del meeting mondiale e presidente di un paese che nel bene e nel male è locomotiva del mondo, ha tenuto a precisare che le misure promesse non avranno interferenza alcuna con le regole del libero mercato, sebbene a qualche ora di distanza la Citicorp, - altro colosso creditizio del Nuovo Continente, - abbia annunciato il licenziamento di 50.000 dipendenti e la General Motors, seconda azienda mondiale nel settore automobilistico, abbia lasciato intendere che sono forti le probabilità di chiusura dei suoi stabilimenti.
La domanda da porsi a questo punto è quale sia la ricetta giusta per avviarsi verso l’uscita da una crisi che non ha pari negli ultimi 80 anni di storia dell’umanità. Le risposte non sono agevoli, non fosse perché lo scenario denota enormi complessità e non è possibile la definizione di una cura che s’adatti ad ogni categoria d’ammalato. Certamente un primo provvedimento dovrebbe tendere a sostenere l’occupazione, se non ad aumentarla, attraverso politiche di alleggerimento degli oneri per le aziende ed il varo di investimenti in opere pubbliche di medio-lungo termine, che avrebbero l’effetto di creare un primo propulsore del sistema economico. Un secondo provvedimento dovrebbe interessare il sistema di accesso al credito, con ribassi dei tassi ufficiali di sconto e con la concessione di mutui creditizi ed a tasso agevolato a lunga scadenza alle imprese che investono in innovazione ed occupazione. Un terzo provvedimento dovrebbe riguardare il coinvolgimento diretto dello stato nelle aziende strategiche, magari a tempo, che svincoli in parte le proprietà private dall’ossessione di una profittabilità sostenuta ed immediata. Un quarto provvedimento dovrebbe riguardare il governo del mercato dei beni di prima necessità, con interventi di calmierazione dei prezzi, rimasti per troppo tempo fuori da ogni controllo. Infine, una revisione dei meccanismi di tassazione diretta avrebbe un effetto salutare sul sistema economico, costituendo in qualche misura un positivo viatico per il rilancio dei consumi, grazie all’aumento del reddito disponibile.La ricetta, che in buona parte potrebbe finanziarsi attraverso l’emissione di prestiti obbligazionari di stato a lunga scadenza, non ha certamente la pretesa di rappresentarsi risolutiva, dato che la sua efficacia dovrebbe preventivamente vagliarsi avendo a disposizione dati molto più analitici di quelli disponibili in queste circostanze; tuttavia, potrebbe rappresentare un buon contributo d’indirizzo. Certo, - per restare nel nostro ambito nazionale, - sino a quando davanti alle emergenze i nostri governati risponderanno mandando a casa oltre 80.000 insegnanti, tagliando la spesa per la ricerca, avvilendo le poste per investimenti pubblici e continuando a ritenere il mercato un tabù dal quale prendere le distanze, in un contesto europeo nel quale a dispetto della vera integrazione si procede a velocità differenziata tra i suoi membri e la maggiore preoccupazione è di salvaguardare il proprio benessere o di limitare i sacrifici per i propri cittadini, non c’è da sperare granché sulla possibilità di raddrizzare una situazione di sfascio economico e sociale. L’euro ha senza dubbio prodotto positive sinergie tra i paesi che vi hanno aderito, ma allo stesso tempo ha imposto, a chi era affetto da qualche disturbo agli arti inferiori, di correre per mettersi al pari con chi queste carenze strutturali non aveva. Ed il futuro delle nostre generazioni non può venire sacrificato in nome di limiti di disavanzo, che, in periodi di magra assumono solo un pittoresco significato di principio e si rivelano solo una mesta pratica per il razionamento delle gallette a chi sta nella trincea. Se le basi fondanti dell’Unione, previste in tempi non sospetti, non reggono di fronte all’incalzare di una crisi senza precedenti, si abbia il coraggio di mutare le regole, considerato che l’Europa Unita è nata per il benessere dei suoi cittadini e non per esaltarne le condizioni di triste povertà. Infine, la vicenda, dalle quale è certo si verrà fuori pur senza poterne intravvedere al momento le condizioni, serva da insegnamento per rendersi più indipendenti nelle scelte dai condizionamenti d’oltre oceano e per rifondare i principi su cui si basa un capitalismo opportunisticamente liberista, ma, di fatto, periodicamente bisognoso di stampelle.

domenica, novembre 16, 2008

Fannulloni e scemenze di stato

Domenica, 16 novembre 2008
L’avevamo previsto ed il tempo ci ha dato ragione. Il Mago di Oz, al secolo Brunetta, ha continuato la sua infaticabile opera di ricerca e, com’era nelle premesse, è pervenuto ad una nuova ed ancor più sconvolgente verità: i fannulloni esistono, sono concentrati nella pubblica amministrazione e, - udite, udite!, - sono di sinistra. Anzi, il binomio sinistra-fannullone è il risultato dell’equazione risolta dal maghetto con la fissa dei tornelli.
Ovviamente, la conclusione se non fosse una vera e propria scemenza di stato essendo stata proferita da un ministro della Repubblica, non potrebbe che suscitare ilarità, poiché in quanto a scientificità si equivarrebbe a qualsiasi cavolata potrebbe attribuirsi alla destra, del tipo che tutti i cretini albergano in quella compagine.
Tuttavia, ad una valutazione più attenta ci si rende conto che il ministro-mago, ancorché avere abusato dei suoi prodigiosi poteri di veggente, in realtà ha solo abusato della sua posizione di ministro per spargere fango sugli avversari, in perfetta sintonia con il suo altrettanto prodigioso capo cordata, Berlusconi, che avrà avuto un fremito di rinnovato apprezzamento per l’acume incomparabile del suo valente collaboratore.
«Il Paese è con me, ma un pezzo del Paese no e me ne sono fatto una ragione. E' il Paese delle rendite, dei poteri forti e quello dei fannulloni, che spesso stanno a sinistra» ha dichiarato trionfante Brunetta, suscitando le immediate reazioni di Epifani, leader della più rappresentativa confederazione sindacale, notoriamente posizionata su posizioni di sinistra. «Ci dia la prova di quello che afferma, perché se non ha prove è un bugiardo. Questi toni non sono quelli necessari per un Paese che sta attraversando una crisi molto grave. Ci vorrebbe più serietà» - ha replicato Epifani - «e attenzione alle cose che si dicono. Soprattutto sarebbe utile misurarsi sulle proposte che sono in campo, cioè l'unica cosa di cui non si parla».
Beccato in flagrante, il ministro-mago, che probabilmente si riserva di svelare a breve il protocollo scientifico con il quale è giunto all’illuminante verità, ha preferito in quest’attesa ammorbidire il senso dei risultati della sua scoperta ed ha aggiunto: «Se è vero che i fannulloni non sono né di destra né di sinistra, ma si sono sempre configurati come una categoria eterna dell'opportunismo lavorativo è altrettanto vero e dimostrato che certo sindacalismo di sinistra ha sempre difeso i fannulloni anche quando questi erano indifendibili. E' altresì vero,» - ha poi concluso sull’argomento, - «che il sindacalismo di sinistra ha sempre rifiutato la meritocrazia, il controllo gerarchico, quello di produttività, premiare i migliori, punire gli opportunisti», con argomentazioni, quindi, che affidandosi al semplice metodo deduttivo la dicono lunga sulla scienza di cui è depositario, nonostante sia professore ordinario di economia alla Ca Foscari di Venezia, quando gli impegni politici gliene lasciano il tempo.
Per dare il classico colpo al cerchio, dopo aver percosso la botte a guisa di grancassa, il buon animo di Brunetta, decisamente inversamente proporzionale alla sua statura, ha sentito il dovere di sviolinare in controtendenza. E così ha tenuto a precisare che «naturalmente nella pubblica amministrazione c'è anche chi fa miracoli. Il problema è che nei servizi pubblici lo Stato è stato quasi sempre distratto, mentre i dirigenti guardavano dall'altra parte. E' un miracolo che la maggior parte dei dipendenti abbia continuato a fare comunque il proprio mestiere. Se qualcosa ha funzionato in Italia è per merito dei dipendenti pubblici, che hanno fatto il loro lavoro», - e ringraziamo Iddio che con il ricorso a questa precisazione ci ha risparmiato la sceneggiata del fraintendimento delle sua affermazioni, così ricorrente nei salotti frequentati da Brunetta.
In ogni caso, siamo certi che la telenovela non sia che all’ennesima puntata, dato che il PD, con una nota di Linda Lanzillotta, ministro della Funzione Pubblica nel governo-ombra del Partito Democratico, avverte: «Attenzione ministro Brunetta, la lotta ai fannulloni può essere sostenuta, e noi lo abbiamo fatto l'altro giorno in commissione Affari Costituzionali del Senato, a condizione che non sia né di destra né di sinistra, ma nell'interesse dei cittadini per bene e per un Paese migliore. Se la lotta divenisse, invece, il pretesto per fare un brutale 'spoil system' o per emarginare nelle amministrazioni pubbliche chi ha idee diverse dal ministro,» - conclude la nota, - «sappia che la nostra opposizione e la nostra azione di denuncia saranno durissime».
Non ci resta che aspettare la prossima alzata d’ingegno del Mago di Oz per capire, al di là dei paroloni e delle promesse che predica a favore della premiazione di chi fa il proprio lavoro, quando smetterà di tediare con gag da cabaret di terza classe e metterà in vece in opera concreti provvedimenti che cessino uno sconcio denunciato solo nei comizi per arruolare il consenso degli allocchi.

G8 2001 – E' l'ora dei pentiti


Domenica, 16 novembre 2008
Bravo Antonio Manganelli. Pur se tardivamente, adesso ha deciso di raccontare la verità sui fatti del G8 e l’indegno pestaggio cui furono sottoposti i manifestanti ospiti delle scuole Diaz e Pascoli di Genova nella notte tra il 21 ed il 22 luglio 2001.
C’è da augurarsi che non sia l’ennesima verità di parte, considerato che 7 anni sono obiettivamente un po’ troppi per raccontare ciò che dai riscontri degli inquirenti e dai filmati realizzati dai cineoperatori di tante televisioni straniere non sembra lasciare alcuna ombra di dubbio: fu un pestaggio in piena regola, un’azione di macelleria criminale come fu definita l’irruzione nei due plessi scolastici, concertata e diretta dai vertici della polizia di stato e dai suoi funzionari presenti sul posto. Tra i manifestanti sorpresi nel sonno, sicuramente, ci sarà stato qualcuno che ai disordini del pomeriggio aveva partecipato, ma l’azione squadrista condotta dai tutori dell’ordine non è per questo meno grave e condannabile.
Cosa voglia adesso raccontare il “pentito” Manganelli non è ancora chiaro, ma non pensi di intorbidire le acque con fantasiose ricostruzioni di fatti che sono tristemente evidenti agli occhi del mondo.
D’altra parte le “sedi istituzionali” nelle quali Manganelli ha lasciato intendere sarebbe pronto a parlare – la Commissione parlamentare d’inchiesta sollecitata da più parti – evidenziano dubbi e perplessità sull’opportunità che la questione trovi nuovo spazio di discussione e approfondimento. Maurizio Gasparri, presidente del PdL al Senato e che come è suo costume blatera assurdi teoremi piuttosto che tacere e risparmiare a chi incappa nelle sue elucubrazioni un incontenibile senso di voltastomaco, riassume in proposito il pensiero del centro destra: «Non esiste alcuna polemica sulla commissione d'inchiesta, perché la maggioranza non ha intenzione di permettere una speculazione in Parlamento ai danni delle forze dell'ordine». Quei fatti, prosegue Gasparri, sono stati chiariti da un processo, e si confida che anche chi è stato condannato «potrà dimostrare la propria innocenza». Il che prova come l’insigne portavoce del PdL al Senato non abbia altro hobby nel suo retroterra che l’addomesticamento della verità e lo stravolgimento dei fatti. Nel dire ciò, probabilmente, ha pensato a Vincenzo Canterini, ex capo del Reparto Mobile di Roma, a cui s’è sentito d’esprimere una cameratesca solidarietà. Ed anche Canterini chiarisce che non diede alcun ordine di eseguire le iniziative oggetto del processo agli uomini che un tempo guidava, che non era alla ricerca di «improbabili rivincite» ed aspetta solo il processo di appello per veder definitivamente chiarita la sua posizione.
Anche il ministro Bossi ha espresso il suo parere sulla sentenza e sui fatti, nel merito dei quali ha comunque ritenuto opportuno non entrare. Si è limitato ad esprimere un giudizio, di velenosa conclusione politica, con il quale ancora una volta ha confermato la pochezza del suo pensiero e l’assenza totale di senso d’equilibrio. «È una decisione della magistratura, quindi, visto che la magistratura è in larga parte di sinistra, significa che ha scelto come vuole la sinistra», ha affermato il leader del Carroccio, con alto senso di obiettività e di aderenza ai fatti.
Mentre comunque all’iniziativa di Manganelli si guarda da più parte con interesse, il Comitato Verità e Giustizia, sorto dopo i tragici fatti, ha già fatto sapere che contro le decisioni della magistratura, il cui giudizio appare tutt’altro che “di sinistra”, come sostiene Bossi, ricorrerà all’alta Corte di Giustizia europea, affinché i fatti, sui quali è mancato “il coraggio di arrivare sino in fondo”, venga fatta definitiva chiarezza e vengono attribuite le adeguate pene a coloro che sono stati gli autori di una delle pagine più vergognose della storia democratica e repubblicana del Paese.
(nella foto, il capo della polizia Antonio Manganelli)

venerdì, novembre 14, 2008

L’arma del ricatto in barba alla sicurezza aerea

Venerdì, 14 novembre 2008
In questo Paese dalla dubbia serietà anche le leggi somigliano alle pelle di certi apparati: tiri da una parte e la interpreti in un modo, tiri dall’altro ed ottieni un’interpretazione diversa.
La legge sulla regolamentazione degli scioperi nei servizi pubblici è sicuramente uno di quei dispositivi che meglio si presta alle interpretazioni, poiché al di là di alcuni punti fermi, come i periodi di interdizione per le astensioni dal lavoro, lascia un certo spazio discrezionale allor quando si renda necessario far rientrare una protesta spontanea o sindacale nella fattispecie dello sciopero a tutti gli effetti o dell'abuso non consentito dalla normativa.
La questione non è di secondaria importanza, poiché in queste settimane di protesta dei dipendenti ex Alitalia non organizzata dalle sigle sindacali ufficiali, si sta assistendo ad una forte turbolenza nell’erogazione del servizio di trasporto aereo e da più parti si invoca l’intervento della Commissione di Garanzia sugli scioperi, che sanzioni i lavoratori in agitazione con il ricorso a forme di protesta contrarie alle norme di legge e le sigle sindacali che garantiscono od organizzano tali forme di protesta.
L’aspetto propedeutico da valutare è se quello dei dipendenti ex Alitalia, che protestano contro le inique condizioni imposte loro dalla CAI e che attuano una pedissequa applicazione dei regolamenti di garanzia della sicurezza volo, possa configurarsi come azione di sciopero o meno. Il che apparentemente può apparire agevole, ma grazie alle interpretazioni, si rivela cosa non pacifica, tant’è vero che Antonio Martone, presidente della Commissione non esclude, - ma ancora conserva qualche dubbio, - di intervenire sanzionando comportamenti che potrebbero qualificarsi illeciti.
Chi non ha dimestichezza con il settore sconosce nella maggior parte dei casi la pletore normativa che grava sul trasporto aereo, per il quale tutto è sostanzialmente codificato – dalla composizione equipaggi ed il loro accesso a bordo, alle norme di sicurezza a bordo, al bagaglio di stiva e quello a mano, alle cintura di sicurezza in dotazione alle singole poltrone ed alla loro efficienza, ai giubbetti salvagente ed ai cartoncini con le norme di evacuazione in caso di incidente, alle luci di bordo per i passeggeri e quelle delle spie cockpit pilota e copilota, alle maschere d’ossigeno ed al sistema di caduta automatica in caso di necessità, sino alla segnaletica aeroportuale, le aree di parcheggio, la velocità di rullaggio e la cadenza oraria di decolli ed atterraggi – ed in questo abbecedario del volo sicuro il comandante dell’aeromobile ed il suo equipaggio sono responsabili della perfetta efficienza del velivolo, da verificare prima dell’inizio di ciascun volo. La mancata efficienza di uno degli apparati previsti dai regolamenti impone un’immediata segnalazione alle squadre di manutenzione, che devono intervenire con il fermo macchina sino al ripristino dell’apparato in avaria.
Da questa descrizione è facile intuire come l’applicazione ligia del regolamento possa determinare un forte rallentamento delle partenze e, conseguentemente, un accumulo di ritardi a catena su tutto il sistema del traffico aereo, ma da qui a qualificare come sciopero il rispetto dei regolamenti francamente ci pare ne corra parecchio. Certo, è innegabile che l’eventuale mancanza di un giubbetto salvagente, come può occasionalmente accadere, potrebbe non costituire impedimento all’operatività, ma allora sarebbe il caso di emendare i regolamenti e non pretendere che il comandante del velivolo si assuma una responsabilità, peraltro sanzionabile a norma dello stesso regolamento.
Né è pensabile che i sacrosanti diritti alla mobilità vengano barattati con inammissibili accomodamenti sulla sicurezza del volo, come adesso si pretenderebbe davanti alla protesta di piloti ed equipaggi ed ai disservizi ai cittadini. Anzi, sarebbe opportuno che la magistratura assumesse i necessari provvedimenti nei confronti di coloro che sino ad oggi hanno disatteso le norme aeronautiche e di quanti istigano alla loro disattenzione e, addirittura, minacciano provvedimenti sanzionatori in conseguenza della loro osservanza. La normativa di decollo ed atterraggio prescrive una tempistica assai precisa degli intervalli che devono essere rispettati tra queste operazioni. Se la frequenza aerea è tale da non consentire l'operatività dei voli previsti entro una fascia oraria con la schedulazione definita, allora si cambi la distribuzione del traffico all’interno della fascia oraria congestionata, ma non si accusi di irresponsabilità un comandante che pretenda di decollare con i margini di sicurezza stabiliti dalle norme e, meglio, si receda da un atteggiamento di sapore intimidatorio che istiga alla disobbedienza.
Non è ancora chiaro su cosa si basino le ipotesi della Commissione. L'unica cosa chiara che appare in questa infinita guerra, messa in piedi da chi aveva probabilmente solo l'interesse di favorire qualche clientela, è colui che deve sopportare il danno: l'utente finale, nella doppia veste di viaggiatore e di contribuente che dovrà sostenere il risanamento dei debiti lasciati da Alitalia.

(nella foto, Antonio Martone, presidente della Commissione di Garanzia sugli scioperi nei pubblici servizi)

Sentenza G8 - L’Italia di Pinochet

Venerdì, 14 novembre 2008
Sono stati necessari oltre sette anni tra indagini e udienze, ma alla fine la verità è venuta alla luce, ha avuto il sopravvento sulle enormi bugie messe insieme da certi inquirenti che volevano screditare l’operato di un gruppo di poliziotti, accusati di violenze inaudite nei confronti di qualche decina di terroristi in erba, sorpresi nella notte tra il 21 ed il 22 luglio del 2001, a bivaccare all’interno delle scuole Diaz e Pascoli di Genova dopo aver devastato la città nel corso della manifestazione contro il G8.
Sì, c’è stata qualche condanna, ma è stata cosa di poco conto rispetto alle richieste della pubblica accusa e comunque ha riguardato esclusivamente qualche sfortunato celerino, che non ha saputo resistere ad un certo protagonismo e s’è fatto riprendere con secchiello e paletta in mano, scambiata dai malevoli per arma impropria: era luglio, piena stagione balneare, e a Genova faceva caldo. Che c’era di strano se i tutori dell’ordine pubblico erano andati a quell’appuntamento armati di corredino da spiaggia? Se qualche innocente bottiglietta di gazzosa è stata poi scambiata per molotov, non prova nella maniera più assoluta che la polizia quella notte abbia voluto precostituire prove fasulle per giustificare la sua irruzione nei plessi scolastici in questione ed attuare il massacrante pestaggio di cui era stata accusata. Anzi è probabile che qualcuno dei presunti pestati si sia cosparso di pomodoro per simulare di essere stato aggredito o si sia ferito da solo al fine di sostenere ciò che la sentenza di ieri sui fatti ha chiaramente dimostrato insostenibile.
Le immagini dei disordini a margine del G8 sono ancora impresse nella memoria di chi ne seguì l’incalzare in diretta televisiva, con gruppi di giovani armati di spranghe usate per devastare o intenti a dar fuoco ad auto e cassonetti incontrati sul loro percorso. Scene di guerriglia urbana mai più viste nel nostro Paese, dai lontani tempi dei disordini del ’68, alle quali parteciparono certamente infiltrati, intenzionati a far crescere la tensione e scatenare una reazione repressiva altrettanto criminale a quella messo in pratica quattro presunti straccioni black-block. Tuttavia, cosa accadde realmente alla Diaz ed alla Pascoli resterà forse un mistero, sebbene la BBC abbia svelato, grazie a riprese televisive rimaste per anni segrete, che quella notte alcune centinaia di uomini in assetto antisommossa improvvisarono un blitz all’interno delle due scuole e si diedero al pestaggio di chiunque, sorpreso nel sonno, fosse nei locali, - probabilmente per dare grande mostra d’efficienza e riscattarsi dall’aver fallito di mantenere l’ordine pubblico nelle vie e nelle piazze in cui avevano sfilato i cortei. Allo stesso modo sono stati immortalati funzionari di polizia ed uomini ai loro ordini che, certamente per giustificare il massacro, introdussero in quella notte nei due plessi scolastici armi improprie e bottiglie molotov, - quest’ultime poi singolarmente scomparse, - con il preciso intento di qualificare i siti in questione come covi di insurrezionalisti in armi, intenzionati il giorno dopo a compiere nuove e gravi violenze.
Di questi fatti ora giustizia s’è compiuta. Sappiamo finalmente che l’operazione non fu coordinata da quei vertici della polizia presenti sul posto (Gratteri, Luperi, Calderozzi, Filippo Ferri, Massimiliano Di Bernardini, Fabio Ciccimarra, Nando Dominici, Spartaco Mortola, Carlo Di Sarro, Massimo Mazzoni, Renzo Cerchi, Davide Di Novi, Alberto Fabbrocini) e che oggi occupano persino posizioni di maggiori responsabilità in seno agli apparati di sicurezza dello stato. Restano in piedi alcuni processi collegati. Il primo è quello a carico di Canterini, imputato di lesioni personali aggravate e di violenza privata, per aver spruzzato gas urticante contro alcune manifestanti presenti in corso Buenos Aires.
Il secondo riguarda la carica avvenuta in quei tragici giorni in piazza Manin: in questo processo sono imputati quattro poliziotti del reparto mobile di Bologna. Un terzo processo riguarda l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, accusato di aver istigato l'ex questore di Genova a rendere false testimonianze nel corso della deposizione al processo sull'irruzione alla Diaz. Con lui sono indagati l'ex capo della Digos di Genova, Spartaco Mortola, e l'ex questore Francesco Colucci. L’udienza preliminare è fissata per il 25 novembre, ma c’è da credere che alla fine anche questi processi si concluderanno con un nulla di fatto, visto l’esito della sentenza per i fatti principali.
La morale che sembra evincersi dalla sentenza è che i fatti furono con ogni probabilità il frutto dell’iniziativa di quattro teste calde, disgraziati da 1200 euro al mese, che decisero di andare a rimproverare dei teppistelli, casualmente tutti insieme, intenti a godersi un ingiusto sonno ristoratore dopo una giornata di sfracelli in giro per la città. Da qui a scambiare qualche buffetto sulla guancia o uno spintone per pestaggio, ne corre ed il tribunale di Genova ha finalmente fatto giustizia di una verità rimasta dubbia per tanti anni.
La sentenza con la quale sono andati assolti i vertici della polizia e sono state comminate miti condanne ad un numero (13 in tutto) risicato dei celerini presenti quella notte, tra le centinaia di poliziotti ripresi a pestare a sangue, non è solo la vergognosa rappresentazione di una giustizia di regime, ma conferma come anche i metodi su cui si fonda questa giustizia hanno subito il fascino della deriva autoritaria, trasformando il nostro Paese in una provincia sudamericana, nella quale l’unica verità ammessa è quella raccontata dal potere politico in carica, a dispetto dei fatti documentali.
Non è inoltre ammissibile che pestaggi perpetrati e riscontrati vengano puniti con condanne simboliche, come si trattasse di marachelle commesse da ragazzini un po’ troppo esuberanti: é’ concepibile che i sanitari che quella notte refertarono falsatamente l’origine delle ferite dei contusi siano rimasti al loro posto? Rimane, infine, la responsabilità disciplinare, organizzativa, oltre che morale, di chi quei reparti di pestatori diresse quella notte, che non può in alcun modo escludersi e restare impunita, come non sarebbe per qualunque capobastone autore di spedizioni punitive ma privo d’una divisa. Non dimentichiamoci questo è il Paese nel quale si è condannato alla reclusione un Certo Toni Negri, reo di istigazione morale - ed il termine morale andrebbe sottolineato - all'insurrezione armata contro i poteri dello stato, al di là di ogni comprovata attività criminale eseguita materialmente e direttamente, pertanto sentenze come quella del tribunale genovese non possono ritenersi indenni da censura e da sussistenza di pregiudizio.
L’operazione consumata nell'infamante notte genovese riporta alla memoria le scorribande delle squadracce del ventennio, cui tutto fu consentito con la copertura della stato e l'avallo della giustizia. In nome dell'ordine e della sicurezza dei cittadini, di cui certamente ha vitale bisogno la democrazia, non è lecito autorizzare alcuna giustizia sommaria ancorché compiuta da chi quell’ordine e quella sicurezza è preposto a tutelare, né può consentirsi la costruzione di prove false che in qualche modo avallino operazioni di macelleria scientifica. E quando questi principi caposaldo vengono meno, quando si ammette questa commistione di metodi tra criminale ed offeso, peraltro utilizzando due pesi e due misure nell'erogazione della pena, allora significa che la democrazia ha imboccato l’inesorabile viale del tramonto. Niente potrà mai giustificare una risposta violenta dello stato e dei suoi apparati alla violenza di un gruppuscolo, salvo aver scelto d’abbracciare nostalgie terzomondiste in odore di golpe.

(nella foto, immagini dei disordini e a terra il corpo di Carlo Giuliani, perito tragicamente negli scontri)

giovedì, novembre 13, 2008

Alitalia, imbroglio senza fine

Giovedì, 13 novembre 2008
Qualche immagine bucolica in queste ore frenetiche di altalena delle borse, scioperi aerei, manifestazioni di studenti, occupazioni d’università e tensioni sociali varie, sicuramente non guasta. E c’è da dire grazie alla RAI, a quella televisione di stato così obiettiva e sensibile alla trasparenza dell’informazione, che qualche animo bieco taccia talvolta di servilismo smodato al potere di turno, se qualche ora fa abbiamo potuto godere di una rilassante esibizione di un cagnolino, un cocker se la memoria non inganna, intento a piroettare festoso attorno al suo padroncino, che, riconoscente per questa esibizione d’affettuosa allegria, gli avrà somministrato uno zuccherino sulla lingua rasposa, - anche se questo nel servizio del TG2, a dire il vero, non si è visto.
Il quadretto è stato ancor più piacevole perché ad allietarci c’era il faccione invero serioso ma gentile di Antonio Tajani, commissario UE in conto Italia, che ha trastullato i contribuenti italiani con la gioiosa (al limite della commozione) notizia della promozione da parte Comunitaria del piano di privatizzazione Alitalia.
Il cocker che allegramente gli sgusciava tra le gambe, sebbene tenuto saldamente al guinzaglio dal simpatico Tajani, ha provato ad un certo punto a porgli una domanda, - il che potrebbe sembrar strano a chi, inesperto d’animali, non sa quale simbiosi si possa scatenare nel rapporto d’affetto tra bipede e quadrupede.
Ed il quesito riguardava proprio le ricadute di tale placet sulle tasche degli Italiani, - che al di là del comprensibile patema per la sorte di qualche decina di migliaia di famiglie che resteranno senza tacchino e panettone nel prossimo Natale, dato che non troveranno posto a bordo delle scialuppe lanciate dalla caritatevole CAI ed affogheranno nel mare dei debiti contratti per continuare a campare, - sicuramente erano con le lacrime agli occhi nell’attesa di sapere quanto sarebbero stati chiamati a sborsare affinché il sagace Berlusconi potesse guadagnarsi l’agognata segnalazione al Nobel per la filantropia e materie accessorie.
Il simpatico Tajani ci ha fatto sapere, - tradendo anche lui una certa comprensibile emozione, - che l’UE ha benedetto l’operazione CAI, omettendo però di confessarci che qualche Commissario ha subito ricovero d’urgenza per irrefrenabile crisi da risata dopo la cerimonia di benedizione, con particolare riferimento al passaggio relativo ai debiti che dall’ex mostro aereo confluiranno nella cosiddetta bad company e che graveranno sulla tasca di pantalone-contribuente italiano
E’ stato a quel punto che il cocker, superando se stesso in arguzia, ha chiesto notizia dei 300 milioni prestati ad Alitalia da Prodi e confermati dal governo Berlusconi e che, si sa, la Comunità pretende siano resi onde evitare si configuri l’indebito aiuto di stato.
Tajani non è stato da meno e con fare mesto ma allo stesso tempo disinvolto ha dichiarato con una punta d’orgoglio «I soldi sono stati prestati ad Alitalia e da questa debbono essere resi. La CAI nulla ha che vedere con il debito in questione, che fa parte dei debiti Alitalia e, pertanto, confluirà nelle dotazioni della bad company».
«Ciò significa che saranno gli Italiani a pagare?» ha retoricamente chiesto precisazione il cocker, piroettando e scodinzolando festoso.
«Noi questo vorremmo evitarlo.», ha asserito poco credibilmente il commissario, che ha concluso «D’altra parte con il ricavato della vendita Alitalia possiamo pensare di far fronte a questo onere».
A questo punto il cocker, probabilmente appagato, non ha più posto altre domande, sicuro di essersi strameritato la zolletta premio. E la scenetta idilliaca ha avuto termine.
Prescindendo dall’insolito regalo rilassante propostoci dal benemerito TG2, - al quale siamo riconoscenti per la dimostrazione di alta professionalità dei suoi dipendenti giornalisti, - desidereremmo porre noi qualche quesito al simpatico Tajani, dal quale, per ovvie ragioni, non ci attendiamo analogo trattamento premio di quello riservato al cocker che lo ha intervistato.
In particolare desidereremmo sapere se i soldi necessari per coprire il frutto della spregiudicatezza degli amministratori Alitalia e che costituiranno la “dotazione” della bad company saranno dei contribuenti o di qualche parente suo o del premier nobel per la filantropia, - ché, nella seconda ipotesi, sentiremmo persino l’impeto di inviare a Bruxelles una confezione di zollette omaggio con le quali il simpatico Tajani potrà premiare tutti i cocker o i bassotti di passaggio che riterrà opportuno. Se, ahimè!, dovesse esser più vera la prima ipotesi, che cioè si tratti di soldi dei contribuenti, pregheremmo il simpatico Tajani di risparmiarci certe scenette idilliache, con le quali confonde le idee a vecchietti e bambini, e da uomo abbia il coraggio di chiamare le cose con il loro vero nome, piuttosto che raccontare frottole penose.
La seconda domanda riguarda il ricavo dalla vendita di Alitalia, che ci risulterebbe essere del tutto ridicolo, dato che la valutazione della compagnia dalle stime di "esperti" (sic!) risulterebbe di poco sopra i 300 milioni (speriamo si svegli qualche magistrato!), tutti da incassare, e che comunque confluirebbero in un passivo (quello della bad company) che supera 2,5 miliardi: non si tratta forse di un’operazione di segno negativo o il contribuente dovrebbe scodinzolare come il cocker dell’intervista per il fatto di dover sopportare un debito leggermente inferiore rispetto a quello già preventivato?
Infine, ma che credibilità ha un governo comunitario che non ritiene aiuto di stato un contributo come quello riconosciuto ad Alitalia per il solo fatto che ne viene accollato l’onere alla collettività? Forse i suoi colleghi di Bruxelles pensano che i cittadini italiani siano abitanti di una regione decentrata del Burundi e, pertanto, capiscano di diritto e di economia quanto un cammelliere algerino d’astrofisica?
Simpatico Tajani, la prossima volta abbia la decenza di farsi intervistare da qualcuno che la costringerà a dire come stanno veramente le cose, ché tutti sono in grado di far bella figura al riparo dal contraddittorio e con la connivenza alla fandonie.

mercoledì, novembre 12, 2008

Berlusconi flirta con UIL e CISL e schiaffeggia la CGIL

Mercoledì, 12 novembre 2008
L’atto è grave, particolarmente di questi tempi, in cui c’è un forte bisogno di coesione e di convergere su piani d’azione comuni per gestire una crisi che si preannuncia dura e lunga.
E invece le menti fini di palazzo Chigi pensano bene di profittare di un momento difficile anche per il sindacato, logorato dalle guerre di posizione su Alitalia e pubblico impiego, e tentano l’affondo per spaccare un interlocutore che nei prossimi mesi darà senza dubbio filo da torcere ad imprese e governo. L’innesco lo dà Berlusconi in persona, con ogni probabilità accecato da un rancore sordo nei confronti di tutto ciò che odora di sinistra, al punto da smarrire ogni residuo di ragione nel convocare ad un incontro ristretto, - come si dice in gergo sindacale, - Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, rispettivamente segretari confederali di CISL e UIL, a palazzo Grazioli per un colloquio riservato con Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, escludendo la CGIL di Guglielmo Epifani e l’UGL di Renata Polverini, - quest’ultima trattata come una scarpa dismessa, da buttare quando non serve più, adesso che la questione Alitalia è conclusa.
«Il presidente Berlusconi dimostra così» - si legge in una nota della CGIL - «di non avere alcun rispetto nei confronti dei suoi interlocutori, quando esprimono opinioni diverse dalle sue». Sul tema della crisi «il governo non prevede momenti formali di confronto con tutte le parti sociali, mentre quelli 'riservati' li tiene solo con alcuni soggetti, escludendo la Cgil, l'Ugl e tutte le altre rappresentanze di impresa», prosegue il leader Cgil. «Nei confronti della Cgil è un comportamento particolarmente grave perché abbiamo inviato al governo e alle altre parti sociali una piattaforma con le nostre proposte per affrontare la crisi» - ha aggiunto Epifani, che ha concluso «Con questo atteggiamento il governo esprime, così, la volontà di non aprire un confronto con la Cgil».
Ma se per certi versi non può stupire il comportamento di un Berlusconi, - che non ha mai fatto mistero di puntare all’annientamento del dissenso e, certamente, della CGIL, che il dissenso esprime in seno al movimento dei lavoratori e che in più rappresenta il braccio armato dei bolscevichi in odio preconcetto al leader della coalizione di governo, - desta stupore la leggerezza, - nella migliore delle ipotesi, - con la quale Bonanni e Angeletti si stanno prestando al gioco, frantumando ogni residua speranza di unità sindacale.
L’errore di palazzo Chigi e dell’organizzazione degli imprenditori è inoltre gravissimo di per se stesso, poiché mettere con le spalle al muro il sindacato più numeroso in quanto ad iscritti o presuppone una strategia precisa, che ha calcolato nei minimi dettagli il percorso e l’obiettivo o è sicuramente perdente nel medio termine. Non può non tenersi conto, infatti, delle ricadute che si determineranno a livello territoriale da questo schiaffo ad Epifani e soci, che certamente vedranno la propria posizione fortemente irrigidita nei confronti delle controparti datoriali con tutto ciò che consegue sulla conflittualità aziendale.
Né sarebbe accettabile credere che il pubblico sberleffo alla CGIL serva da segnale intimidatorio nei confronti del nuovo segretario che entro qualche mese dovrà sostituire Epifani alla guida della più grande organizzazione confederale. Anzi c’è da credere che la nuova segreteria, non fosse che per questioni di consolidamento del proprio prestigio, sferrerà un attacco ancor più duro al governo ed a UIL e CISL al momento accomodanti. In ogni caso siamo convinti che s’illuda grossolanamente chi ritiene che con le divisioni degli interlocutori si possa governare in modo maggiormente disinvolto e con minori ostacoli.
«Non è serio. Tutti gli interlocutori fino a prova contraria sono uguali», dice Pierluigi Bersani, ministro ombra dell'Economia, commentando l’accaduto, «mentre un governo che cerca di dividerli non fa l'interesse del Paese. Sono faziosi, ideologici, non hanno nessuna attitudine ad un sano pragmatismo», aggiunge Bersani, che notoriamente non è incline ai toni forti anche nei confronti degli avversari.
Il tempo confermerà le ragioni o il torto di un’operazione che al momento appare solo un vulnus difficilmente rimediabile a breve, così come farà da giudice al cedimento alle lusinghe di Angeletti e Bonanni. Di sicuro l’orizzonte dei mesi a venire è già incupito da minacciose nuvole temporalesche, che non lasciano presagire nulla di buono. E il 12 dicembre la CGIL ha già proclamato uno sciopero generale, da sola, contro tutti.

La legge ammazza blog

Mercoledì, 12 novembre 2008
Uno spettro si aggira per il Paese. Uno spettro lugubre e malvagio, che ancora una volta punta a soffocare la libertà dei cittadini, quella di parola. Lo spettro ha questa volta la forma di un DDL, con il quale si intenderebbe mettere il bavaglio ai tanti blog presenti nella rete, attraverso l’obbligo di registrazione al ROC, Registro Operatori Comunicazione, e la cui elusione d’obbligo renderebbe automaticamente stampa clandestina, con corrispettivo reato a carico dell’autore dello scritto, la pubblicazione via web di opinioni, critiche, commenti, intrattenimento e fatti di qualunque natura, espressione del pensiero non allineato.
Agli autori dei blog registrati, inoltre, sarebbero applicate le norme sulla diffamazione a mezzo stampa, con le conseguenze previste a carico degli organi di stampa ed i giornalisti.
L’esenzione dalla normativa sopraddetta riguarderebbe lo sparutissimo numero di blog privi di strutturazione organizzativa – ma la norma del DDL in discussione è al riguardo assai vaga – e con comprovate finalità prive di lucro. Ciò significa che la sola apposizione di un banner pubblicitario sul blog, che generi anche introiti minimali per il suo autore, farebbe di per sé incorrere nell’obbligo della registrazione di suddetta.
E’ superfluo sottolineare come la legge in discussione suoni al di là della interpretazione letterale come un tentativo censorio tendente a limitare fortemente la libertà di parola, attraverso il controllo di un’autorità terza sui contenuti del blog e con l’applicazione di una normativa penale smisurata rispetto alla reale diffusione del blog medesimo. Tale attacco malcelato alle libertà costituzionalmente garantite non può ritenersi in alcun modo tollerabile, anzi costituisce una sorta di intimidazione preventiva di marcato stampo totalitario nei confronti di tutti coloro che intendano esprimere in qualche modo il loro dissenso, pur nella compostezza e nelle regole imposte dalle leggi che concedono la libertà di querela a chiunque rilevi offesa da parole e scritti di terzi lesivi della propria onorabilità. E poiché le norma a tutela dell’onorabilità esistono, non si comprende il motivo di integrarle con leggi restrittive sulla stampa, se non in vista di creare un odioso clima censorio da MinCulPop, in cui troverebbero finalmente soddisfazione i media servili e prezzolati, aggiogati al controllo di chi governa e così cari alla classe politica al potere ed ai suoi leader.
Va precisato che il provvedimento in questione non è stato pensato dall’attuale governo, poiché già nel 2007 il governo Prodi aveva approvato il cosiddetto DDL Levi su analogo argomento, ed aveva poi fatto precipitosamente marcia indietro davanti alla valanga di critiche mossesi da più parti. La riesumazione del provvedimento non è, dunque, che un pallino fisso di chi esercisce il potere in questo Paese di falsa democrazia, che trova più agevole aggirare il disposto dell’articolo 21 della Carta Costituzionale con leggine mascherate da altre finalità, piuttosto che incamminarsi nel difficoltoso iter di emendare leggi costituzionali. In proposito, il lodo Alfano sull’immunità delle quattro più rilevanti cariche dello stato ne è un esempio plateale.
Di fronte a quest’ennesimo attentato alle libertà fondamentali del cittadino va registrato, oltre al dissenso di parecchi blog attenti a ciò che accade nelle pieghe della vita parlamentare, la presa di posizione di Italia dei Valori, il partito di Di Pietro, che ha gridato ad un atto di marcato stampo fascista avverso il provvedimento ed ha invitato alla disobbedienza qualora il DDL dovesse essere trasformato in legge a tutti gli effetti ed offrendo assistenza legale a chiunque dovesse incappare nella violazione della normativa.
Non c’è che dire. Se mai ci fossero stati dubbi, il viatico di questo governo, capace ogni giorno solo di creare una nuova categoria di scontenti, sta dimostrando come ormai sia divenuto interesse primario della libertà e della democrazia liberarsi in fretta di una politica che sempre più mostra il volto arrogante e protervo della razza padrona, decisa a ridurre in cattività ogni dissenso e spadroneggiare come meglio gli aggrada.

sabato, novembre 08, 2008

Paga Pantalone


Sabato, 8 novembre 2008
Al fine di meglio rappresentare la situazione determinatasi con la trovata del governo di privatizzare l’Alitalia attraverso la discutibile operazione di favore nei confronti di una “cordata tutta nazionale” di imprenditori, pubblichiamo un articolo apparso sul quotidiano on line Il Sussidiario.net, che ben riassume i termini equivoci di un’operazione industriale di scarsissimo senso, i cui costi ricadranno esclusivamente sui cittadini e con ricadute sul futuro della nuova compagnia aerea sostanzialmente già segnate, le cui conclusioni lasciamo ai lettori.
La Compagnia Aerea Italiana ha presentato la propria offerta per l’acquisto degli asset di Alitalia, in particolar modo gli aerei e gli slot. La somma proposta al Commissario Straordinario di Alitalia Augusto Fantozzi ammonta a un miliardo di euro, una cifra che sembra essere lontana dal valore degli asset aziendali.
Gli aerei acquisiti in proprietà saranno 64 ed ognuno di essi ha un valore medio di mercato di circa 15 milioni di euro, mentre gli slot dovrebbero valere almeno 600 milioni di euro. Solamente queste due attività aziendali dunque ammontano a un valore superiore al miliardo e mezzo di euro, somma superiore all’offerta CAI.
Il “piano Fenice” non ha solo un costo di 3 miliardi dovuti alla creazione della Bad Company che andrà in capo allo Stato Italiano. Ci sono anche dei costi per i viaggiatori del trasporto aereo italiano dovuti alla diminuzione della concorrenza interna e alla mancata liberalizzazione dei voli intercontinentali.
La nuova Compagnia Aerea Italiana si presenta con un piano debole sia per la rinascita di Alitalia, ma in particolar modo debole per il mercato del trasporto aereo italiano. È interessante analizzare in primo luogo la struttura dei ricavi per tipologia di rotta. Nel caso dei maggiori vettori di bandiera europei il peso preponderante appartiene ai proventi dei voli intercontinentali. La vecchia Alitalia si differenziava notevolmente dalle compagnie precedenti in quanto nel 2007 solo il 30% dei ricavi era conseguito sul segmento intercontinentale, l’unico sottratto all’apertura europea del mercato. La nuova CAI, tuttavia, anziché riavvicinarsi ai grandi vettori europei nella sua strategia, se ne allontana ulteriormente e conta di conseguire nel 2009 solo il 23% dei ricavi totali dal trasporto intercontinentale mentre i ricavi sulle rotte nazionali dovrebbero salire dal 28% sino al 42% del totale.
La domanda da porsi è se sbaglia CAI o, invece, i concorrenti i quali continuano a fare profitti. Evidentemente CAI si aspetta di detenere una posizione dominante sul mercato domestico e conta di fare profitti grazie alla disponibilità del Governo a restringere la concorrenza sul mercato interno attraverso provvedimenti legislativi o regolamentari. Solo in questo modo è possibile innalzare le tariffe ed evitare di operare in perdita, come accadeva alla vecchia Alitalia. Nessun piano di rilancio potrebbe infatti immaginare una compagnia tanto forte dal punto di vista dei risultati economici in un mercato dove gli operatori agiscono in concorrenza. Il “piano Fenice”, presentato al Governo e da esso implicitamente accettato, non solamente indica il futuro della nuova compagnia aerea, ma riscrive anche le regole del gioco più importanti.
Sono diverse le debolezze di CAI sia per il sistema aeroportuale che in generale per il trasporto aereo. Il primo punto riguarda le azioni necessarie per il ‘rilancio’ di “Milano Malpensa”: in questo caso il piano CAI prevede esplicitamente l’uscita dei vettori low cost, i quali sono attualmente così poco importanti per il secondo aeroporto italiano che addirittura Easyjet è il primo vettore sullo scalo milanese.
Il secondo punto previsto dal regolato-regolatore è subordinato al partner straniero: se dovesse entrare Lufthansa nel capitale di CAI allora Milano Linate dovrebbe diventare scalo riservato alla sola navetta Milano Linate – Roma Fiumicino. Il traffico passeggeri passerebbe in conseguenza da oltre 10 a soli 2,5 milioni di passeggeri annui (tramite quale fantasiosa limitazione governativa?). Questa azione non solo non sarebbe utile agli aeroporti lombardi (la posizione del sindaco di Milano Letizia Moratti, azionista di maggioranza di SEA, è chiara), ma limiterebbe la già scarsa competizione che esiste tra gli aeroporti.
Il problema è tuttavia che non solo Linate ma tutti gli aeroporti del Nord Italia fanno concorrenza e sottraggono traffico a Malpensa come hub: infatti da Trieste, Venezia, Torino, Genova, ecc. si fa prima a raggiungere in aereo Fiumicino o un altro hub europeo che non Malpensa, necessariamente in auto o in treno poiché si tratta di città troppo poco distanti da Milano da giustificare collegamenti economici per via aerea.
La domanda provocatoria è pertanto la seguente: quando chiederà CAI la chiusura di tutti gli aeroporti del Nord Italia per concentrare il traffico su Milano Malpensa in funzione delle sue strategia imprenditoriale? La chiusura di Linate porrebbe un grave pregiudizio al mercato del trasporto aereo lombardo e questa azione sarebbe di fatto decisa dal piano di rilancio di una compagnia aerea che non riuscirebbe neppure ad avere il 25 per cento dell’attuale traffico italiano.
I dati del piano CAI smentiscono l’ipotesi all’origine del mantenimento della proprietà nazionali Alitalia: il rilancio del trasporto intercontinentale da parte della nuova compagnia aerea italiana. Le rotte intercontinentali offerte dalla Compagnia Aerea Italiana scendono infatti a 18 dalle 22 complessivamente servite in precedenza da Airone ed Alitalia mentre i posti km offerti risulterebbero nel 2009 solo di 17,8 miliardi contri i 24,1 miliardi offerti nel 2007 dalla sola Alitalia (senza AirOne), con una diminuzione del 26%.
La struttura dei ricavi di CAI pone seri indizi in favore di rendite di posizione monopolistica nel mercato domestico italiano. La certezza emerge ancora una volta dai dettagli dello stesso piano industriale degli imprenditori tricolori.
I ricavi per posto chilometro offerto da CAI evidenziano che la nuova compagnia aerea sarà in grado di alzare in maniera molto consistente il prezzo dei biglietti sul mercato domestico grazie alle misure anticoncorrenziali che il Governo ha già preso o ci si attenda da parte di CAI che prenderà in futuro.
Con gli introiti unitari della vecchia Alitalia la spesa totale per i consumatori nei cinque anni sarebbe stata 6,2 miliardi di euro e il risparmio rispetto a CAI di 2,1 miliardi di euro. La mancata liberalizzazione del trasporto aereo intercontinentale permetterà a CAI di mantenere una posizione di oligopolio per queste tratte. È la ragione per la quale nel complesso il "piano Fenice" costerà ai viaggiatori 3 miliardi di euro. Il "piano Fenice" costa caro a Malpensa, ma soprattutto ai viaggiatori che dovranno sopportare rincari per 3 miliardi di euro nei prossimi 5 anni.
Andrea Giuricin – Ugo Arrigo

venerdì, novembre 07, 2008

L’abbronzatura di Obama e le idiozie di Berlusconi

Giovedì, 6 novembre 2008
Berlusconi hails Obama as suntanned” scrive a caratteri cubitali l’Herald Tribune, che potremmo tradurre con “Berlusconi si complimenta con Obama per l’abbronzatura”. E la notizia non è di quelle malevole riportate da uno dei tanti giornali “comunisti” nemici del presidente del consiglio, ma è l’ennesima cronaca di una delle tante gaffe di un personaggio che non solo non conosce la vergogna, ma che sembra sfrenatamente lanciato per l’inscrizione nel libro dei Guiness in quanto a imbecillità e grigiore.
Niente ha mosso il dubbio ad un Berlusconi spocchioso e sprezzante come d’abitudine che la scivolata, per non dire il tonfo, avrebbe travalicato ogni limite del razzismo più becero e volgare. Lui è fatto così. Pur di passare per spassoso direbbe qualunque corbelleria, convinto com’è che mai nessuno si gli affibbierà un calcione nel sedere, stanco delle scemenze insopportabili che spara a raffica e che pretende divertenti. Il problema è che il personaggio non si rende conto che alla sua modesta statura fisica accompagna una bassezza morale ben più grave ed evidente, che irrimediabilmente lo condurrà al crollo, infliggendo un durissimo colpo all’unica caratteristica che possiede e che interpreta come qualità: la smodata vanagloria di cui perennemente si sbronza, alla stregua della malvagia Grimilde nella favola di Biancaneve.
Ben 27 giornali internazionali, oltre alle più importanti reti televisive del pianeta, comprese CNN ed ABC, riportano le infelici dichiarazioni di Berlusconi, che, piccato dalle critiche, ha affermato che trattavasi solo di una “carineria” verso il neo presidente americano ed ha tacciato di imbecillità chi, secondo il suo punto di vista, non ha capito il senso benevolo della sua battuta, gente che in definitiva deve andare «a fare in culo». Poi sul momento ha concluso con un «mi sono rotto e dico tutto quello che penso», accreditandosi con la battuta come persona in grado di pensare con i requisiti minimi di lucidità. E se questo non fosse bastato, ecco che questa sera da casa Putin, dove si trova ospite, ha rincarato la dose affermando che «chi non ha capito è pronto per ritirare una laurea in coglioneria».
Ovviamente e prescindendo dalla raffinatezza dello stile, l’affermazione proviene da persona estremamente qualificata, dalle carte perfettamente in regola in materia di coglioneria, al punto che tra meschine battute da cascamorto alle colleghe in sede internazionale, tra le corna nelle foto di gruppo ostentate sulla testa di qualche capo di governo estero, tra le accuse di essere un kapò a qualche parlamentare europeo ed altre insulse ridicolaggini da Asilo Mariuccia, - che a suo avviso dovrebbero suscitare ilarità, ma stimolano solo disgusto o al più commiserazione, - ha reso il popolo italiano lo zimbello del mondo. Giudizio duro da smentire, visto che nonostante tutto questo sgorbio di dignità e d‘eleganza diplomatica l’Italia se lo ritrova ancora tra gli zibidei, - non si sa bene se per affinità con chi gli ha dato il voto o per effettiva imbecillità di chi l’ha preceduto e con le sue azioni ha spianato la strada a questo revival d’avanspettacolo.
Ciò che offende, comunque, non è tanto il sentirsi apostrofare del coglione da un emerito intenditore, - ché il giudizio dei qualificati esperti della materia va tenuto nel dovuto conto e va accettato come la diagnosi sfavorevole del medico, - quanto il fatto che, con le sue gag da pagliaccio di strada, il poveraccio venga nel suo ruolo interpretato come portavoce di un’intera nazione.
Ovviamente in questo tripudio di cretineria Berlusconi non è solo. Gli tiene buona compagnia anche un certo Gasparri, che non ha mai brillato per la genialità delle intuizioni e che a qualche ora dall’elezione di Obama, forse reduce da qualche festino in onore del neo-eletto, ha affermato: «Sarà contenta Al Qaeda!», quasi il neo presidente americano avesse fatto campagna elettorale da Guantanamo dopo la cattura in Afghanistan o in Iraq tra i tanti terroristi vagabondi.
Certo, è straordinario come cambiano le cose: chi avrebbe mai potuto sospettare che l’America avrebbe dovuto subire le peggiori offese e la derisioni da parte di coloro che sino ad ieri si spacciavano per i suoi più fedeli sostenitori?

mercoledì, novembre 05, 2008

Barack Obama cambia la storia del mondo


Mercoledì, 5 novembre 2008
In genere non ci occupiamo di politica estera, ché il nostro blog dispone di risorse troppo limitate per potersi dedicare anche alla valutazione di fatti extranazionali. C’è poi da dire che il nostro Paese è di per sé una fucina di accadimenti e, pertanto, preferiamo dare spazio all’analisi dei fatti di casa nostra, che costituiscono oggetto di attenzione comune più immediata. Tuttavia nelle scorse ore è accaduto qualcosa di epocale, di straordinario per la vita del pianeta, qualcosa che ha posto una pietra miliare nella storia dell’umanità e che riveste fondamentale importanza nella cultura occidentale.
Questa notte è stato incoronato 44° presidente degli USA, la nazione a torto o ragione guida del mondo evoluto, un nero, un signore dall’inconfondibile nome africano, Barack Obama, che per i prossimi quattro anni guiderà la prima potenza della terra.
L’evento è di straordinaria importanza per diverse ordini di ragioni, non ultima la dimostrazione di maturità di un popolo, quello Americano, che ha sfondato un ulteriore frontiera, quella del pregiudizio razziale, che sembrava resistere nel Nuovo Continente come è ancora fortemente resistente nel nostro Paese.
Vi è poi la sconfitta dei Repubblicani americani, dopo otto anni di governo e di condizionamento del mondo con le loro politiche guerrafondaie e di perpetuazione della strategia di rapina dei Paesi più poveri del globo, causa l’approccio egocentrico della loro visione politica, tesa ad acquisire il controllo della distribuzione delle risorse e delle fonti di approvvigionamento delle materie prime vitali per l’esistenza e lo sviluppo.
Un’altra ragione di straordinarietà è conferita all’avvenimento dal pensionamento di quel George W. Bush, che ha spesso interpretato, sull’onda di quanto qualche decennio prima aveva fatto il padre, la politica internazionale come un affare di famiglia, dal quale trarre vantaggiosi ritorni per sé ed il proprio clan. La guerra irakena in cui ha cacciato il mondo è stata un esempio di affarismo senza scrupoli, nel quale hanno trovato ulteriore arricchimento aziende di amici, sostenitori e le attività petrolifere del clan Bush, grazie all’escalation del prezzo del greggio determinatasi in conseguenza del contingentamento delle forniture.
Bush passerà certamente alla storia, non fosse perché presidente degli Stati Uniti, anche per le drammatiche vicende di terrorismo che sono accadute durante il suo mandato. Ma passerà alla storia anche per le ombre mai diradate sui rapporti d’affari della sua famiglia con il famigerato Osama Bin Laden e per le tragiche vicende delle Twin Towers, delle quali la storia medesima ci rivelerà un giorno come sia stato possibile che i segnali premonitori non fossero stati colti per tempo e come sia stato possibile la messa in pratica di un operazione certamente spettacolare come quella. Ci svelerà forse la storia anche le oscure manovre dell’amministrazione presidenziale nel nascondere evidenze, depistare indagini ed addomesticare perizie e referti.
Barack Obama rappresenta il nuovo in tutti i sensi e rappresenta la rivincita dei Democratici, che tornano alla guida d’America dopo le vicende Clinton. Tuttavia, non ci s’illuda che il passaggio epocale debba necessariamente significare un modo radicalmente nuovo di approcciare il mondo da parte dell’America. Primariamente perché gli USA rimangono un Paese con una frammentazione d’interessi planetaria; e comunque sarebbe impensabile ritenere che possano rinunciare ai meccanismi di controllo dei propri interessi per favorire una sorta di autodeterminazione dei popoli: ciò contrasterebbe con l’esigenza di garantirsi la sicurezza interna attraverso gli avamposti consolidati nel tempo e darebbe spazio a coloro che non aspettano che un segnale di inversione di tendenza per sostituirsi ai precedenti guardiani e far pesare il loro ruolo egemonico.
C’è invece da credere che il cambio di guida concorrerà a ridefinire i rapporti con i vecchi alleati, specialmente europei, e a consolidare i vincoli di cooperazione storica messi in crisi da qualche esuberanza del texano Bush.Rimane comunque un quadro di speranza, una speranza che l’ascesa di Obama possa metter freno all’onda di decadenza nostalgica che sta attraversando il Vecchio Continente e rigeneri anche dalle nostre parti un maggiore rispetto delle libertà civili e della convivenza.

Minaccia e dispetto dipendente perfetto

Mercoledì, 5 novembre 2008
«In altre circostanze un ministro che si fosse reso autore di pressioni così forti sarebbe stato deferito al tribunale dei ministri e condannato al carcere per estorsione aggravata».
Così Antonio Di Pietro ha commentato su Sky TV l’intervento di Altero Mattioli, ministro delle Infrastrutture, in merito alla mancata firma da parte di piloti ed assistenti di volo delle cinque sigle sindacali ex Alitalia che non hanno firmato gli accordi con la CAI. Il ministro, seguito a ruota dal collega Maurizio Sacconi del dicastero del Lavoro, ha minacciato di escludere dal trattamento di CIG il personale che rifiuterà l’assunzione nella nuova compagnia aerea, senza entrare nel merito del fallimento della trattativa, ma lanciando un inqualificabile messaggio ricattatorio agli aderenti alle sigle sindacali recalcitranti.
E per quanto il messaggio sia in perfetta coerenza con o stile prevaricatore ed arrogante inaugurato dal recente governo Berlusconi, stupisce il tono sprezzante di un rappresentante delle istituzioni il cui dovere dovrebbe essere quello di porsi al di sopra delle parti e mediare nella ricerca di un’intesa che tenga conto delle priorità complessive e degli interessi del lavoro. Peraltro, non va dimenticato che le sigle in questione rappresentano oltre il 79% dei dipendenti dell’ex compagnia di bandiera e dunque una minaccia così proterva mal si addice a chi, per legge dei grandi numeri, dovrebbe istituzionalmente avere a cuore la tutela dei principi di democraticità e non invece gli interessi di un manipolo di affaristi pronti a perpetrare ogni vessazione facendosi usbergo dello stato comatoso di una società di trasporto aereo gloriosa ma ormai fallita.
E’ evidente che per il ministro Mattioli così come per il suo collega Sacconi l’ebbrezza del potere è tale da offuscare la percezione e l’esercizio delle regole della democrazia sindacale, convinti che i quasi 25000 dipendenti delle compagnie aeree coinvolte nell’affaire di ristrutturazione del comparto aereo nazionale, senza tener conto dei dipendenti dell’indotto, siano burattini da manipolare e intimidire a proprio piacimento e non anche elettori, che al momento opportuno sapranno ricompensare con analoga moneta il rispetto e l’attenzione che hanno ricevuto da questo governo sedicente popolare.
Poi si può anche fingere, oltre che ingannare il mondo sulla scorta di questa finzione, che la vecchia triplice sindacale con l’adesione anche dell’UGL, - compagine dai numeri di rappresentatività ridicoli ma assurta al ruolo di importante interlocutore grazie alle cameratesche sollecitazioni di qualche componente della coalizione, - sia rappresentativa dell’universo ex Alitalia, ma nel fare ciò si sottovaluta il peso della protesta di piazza, che in più occasioni ha dimostrato di non obbedire ad alcun ordine di Bonanni, Angeletti, Epifani o Polverini e di conoscere i metodi con i quali pretendere la tutela dei propri interessi.
Lo stesso Colaninno, rappresentante al tavolo dei negoziati con tutte le sigle sindacali interessate, probabilmente forte dell’esperienza della privatizzazione della Telecom, riteneva che le mille specificità del trasporto aereo potessero trovare composizione con gli imbonimenti o con promesse rivedibili in sede di trattativa aziendale. Evidentemente così non è stato ed alla prima marcia indietro innescata rispetto agli impegni assunti in sede di mediazione governativa, s’è ritrovato in mano una patata scottante della quale ha pensato di potersi liberare sfoderando l’analoga supponente arroganza dei suoi mandanti ed allora è andato giù d’avvertimenti e minacce ad un popolo di lavoratori che, in tutta onestà, si è formato nella bambagia di un’Alitalia nella quale sino a qualche tempo fa le maglie regolamentari e dei privilegi erano assai lasche. Pretendere di raddrizzare le gambe al cane, che notoriamente le ha storte dalla nascita, non può che condurre a pericolosissimi bracci di ferro il cui esito vedrà immancabilmente tutti perdenti. Mentre sarebbe più oculato mostrare maggiore accondiscendenza, magari ammorbidendo certe posizioni di chiusura e fissando scadenze precise entro le quali far decadere le eventuali concessioni. La soluzione alternativa è l’abbandono del tavolo negoziale ed il ritiro dell’offerta, che lasci l’Alitalia al suo destino o all’interesse di altri potenziali acquisitori, che in ogni caso non potranno presentarsi in modo meno improvvisato e sprovveduto di quanto non abbiano fatto i pretendenti attuali, pur se incoraggiati dal loro sponsor Berlusconi.A prender spunto da questa vicenda c’è comunque una morale: quanti hanno immaginato dopo l’ultima tornata elettorale di poter governare la politica, l’economia e la società con minacce e manganelli non sono non avranno vita facile ed è probabile che, perseverando nel disprezzo degli interlocutori e degli interessi di intere categorie di cittadini, l’abbiano anche breve.