giovedì, ottobre 30, 2008

I surfisti della sinistra cavalcano l’Onda

Giovedì, 30 ottobre 2008
Notizie provenienti dal fronte della protesta contro la 133/08, meglio nota come legge Gelmini di riforma della scuola, narrano di incredibili provocazioni messe in atto da studenti, – ovviamente di sinistra, – mamme, nonne, docenti e bambini al seguito.
Le notizie sono state riferite dalle talpe che il governo, - meglio restare sul generico visto che i ministri Maroni e La Russa, rispettivamente dell’Interno e della Difesa, ed il premier Berlusconi smentiscono che l’iniziativa sia stata loro, - ha inviato per vigilare affinché la manifestazione si mantenesse giocosa e rilassante come nelle premesse.
E invece no. Pare che parecchi vecchietti, organizzati in gruppi d’assalto paramilitare, con tanto di casco da motociclista per impedire l’identificazione, abbiano sfoderato da sotto i pastrani coltelli a serramanico e catene, nell’evidente intenzione di trasformare la festosa manifestazione in uno scontro black-block con le forze dell’ordine presenti, le quali invece sono state inviate persino prive dei manganelli di corredo proprio per non dare alcun spunto a qualche testa calda sempre presente nei cortei.
Si dice, invece, che ben dieci bambini tra gli otto e dodici anni siano stati fermati perché in possesso di bottiglie incendiarie, mentre un centinaio di mamme, alle quali sono state sequestrate spranghe ed oggetti contundenti vari, sono state rilasciate dopo essere state identificate. Infine, va registrato l’arresto di alcune migliaia di docenti, colpevoli dei reati di istigazione a delinquere e propaganda sovversiva, in quanto tra gli organizzatori dell’happening. La cronaca riporta anche del ritrovamento di due furgoni stracolmi di armi improprie nelle vicinanze del percorso del corteo, su cui si sta indagando, ma che comunque pare fossero con targa intestata ad organi preposti alla sicurezza del Paese, che getta un velo di sconcertante mistero sulla destinazione del carico. Gli inquirenti intendono chiarire se tra i manifestanti vi fossero parenti di poliziotti, finanzieri, carabinieri che avrebbero potuto essere favoriti logisticamente in potenziali azioni di guerriglia urbana da qualche genitore in servizio in una delle armi predette con l’invio del materiale atto ad offendere. E chi tra le forze dell’ordine ha avanzato l’ipotesi che quelle armi siano state inviate affinché ne facesse uso (come di fatto è accaduto) un drappello di poliziotti, infiltrati appositamente per provocare come si faceva negli anni ’70 o come s’è fatto a Genova durante il G7, è già stato trasferito in Romania per assumere altro incarico e così sottrarsi all’eventuale curiosità di qualche magistrato (comunista) sospettoso e ficcanaso a caccia di scoop fantasiosi.
Qualcuno dei manifestanti, che ha chiesto di restare anonimo per evitare l’arresto per false dichiarazioni come è successo a qualcun’altro, ha asserito di aver visto un gruppetto di esagitati armati di tutto punto tentare di caricare le ali del corteo, con il festoso di incitamento di alcuni poliziotti presenti. Le stesse telecamere delle varie televisioni intervenute, che hanno ripreso gli incidenti, in voce e video, sono state sottoposte a sequestro ed i cineoperatori fermati per aver portato sul luogo degli incidenti (del tutto inesistenti) filmati di repertorio che nulla avevano a che vedere con i fatti accaduti realmente, con il solo scopo di diffondere l’odio popolare contro le forze dell’ordine e fomentare nuovi incidenti.
Nel frattempo, - e giustamente, ci sentiamo di dire, - quel santuomo del nostro presidente del consiglio, notoriamente paladino della democrazia, - anche se sembra dorma con la foto di Pinochet sotto al cuscino, - ha tuonato contro le provocazioni della sinistra, regista dei disordini, con la quale non solo non può esserci dialogo, ma contro le cui intemperanze sarà necessario assumere provvedimenti restrittivi, qualora non comprenda che non è certo nella piazza sovversiva che si conduce l’opposizione. Ed agli studenti, peraltro palesemente ignoranti tant’è che non afferrano il senso vero della storica riforma Gelmini, non sarà più concesso un ulteriore millimetro di spazio per contestare. Al doberman Padano, Roberto Maroni, è stato dato ordine di azzannare con la denuncia per interruzione di pubblico servizio chiunque dovesse osare non occupare un’aula ma solo minacciare di farlo. Analogamente, la stampa che non dovesse smettere di diffondere notizie destabilizzanti, fortemente emotive per la pubblica serenità, rischia il sequestro di macchine da scrivere e rotative, oltre alla carcerazione dei direttori responsabili per attentato alla pubblica incolumità.
Sulla scorta di queste cronache, non possiamo che esprimere la nostra condivisione per le iniziative del governo e ci auguriamo che il presidente Berlusconi, - che papa Ratzinger vorrà tenere in considerazione per una futura canonizzazione, - voglia promuovere un disegno di legge con il quale possa venir nominato presidente a vita, come è accaduto al suo omonimo del Kazakistan, che recentemente ci ha citato ad illuminate modello di democraticità universale.

mercoledì, ottobre 29, 2008

La Banda Bassotti dei semafori cittadini

Mercoledì, 29 ottobre 2008
In tempi di barbarie non stupisce che anche i pubblici amministratori si mettano allegramente a rubare con il pretesto di rimpinguare le magrissime casse dei comuni, senza dimenticare, naturalmente, di far scivolare qualche banconota nelle proprie tasche mentre fanno il conteggio del bottino.
E’ quello che è successo in ben 27 comuni di questo sempre più squallido Paese, dove per arrotondare introiti e indennità personali si ricorreva al taroccamento dei semafori, opportunamente dotati di famigerato t-red, - il sistema fotografico automatizzato che immortala gli automobilisti che transitano con il rosso, - per poi far pervenire al tapino di turno una multa sostanziosa, i cui introiti andavano ad ingrassare le ditte appaltatrici dei sistemi semaforici, i responsabili della polizia municipale, qualche sindaco e qualche assessore al traffico.
La Guardia di Finanza di Milano ha sequestrato oggi due milioni di euro in 27 comuni sparsi in tutta Italia, frutto delle multe elevate agli automobilisti con semafori che si ritengono truccati. Lo riferiscono fonti giudiziarie, aggiungendo che si tratta del risultato di un'indagine che nei mesi scorsi ha portato all'arresto di quattro imprenditori accusati di associazione per delinquere finalizzata alla turbativa d'asta, in relazione a gare indette da questi comuni per aggiudicarsi delle apparecchiature per le infrazioni stradali, i cosiddetti t-red. Secondo l'accusa, le società coinvolte nelle indagini, che prendevano una percentuale sulle multe, hanno manomesso, d'accordo con i comuni, i semafori in modo da ridurre la durata del giallo e far scattare subito il rosso, aumentando così gli introiti. I due milioni di euro sequestrati ai comuni costituivano il vero e proprio grisbi da spartire tra comuni, società di cui erano titolari i quattro imprenditori arrestati e complici dell’operazione criminosa.
L’indagine rischia di ampliarsi a macchia d’olio, visto che il t-red si va sempre più diffondendo ed il sistema della multe miliardarie è diventato un meccanismo per dare ossigeno alle disastrate casse di tutti i comuni d’Italia, complice un codice stradale che da strumento di disincentivazione delle infrazioni e di “rieducazione forzosa” degli indisciplinati alla guida si è trasformato in manuale della gabella. Peraltro, abbinato ad altri furbeschi sistemi di grassazione quotidiana, quali la copertura di intere aree di parcheggio con strisce blu o gialle, rispettivamente con sosta a pagamento o con sosta riservata ai residenti, e l’impiego di autovelox in tutte le salse tecnologiche, hanno trasformato in un business miliardario la gestione del traffico urbano.
Naturalmente, mentre con una protervia da delinquenti incalliti i comuni fanno fioccare come neve le multe per le predette infrazioni, sempre più frequenti, tanto le amministrazioni pubbliche sanno che i ricorsi sono complicati e farraginosi e comunque le avvocature comunali sono piene di scaldasedie pagati anche per gestire queste pratiche legali, nulla si muove sul fronte del rispetto degli obblighi previsti a carico delle medesime amministrazioni: obbligo di parcheggi gratuiti in prossimità di quelli a pagamento in disponibilità adeguata; dimensionamento delle singole aree di sosta, largamente inferiori alle misure stabilite dalle norme comunitarie; impiego degli introiti provenienti dalla violazione delle norme sulla sosta per la costruzione di parcheggi pubblici. Non c’è che dire in Italia ormai brilliamo anche per la gestione opportunistica e truffaldina persino nell’erogazione di servizi pubblici e nell’amministrazione della normativa sulla circolazione stradale. Potremmo concludere con il classico “siamo alla frutta”, se non fosse che il costo di quest’alimento è ormai assurto a bene da gioielleria, sicché contentiamoci del più azzeccato “non c’è più religione”, dato che anche il buon Dio ci nega il suo aiuto nel liberarci della feccia che ci governa.
(nella foto, il famigerato semaforo di Segrate, Milano, che ha rilevato ben 35000 false multe in una settimana)

domenica, ottobre 26, 2008

Dalla Cina con furore


Domenica, 26 ottobre 2008
Adesso lo sappiamo. Questo Paese è diventato invivibile: ti basta aprire bocca e t’affibbiano chissà quale dichiarazione. Pur di vendere o di aumentare gli ascolti giornali e telegiornali manderebbero in galera la gente.
Così il povero Berlusconi, che mai s’è lasciato sfiorare dall’idea di minacciare l’uso della forza pubblica per bastonare quattro perdigiorno con annesse mamme ed insegnanti, - che per marinare la scuola, i primi, far qualcosa d’insolito, le seconde, e fare un giorno di vacanza senza passar per fannulloni, i terzi, se la sono presa con i provvedimenti della Gelmini, - s’è ritrovato su tutte le prime pagine accusato di avere detto cose che neanche il buonuomo di Predappio s’era mai sognato di dire. La verità è che viviamo in un’epoca in cui con l’elettronica si fa di tutto. Si falsificano persino le voci delle persone e così chi dice di aver sentito Silvio, il buon Silvio così mite e disponibile ad ascoltare e dialogare con la gente, proferire certe belinate, come si dice a Genova, è stato vittima dell’ennesima montatura di chi non lo sopporta, senza motivo, magari per invidia, perché lui è bello, bravo e fortunato e, soprattutto, d’una onestà talmente cristallina e pura da far invidia ad una goccia di Ferrarelle.
Ma poi, sta Gelmini, chi è? Lui non l’ha mai vista né sentita. Gli hanno detto che nel suo governo, - al quale tra l’altro si dedica con lo stesso amore con il quale ha cresciuto i figli e adesso i nipoti, senza alcun interesse se non quello del benessere Italiani, preferibilmente ricchi come lui, - c’è una tizia che risponde a questo nome e che pare sia un po’ discola e prenda iniziative senza chiedere il permesso prima. Lui, preso com’è a girare il mondo per faccende importantissime come salutare l’amico George, fare colazione con Vladimir, convincere un manipolo di cicisbei coi soldi a dare una mano all’Alitalia o rincuorare qualche banchiere in difficoltà visti i tempi che corrono, non ha mica il tempo per occuparsi di questa gente. E a chi dice che questo governo non è costituito da persone all’altezza (nulla di personale per Brunetta e Silvio stesso), andrebbe risposto che d’altra parte un governo s’aveva da fare e trovare nomi di gente in gamba non era cosa facile: non ci si dimentichi che nel nostro Parlamento ci sono circa 120 tra inquisiti e condannati e trovare gente pulita è quasi come cercare vergini in una casa di piacere.
Comunque non sottovalutiamo che c’è un Tremonti, che è un mastino, un’arca di scienze impagabile, un uomo al di sopra ogni sospetto, che è come la polena alla prua della nave con la quale solca il mare questo governo. Munifico con le categorie bisognose, banche, imprese, finanzieri, e sparagnino da far impallidire Quintino Sella con coloro che si dichiarano indigenti. Quest’ultimi coi soldi non ci sanno fare, non ci sono abituati e non occorre aver studiato Maltus (che va precisato non è una qualità di birra) per sapere che non appena si vedono quattro soldi in tasca spendono e spandono in donne, champagne e frivolezze varie, senza destinare un centesimo al risparmio. Questa categoria è una piaga sociale della quale, potendo, bisognerebbe liberarsi, magari facendo un pacco unico con gli immigrati. Si corre il rischio di trasformare il Belpaese nella terra dei pitocchi, con le gravi ripercussioni immaginabili sulla serena convivenza dei benestanti, pochi in vero, che sono la vera ricchezza e l’orgoglio della nazione.
C’è Brunetta, che quando glielo hanno proposto ha messo in crisi il buon Silvio, ma solo perché si sforzava di capire chi fosse e non riusciva a vederlo. Poi, sporgendosi un po’ dalla scrivania, Berlusconi vede questo piccoletto seduto su una delle poltrone di fronte a lui e, sorridendo, gli viene spontaneo dire a chi glielo stava proponendo “Avevo pensato fosse il suo bambino!”. In ogni caso, anche quella scelta non è stata male. Gli riferiscono che il personaggio passa il tempo a giocare ad una specie di schiaffo del soldato con i dipendenti pubblici cui è preposto il suo incarico: uno da un gruppetto grida “fannullone!” ad un altro che sta di spalle, che a quel punto si gira e deve indovinare chi è stato a lanciare l’accusa, e se indovina ed un altro va al suo posto, altrimenti, si ricomincia. Pare che il gioco sia molto piaciuto e la produttività dei dipendenti, sollazzati nello spirito, sia ormai alle stelle. La scelta del Brunetta è stata altresì azzeccata anche perché finalmente a statura il buon Silvio non è più solo, anzi per certi versi può finalmente guardare qualcuno dall’alto in basso (e pare abbia deciso di dismettere le solette col rialzo).
La Carfagna. Ma cosa mai c’è da dire su questa bravissima ragazza, straripante di talento che oggi fa il ministro? Ah, è stata Miss Italia, poi velina nelle sue tv e ha fatto qualche calendario non proprio castigato. Si mormora di una tresca proprio con lui? Voci, solo voci, anzi tarli, malevoli tarli. Ma l’avete guardata bene la Carfagna? Ecco, uno la vede e subito capisce che in lei c’è la stoffa dello statista. Ci fosse andata la Brambilla al suo posto, beh, si poteva anche storcere il naso. Anche lei donna di talento, ma sempre pronta a mostrare cosce e annessa biancheria, forse non sarebbe stata adatta né all’Educazione né alla Protezione Civile: che esempio avrebbe dato ai giovani nel primo caso e chissà cosa avrebbero inventato gli Italiani pur di sottoporsi ad una respirazione bocca a bocca nella seconda ipotesi.
E’ che una certa stampa cattiva, sicuramente comunista, gli ha addossato responsabilità che non ha. Volete un esempio? Ad Alfano, in un grigio giorno in cui si sentiva sconfortato (capita anche alle persone ammodo e benestanti), aveva confessato che nessuno gli faceva mai delle lodi per quello che faceva. Alfano, che c’è il sospetto abbia equivocato grossolanamente, ha pensato bene per compiacere il capo di fargli un lodo in Parlamento: e lui che colpa ne ha, condannato com’è a subire lo stravolgimento sistematico delle sue parole anche dai suoi ministri? Comunque, anche questo è stato un miserevole pretesto per attaccarlo ed accusarlo di pensare solo ai fattacci suoi, lui che mai ha permesso che le malvagie accuse che hanno cercato di mettere in ombra il suo passato e il suo successo rimanessero dubbie. E’ sempre andato in tutti i tribunali dove lo hanno chiamato, talvolta pure con i mazzi di fiori se il giudice era donna (e che, non ci si ricorda più del trattamento riservato alla Boccassini?), ché in fondo è un cavaliere a tutti gli effetti, pronto a smentire con prove e fatti tutte le ombre che gli si addensano sul capo. Adesso si dice che abbia comprato il silenzio di un certo Mills per coprire qualche magagna: ma lui a Londra non c’è andato, ché con Gordon Brown non ha molto da spartire; quando c’era Tony Blair, era lui che veniva in Italia. Vuoi vedere che questa è stata un’invenzione di quelli de The Economist, comunisti anche loro, che ce l’hanno sempre avuta su con lui?
Oggi, infine l’hanno fatta grossa. Il PD, ancora i comunisti, che s’inventano una manifestazione di piazza nella situazione in cui è il Paese, della quale non aveva mai voluto parlare per non far preoccupare la gente, mentre, tra l’altro, lui è in Cina (dai comunisti) in visita ufficiale. Questa è stata una manifestazione contro di lui ed il suo governo, diciamolo con franchezza. E questi residuati archeologici del comunismo nostrano si sono inventati sta cosa solo per sviare l’attenzione dalle loro divisioni intestine, altrimenti ad esporre le ragioni delle loro lagnanze sarebbero venuti in Parlamento, dove c’è spazio per discutere, con serenità e rispetto e, soprattutto con l’attenzione dovuta a chi a torto o ragione si fa portavoce di un disagio.
Ma a ben pensarci, questa gente che si fregia del titolo d’opposizione forse non meritava la cortesia con la quale da sempre è stata trattata: forse è opportuno cambiar registro e bisognerà dirglielo chiaro e tondo, alla prima occasione, rientrati dalla Cina. Poi se il discorso dovesse risultare troppo duro e magari qualcuno facesse l’offeso, saranno stati i media, come al solito, a prender lucciole per lanterne. Tanto è risaputo che gli mettono in bocca cose che non ha mai detto e né pensato……… e in ogni caso, dove sta scritto che la bocca deve essere costantemente connessa col cervello?
(nella foto, il ministro Mara Carfagna)

venerdì, ottobre 24, 2008

Cinquantenni, il popolo dei dimenticati

Venerdì, 24 ottobre 2008
C’è un fenomeno in Italia di cui non parla mai nessuno e del quale, se casualmente viene alla luce qualcosa, un episodio legato a singole vicende personali, si riempiono le cronache per qualche giorno, per poi riportare silenziosamente in soffitta l’argomento, ricoprendolo di un rinnovato velo di silenzio, quasi che con il silenzio lo si voglia esorcizzare.
L’argomento è quello della triste e disagevole condizione di disoccupazione, o al meglio di sottoccupazione, in cui vive una consistente fetta di popolazione di età compresa tra i 45 ed i 60 anni. Popolazione, questa, espulsa dal sistema produttivo anticipatamente e che, per le ragioni che si vedranno, non è più in grado di reinserirsi o riciclarsi, - come preferiscono dire i sociologi, - nel mondo del lavoro, con le conseguenze che possono immaginarsi.
Il fenomeno, - di cui, ripetiamo, difficilmente si parla, - non ha mai costituito oggetto d’attenzione di governanti ed oppositori, se si eccettua qualche timido riferimento a sostegno del tutto virtuale di questa categoria di senza lavoro nell’ambito di provvedimenti generali per l’occupazione, - si veda l’incentivazione prevista per le imprese per l’assunzione degli ultracinquantenni nel corpo della legge Biagi, - che mai ha però trovato un osservatorio o le adeguate pressioni politiche e sindacali tese al suo contenimento.
Il fenomeno, poi, ha uno stretto legame tipologico di natura territoriale, essendo più presente al Centro-Nord, dove la sua evidenza è dovuta all’abbandono storico di mestieri ad elevata manualità ed all’impossibilità di riciclarsi in attività di questa natura; mentre al Sud la sua scarsa visibilità è dovuta al riciclo nel lavoro manuale, caratteristicamente sommerso, al punto da generare vera e propria disoccupazione nascosta, non rilevabile neanche statisticamente. In entrambe le aree territoriali è in ogni caso comune il consolidato rifiuto da parte di quanti sono colpiti da provvedimenti espulsivi dall’industria di ricorrere alla reiscrizione nelle lista di disoccupazione, quale segno di scarsa se non inesistente fiducia nella capacità delle istituzione di trovare una soluzione di nuova stabilità, rendendo di fatto invisibile il fenomeno in questione.
Infine, questo stato di disoccupazione forzosa è molto più punitivo per le categorie impiegatizie e dirigenziali, che difficilmente riescono a riciclarsi in attività autonome connesse con le loro conoscenze professionali: Le categorie operaie, a parte la maggiore tutela di cui godono da parte di sindacati ed istituzioni, possiedono mestieri che consentono loro più facilmente di organizzare un’attività in proprio nella quale mettere a frutto le conoscenze acquisiti nel tempo.
Il fenomeno invece ha una sua consistenza, che stando alle stime statistiche colpisce circa il 4% della popolazione attiva e che rende il quadro del mercato del lavoro nazionale assai composito e preoccupante, specialmente se tale percentuale viene sommata a quella ben più numerosa rappresentata dagli impieghi a tempo determinato, in tutte le più astruse tipologie, che costituiscono l’imponente esercito dei precari presenti nella nostra realtà.
Le ragioni di tale fenomeno sono facilmente intuibili e sono da ascriversi ai meccanismi di lievitazione delle retribuzioni per effetto dell’anzianità ed alle maglie larghe che consentono la sostituzione di un dipendente “costoso” con un giovane sottopagato, grazie al ricorso ai ben più economici contratti di precariato. Tale meccanismo, che genera l’espulsione sistematica di forza lavoro qualificata dall’esperienza dal sistema produttivo ed imbarca giovani inesperienti e scarsamente qualificati, ha generato una caduta verticale della qualità dei prodotti, siano essi beni materiali che servizi, ed ha permesso all’azienda Italia, - sebbene il fenomeno non sia solo nazionale, - di controbilanciare la concorrenza dei produttori stranieri, grazie ad un regime di costo del lavoro “sopportabile”, che incide in maniera significativa sulla determinazione del prezzo finale di vendita.
Naturalmente, non è sempre oro tutto ciò che luccica. E grazie a questa semplice formula, attuata indiscriminatamente dalle imprese con la gravemente colpevole complicità della politica, il riposizionamento sul lato dei costi ha spesso generato vere e proprie rendite da sfruttamento, con utili moltiplicati e problemi sociali sempre più in tensione.
Gli stessi meccanismi di revisione dell’età pensionabile, - rivelatisi solo un’affaristica operazione di risparmio nell’erogazione degli assegni di quiescenza, - non hanno prodotto alcun risultato positivo sul mercato del lavoro. Gli ultracinquantenni, che impossibilitati a ricollocarsi speravano di poter accedere al trattamento pensionistico, oggi sono stretti nella morsa del paradosso di essere troppo giovani per smettere di lavorare e troppo anziani per potersi rioccupare, a dispetto delle crudeli stupidità asserite in ogni circostanza dai governanti di turno. Né al problema s’è inteso dare un contributo incisivo, essendo rimaste pressoché lettera morta le blande esortazioni pervenute da più parti per asportare un cancro sotterraneo che contribuisce a minare la convivenza nel Paese. Il fallimento delle innumerevoli iniziative di comuni e regioni per il reinserimento di questi lavoratori potenziali, attraverso corsi di reindirizzamento o riqualificazione professionale, è il segno evidente che dietro al fenomeno c’è stato pure chi ha trovato l’occasione per l’ennesima speculazione e la distrazione del pubblico denaro.
E chiaro, comunque, che ci troviamo di fronte ad un sistema politico inaffidabile e parolaio a cui non sta certamente a cuore la soluzione dei problemi reali del Paese, preso com’è a difendere il proprio privilegio o gli interessi delle categorie che ne hanno sponsorizzato l’ascesa. E questa valutazione va equanimemente attribuita ai governi di sinistra, dichiaratamente attenti al sociale ma contraddittori nella prassi, ed ai governi di destra, che sebbene sia noto quali interessi privilegino con il loro canto da sirena riescono comunque ad incamerare il voto di qualche gonzo, convinto che le promesse di questi siano più credibili di quelle tradite da chi li ha preceduti.Una certa logica d’oltre oceano vorrebbe che se un problema ha una soluzione non è un problema, mentre un problema a cui non c’è soluzione è per paradosso un non problema. Ed il fenomeno di cui parliamo calato in questa filosofia di bassa lega, per una ragione o per l’altra, probabilmente non ha ancora dignità di vero problema e così non ne se ne cura nessuno, lasciando migliaia di persone nella disperazione e nel più totale abbandono.

mercoledì, ottobre 22, 2008

La democrazia secondo Berlusconi


Giovedì, 23 ottobre 2008
«Non permetterò l'occupazione delle università. L'occupazione di luoghi pubblici non è la dimostrazione dell'applicazione della libertà, non è un fatto di democrazia, è una violenza nei confronti degli altri studenti che vogliono studiare». Così ha minacciato Berlusconi nel corso della conferenza stampa indetta Palazzo Chigi in seguito alla notizie delle occupazioni degli atenei da parte degli studenti, che protestano contro i provvedimenti Gelmini sulla scuola.
Peccato si fosse dimenticato di indossare il fez, che gli avrebbe conferito un’aria più convincente e più intonata alla solennità delle dichiarazioni, peraltro rese ancor più minacciose dall’avvertimento lanciato alla giornalista che aveva posto la domanda: «Avete ancora almeno altri 4 anni per fare il callo a questi metodi. Io non retrocederò di un millimetro».
Queste dichiarazioni, prontamente condannate dall’opposizione per l’incredibile dose d’arroganza che trasudano, mettono chiaramente a nudo quali siano i metodi democratici su cui intende appoggiarsi il novello duce di Arcore, confortato dai sondaggi d’opinione che lo darebbero saldamente al vertice delle preferenze degli Italiani, se non addirittura in crescita. Né nel suo caso si può parlare di potere che gli ha dato in qualche modo alla testa, dato che in svariate occasioni ha dimostrato che la supponenza baldanzosa e la vendicativa arroganza sono le sue qualità più appariscenti, forti di un’impunità ad oggi non intaccata che gli dà diritto di affermare tutte le corbellerie che gli passano per la testa, senza pudore e senza timore.
Che poi le sue deliranti affermazioni talvolta gli generino qualche infortunio è cosa poco rilevante, tanto ha sempre pronta l’accusa ai media di manipolare le sue sortite, anche quando ci sono le prove registrate della sussistenza di ciò che ha detto. Men che meno si preoccupa di versare benzina sul fuoco con ciò che dice, sicuro di trovare un capro espiatorio pronto ad assumersi le responsabilità se qualcosa dovesse andare storto.
«Abbiamo dovuto convocare questa conferenza stampa», ha replicato Walter Veltroni, «dopo aver letto le parole del presidente del Consiglio di questo Paese, parole molto gravi, parole che possono essere cariche di conseguenze. Il premier», ha aggiunto, «soffia sul fuoco, il disagio sociale non è una questione di ordine pubblico: mi chiedo se in questo Paese è ancora possibile dissentire».
E che il dissenso in questo Paese sia giorno dopo giorno a rischio della reazione violenta di chi governa è negli atteggiamenti di disprezzo dissimulato verso l’opposizione, costantemente bersaglio del dileggio ora del premier medesimo ora dei suoi servi mediatici, che non risparmiano le critiche e le accuse di irresponsabilità e mancanza di senso dello stato ai promotori della manifestazione di protesta prevista per il prossimo 25 ottobre. Su questo evento Berlusconi ha, infatti, dichiarato: «Manifestare è una possibilità della democrazia ed anche noi ne usufruimmo. Noi, però, manifestammo contro la pressione fiscale del governo Prodi. La manifestazione del 25 ottobre è solo contro il governo e non ha proposte. La piazza non è il posto migliore per fare proposte. Le proposte si fanno in Parlamento» e c’è da credere che se ad indicare i luoghi in cui è più opportuno manifestare sia lui, allora non v’è dubbio alcuno che i promotori della manifestazione dovrebbero soprassedere ed obbedire come foche ammaestrate all'ordine del domatore.
Non è mancata infine una stoccata a giornali e televisioni, ovviamente quelle non allineate e non addomesticate come le quelle di sua proprietà, colpevoli non solo di dare notizia delle proteste in corso ma anche , - a dire del saccente primo ministro, - di fare da cassa di risonanza nella diffusione di informazioni fuorvianti e di diffondere «ansia e le situazioni solo di chi protesta», per poi concludere con tono da sceneggiata: «Sono preoccupato da questo divorzio tra i mezzi di informazione e la realtà». Parole che svelano come la manifestazione in verità sia molto temuta dal leader della coalizione, che teme possa rappresentare il tappo finalmente cavato alla damigiana della contestazione latente..
La replica di Piero Martino del PD, comunque, non si è fatta attendere. «Oltre a prendere le contromisure adatte a bloccare le manifestazioni degli studenti, degli insegnanti e del corpo non docente della scuola», ha affermato il parlamentare, «Berlusconi invierà le forze dell'ordine anche nelle redazioni per verificare che il suo verbo venga amplificato come lui gradisce?».
Come si vede, le tensioni montano e la farsa cui ci aveva assuefatto Berlusconi sta assumendo le connotazioni di una pericolosissima guerra di minacciosi messaggi a cui si spera non debbano seguire provocazioni più consistenti, che in quel caso non potrebbero che imputarsi allo scellerato stile di un premier che ha smarrito il senso della misura e del tempo. E’ comunque opportuno che Berlusconi sia cosciente che nessuno rifiuterà di raccogliere il guanto qualora dovesse lanciarlo, dato che la democrazia ed i suoi valori, - la libertà di dissentire e di manifestare in tutte le forme lecite, - non potranno mai essere inibiti né con minacce farneticanti né con atti di prevaricazione fisica, poiché alla sua difesa s’è disposti a scendere per le vie per rispondere colpo su colpo con argomentazioni opportune e proporzionali. E in ogni caso se queste sono le concezioni che della democrazia e della liberta ha Berlusconi, allora occorre attrezzarsi per fargli capire che questa volta non si resterà inerti a guardare e subire.

Lettera di un bambino al ministro Gelmini


Mercoledì, 22 ottobre 2008
Signora Gelmini,
la mia mamma mi ha chiesto di scriverti questa lettera di ringraziamento per le tante cose positive che ha stai facendo e che finalmente risolveranno tanti problemini della mia vita quotidiana a scuola.
Mi è stato dato per compagno di banco un certo Muhammad con il quale ho cercato di fare amicizia da subito, ma che non capisco se mi capisce o fa finta di non capire quando gli parlo. Quando gli dico qualcosa molto spesso mi risponde “shukram”che non ho capito cosa significhi, ma dato che me lo dice sorridendo penso che sia una risposta positiva, anche se ogni tanto gli dico delle cose non proprio belle per stuzzicarlo.
Anch’io adesso a casa rispondo così alla mamma quando mi dice che non facendo i compiti resterò un somaro. Ma lei, non so perché, invece di essere contenta che le rispondo con un sorriso si arrabbia di più e minaccia di lasciarmi senza cena.
Dietro al mio banco c’è un bambino che si chiama Carlito e che viene dall’Ecuador. Lui parla poco l’italiano e molto lo spagnolo, ma ci capiamo lo stesso ed è ti confesso che mi sento importante nel potergli dare una mano ad imparare parole nuove nella nostra lingua. Io sto imparando molte cose della sua lingua ed ho capito che l’Ecuador non deve essere un posto così brutto come mi dice il mio papà, che mi raccomanda spesso di non parlare con questi compagni che sono sicuramente cattivi e figli di gente cattiva.
Anche la mia amica Simona dice che questi bambini sono cattivi, perché glielo ha detto sua mamma che lavora in banca e sa tante cose. L’altro giorno Muhammad mi ha portato delle caramelle, ma io anche se le ho prese non le ho mangiate, perché ho paura che papà abbia ragione e mi potrebbe venire il mal di pancia.
M’ha detto la mamma che adesso questi bambini se ne andranno via, in una classe tutta per loro, dove sarà più facile imparare meglio la nostra lingua senza avere più contatti con noi italiani. Devo dire che la cosa mi sembra un po’ strana, dato che quando parleranno tra di loro nessuno li correggerà se sbagliano ed un poco mi dispiace, perché non mi hanno mai fatto niente di male e non mi hanno mai preso le matite colorate che porto a scuola, ma che tengo dentro la cartella per evitare che me ne rubino qualcuna, visto che loro non ne hanno. L’altro giorno me ne era caduta una sotto il banco e non me ne ero accorto, ma Carlito me l’ha raccolta e me l’ha data. Adesso ogni tanto gliela presto, ma tu non dirlo alla mia mamma.
Vorrei chiederti la ragione per la quale mi hai costretto a mettere un grembiulino per andare a scuola: io non mi sporcavo, mentre adesso con quel vestitino mi vergogno un po’ perché mi sento una bambina. Poi tutto nero sembra di essere ad un funerale.
Infine, l’altro giorno la maestra, che era venuta in classe e si vedeva che non stava molto bene, ci ha detto che fra qualche settimana andrà via, perché verrà una nuova maestra che è titolare di cattedra. Non so cosa significhi questa cosa. So solo che io ho pianto di nascosto perché voglio bene a Clara, la maestra, che è molto buona e mi aiuta molto e al pensiero che non verrà più non ho più voglia di tornare a scuola. I miei genitori dicono che in ogni caso noi staremo molto meglio senza Carlito e Muhammad e la nuova maestra, ma io non ne sono convinto e spero che Clara rimanga.
Per quanto riguarda Carlito e Muhammad, ti prego falli restare. Ho convinto gli altri compagni italiani come me a dare una mano per fare imparare loro l'italiano più in fretta, così non si sentiranno molto soli. Ti posso giurare che sono buoni e non fanno del male a nessuno. Anche i loro genitori sono brave persone: il papà di Muhammad fa il muratore e sua mamma sta in casa per badare alla sorellina di Muhammad che ancora non parla perché è piccola. Il padre di Carlito, invece, fa l'autista è sempre fuori a lavorare, mentre sua mamma la vedo sempre al supermercato dove andiamo noi a fare la spesa e fa la cassiera là.
Ciao, Andrea

Scuola e disegni inconfessati del potere


Mercoledì, 22 ottobre 2008
Se c’è un comparto che non ha mai avuto pace è quello della scuola. Un comparto nel quale i governi ed i rispettivi ministri alternatisi nel tempo pare si dilettino a scompaginare ciò che hanno fatto coloro che li hanno preceduti ed inventano sistematicamente qualcosa di nuovo, – che in definitiva di nuovo ha poco, - che ha comunque il potere di sollevare polveroni polemici e di scontentare tutte le parti in causa.
La scuola, o meglio l’educazione culturale delle nuove generazioni, è dunque il laboratorio nel quale la politica predilige profondere impegno, ma, attenzione, non per migliorarne i contenuti, che nel corso degli anni si sono notevolmente impoveriti ed in nome di un antinozionismo massimalista sono divenuti sempre più annacquati e superficiali, ma con l’intento di ipotecare nei giovani la costruzione di valori e conoscenze funzionali alle proprie filosofie politiche, - che parlare di ideologie sarebbe oltremodo gratificante per il livello intrinseco della cultura dei riformatori di turno.
Il governo Berlusconi, ovviamente, non ha fatto eccezione a questa regola, già sperimentata con la Moratti nel precedente governo di destra, e la signora Gelmini, ministro di turno dell’Istruzione Pubblica, non ha saputo trattenere l’impulso di esibire le proprie competenze promuovendo una serie di novità – recupero del voto di condotta, grembiulini, tempo pieno e tagli di dotazioni ed organici – che di fondo non fanno che peggiorare il quadro della formazione scolastica, pretendendo di demolire anche quel poco di buono che residuava dalle precedenti riforme e controriforme. Nel caso di specie, inoltre, dovendo soddisfare le direttive di un Tremonti sempre pronto ai tagli indiscriminati di spesa quando si tratta di pubblico, di una Lega patologicamente angosciata da una visione razzista del mondo, di un Brunetta ossessionato dagli slogan sulla fannulloneria dei pubblici dipendenti, insegnanti compresi, di un’ Alleanza Nazionale che non ha mai rinunciato all’idea di riportare indietro gli orologi e trasformare le aule scolastiche in fucine di balilla, la Gelmini ha dovuto sudare le mitiche sette camicie per allestire una proposta di riforma in grado di soddisfare le indicazioni dei colleghi, ma che, a lavoro ultimato, definire ridicola sarebbe già un complimento. Né va trascurato che la proposta in sé è un ulteriore segnale preoccupante del privilegio che si intenderebbe riservare alla scuola privata, quella discriminante e di censo, rispetto alla pubblica, nella quale in nome di tagli e depauperamento della cultura imposto per legge non potrebbero trovare che frequentazione i figli di quell’Italia povera ed emarginata sempre più numericamente corposa.
Per onestà intellettuale, va certamente ammesso che la scuola ante-Gelmini non è certo un esente da malanni, come la fannulloneria di tanti insegnanti assenteisti o la modestia culturale di tanti sedicenti docenti, né il comparto, specialmente nell’ambito universitario, è esente da sprechi rappresentati dalla moltiplicazione delle cattedre inutili o dall’istituzione di corsi di laurea demenziali. C’è, infine, certamente un lassismo diffuso sul piano dell’indirizzo dei comportamenti, a specchio del crollo dei valori del clima sociale che viviamo. Ma da qui a dover giustificare progetti riformistici che nulla cambiano, se non traghettare la formazione scolastica di qualità dal pubblico al privato, e rendere l’istruzione pubblica un bronx in cui convogliare poveri e figli d’immigrati, sicuramente ne corre.
La stessa chiesa cattolica, potere rilevante nella vita politica del nostro Paese, ha espresso il proprio rifiuto ad un’ipotesi di classi differenziali per i giovani immigrati, in quanto rappresenterebbero veri e propri lager in cui confinare persone diverse per lingua, religione e radici sociali, perpetuandone l’isolamento, mentre è sempre più avvertita l’esigenza di creare le condizioni per un’integrazione effettiva, che spezzi la spirale di razzismo non più latente che attraversa la Penisola.
La gravissima crisi economica incombente, inoltre, non giustifica riduzioni di organico nella scuola, dato che comunque si tratta di posti lavoro dietro i quali ci sono famiglie. Ciò non significa che la scuola, e la pubblica amministrazione in genere, debbano rappresentare un ammortizzatore delle tensioni del mercato del lavoro. Ma se lo stato non è in grado di garantire una funzione sociale nei confronti dei suoi cittadini, almeno nelle fasi d’emergenza, significa aver fallito in una delle sue missioni fondamentali, - sebbene si comprenda lo sgomento di chi oggi al governo vede la cosa pubblica come una società per azioni con tanto di azionisti privati a cui dover dar conto e con un management dalla mente offuscata dal dio profitto.
Com’era facile prevedere la proposta Gelmini ha avuto il potere di mettere insieme la protesta di insegnanti, allievi e famiglie, che non intendono rassegnarsi passivamente ad una trasformazione del modello scolastico che non migliora i contenuti dell’istruzione, ma che interferisce di facciata su meri elementi estetici e, nei fatti, azzera la qualità del sapere. E bene fanno i cittadini studenti, insegnati, genitori a scendere in piazza e a manifestare sdegno e dissenso verso una riforma che si rivelerebbe un ulteriore spartiacque tra classi povere, sempre più massicce, e categorie ricche, sempre più ricche anche se meno numerose. Ed da questi fatti che l’attuale governo sta mettendo in luce le sue vere intenzioni, il suo disegno perverso di rigenerazione di una società classista nella quale le posizioni di rilievo sono appannaggio di pochi privilegiati, sostenuti dal danaro, sebbene poi l’onere della produzione della vera ricchezza del Paese ricada sulla comunità dei diseredati, sulla stragrande maggioranza dei cittadini a cui si chiede di credere, obbedire e combattere, senza alcun supporto nel bisogno, nella migliore tradizione di un triste ventennio, che si credeva definitivamente sepolto.
(nella foto, immagini degli scontri tra studenti e forze di polizia a Milano nella protesta contro i provvedimenti Gelmini)

lunedì, ottobre 20, 2008

Il sogno americano del PD

Lunedì, 20 ottobre 2008
I difetti ed i limiti di una sinistra incapace di divenire effettiva forza alternativa di governo riemergono nuovi di zecca. La difficile convivenza tra Di Pietro e Veltroni si sta colorando ormai di un’intolleranza, che rende giorno dopo giorno sempre più probabile il divorzio tra i due residuati della sinistra italiana, con conseguenze questa volta assai prevedibili.
Veltroni accusa Di Pietro di aver «rotto il patto elettorale già il giorno dopo le elezioni», mentre il leader dell’Italia dei Valori, che rimanda a casa l’accusa, motiva la sua scelta con la necessità di conservare un’identità precisa nei confronti del proprio elettorato ed accusa il segretario del PD di voler «egemonizzare la sinistra e di volersi piegare al diktat delle correnti forti all’interno del partito». A queste accuse segue la denuncia di perseverare in una politica di «collaborazionismo» con la maggioranza di governo, ritenuta «intollerabile» ed «inopportuna», oltre che priva di risultato pratico. Se a questo s’aggiunge che Berlusconi rimane l’unico e vero autore dello sfascio politico e morale del Paese, il partito di Di Pietro non può non considerarsi l’ultimo baluardo contro un berlusconismo che ha avvelenato le istituzioni e la vita pubblica in generale.
Le accuse di Di Pietro sono senza alcun dubbio forti e denotano un’intransigenza difficilmente conciliabile con la linea scelta dal PD e dal suo segretario. C’è purtroppo da constatare che la strategia dell’ex DS, che deve comunque tener conto delle spinte moderate della componente ex Margherita, non ha sortito ad oggi alcun risultato. Anzi, il partito e l’intera opposizione si ritrovano in uno stato crescente d’emarginazione e vedono i propri consensi in significativo calo, causa la delusione di chi aveva riposto le proprie aspettative sulla capacità interdittiva del PD nei confronti delle prevedibili esuberanze di una maggioranza dichiaratasi conservatrice, ma in realtà rapidamente scivolata in una restaurazione reazionaria intrisa di rivalsa. Ciò sta facendo in definitiva il gioco di Di Pietro, rimasto, nei fatti, l’unica anima critica in quel che appare sempre più un coro di fiancheggiatori e di blandi dissidenti.
A ben considerare ed alla luce del comportamento del PD ad un semestre dalla tornata elettorale, sembra percepire nel partito di Veltroni e Rutelli un processo di trasformazione proteso ad allargare la propria presenza verso il centro dello schieramento politico italiano ed in pieno ammiccamento amoroso con l’UDC di Casini, con il quale sarebbe possibile incrementare il peso del blocco antigovernativo e sperare di controbilanciare le forza in campo. Ed in questo disegno vi è insito il rischio di commettere un errore esiziale, poiché se è vero che l’Italiano medio ha da tempo confermato la sua congenita avversione per le avventure estremistiche o per le ammucchiate create esclusivamente nell’intento di creare artificiosamente i numeri, un’eventuale coalizione tra PD ed UDC non sarebbe sufficiente a definire una nuova maggioranza alternativa di governo. Ed ecco che il contributo dell’IdV di Di Pietro è, in questa logica matematica, irrinunciabile.
Noi restiamo sempre dell’avviso che la fase ambigua in cui sta giocando il PD sia di per sé un elemento perdente, il motivo di un’erosione di credibilità presso il suo elettorato storico. E lo stesso spostamento verso un filoamericanismo sempre più accentuato, in cui si tenta di confondere la vera identità degli eredi dei DS, non appare del tutto convincente, supino come si presenta nella condivisione di valori e principi estranei alle radici della cultura europea. Ed in questo silenzioso caos in atto nel PD, la voce di Di Pietro non è isolata, dovendosi registrare inequivoci segni di dissenso anche tra gli ex ulivisti, che sono ancora una componente rilevante della giovane formazione politica.
L’ex ministro della Difesa nel governo Prodi, Arturo Parisi, che alcuni giorni or sono aveva espresso l’augurio che la crisi della finanza non divenisse pretesto per innescare una ben più grave crisi della democrazia, intervenuto alla Festa del Partito democratico in corso a Firenze ha dichiarato: «Il mio giudizio sul governo ombra è quello di una scommessa al momento mancata» e ha poi impietosamente aggiunto: «All'inizio ho pensato che poteva essere utile ma, dopo tre mesi, il bilancio è quello di un'esperienza fallimentare».
Altrettanto dura la replica di Walter Veltroni all'ex ministro della Difesa. «Il giorno in cui Parisi utilizzerà un quarto delle sue energie per attaccare la destra» - ha sentenziato il segretario del Pd - «sarà un giorno in cui io sarò contento». Il leader dell'opposizione ha poi rincarato: «Ho sentito Parisi inneggiare a Diliberto che non è stato proprio quello più in sintonia con la cultura dell'Ulivo. L'idea di quella coalizione era sbagliata, per noi e per il Paese. Solo una maggioranza come quella a cui pensiamo potrà conquistare la maggioranza del Paese: abbiamo perduto il rapporto col territorio, dove vive la gente reale. Bisogna forgiare una nuova classe dirigente che abbia rapporto reale con la gente».
«Se mi avesse dedicato anche solo un po' di ascolto» - ha osservato Parisi di rimando - «si sarebbe accorto che è appunto su come contrastare la destra che verteva il mio intervento. O, almeno, su come evitare di aiutarla. Se l'unica fede democratica in un partito che si chiama democratico» - ha polemizzato ancora Parisi con stizza evidente - «non fosse rimasta la Festa, forse potrei spiegarglielo meglio. Oppure pensa che dopo aver praticamente sciolto l'Assemblea nazionale eletta delle primarie, - l'unico organo di partito democraticamente eletto nel quale ho qualche titolo a parlare, - il mancato confronto sulle ultime elezioni possa essere rinviato alla fantomatica Conferenza programmatica rinviata a sua volta appena ieri al 2009?».
La schermaglia continua e l’esito è incerto, sebbene sia certo che si è perso a causa delle divisioni e, con la sussistenza di queste, si continuerà a perdere. Piuttosto, non è con lo spreco delle energie per attaccare in casa propria il dissenso che si vincono le sfide. Le energie, quelle energie positive, devono essere utilizzate per mobilitare il consenso contro un comune ed individuato avversario. Non avere contezza di questa emergenza politica, non avere il senso della prassi nella vita d’ogni giorno come in politica rende irrimediabilmente ed ottusamente perdenti in entrambe le circostanze. Il sonno della ragione genera mostri, ebbe a condensare Goya in un celeberrimo dipinto, ed alla luce delle esperienze questi mostri sono tanto più pericolosi quanto più fondano la loro radice sull’illusione di non commettere errori.
(nella foto, Arturo Parisi)

domenica, ottobre 19, 2008

Il tramonto del liberismo e la crisi del sistema Italia


Domenica, 19 ottobre 2008
Da più parti si sente dire che la crisi mondiale in atto avrà ricadute di lungo termine e ciò anche se i governi fossero in grado di individuare rapidamente una ricetta miracolosa in grado di fermare il vortice negativo che sta coinvolgendo le basi della finanza dei vari Paesi. Anche questo è il frutto avvelenato della globalizzazione, che nella trasnazionalità capitalistica della produzione e dei mercati è in grado di generare un effetto domino anche nelle situazioni di crisi.
Nel giro di qualche settimana s’è assistito al crollo del sistema finanziario americano, con l’implosione di colossi bancari di livello planetario. Si è registrato il fallimento di una delle nazioni più floride d’Europa, l’Islanda e si avvertono i sintomi di boccheggiamento dei potenti imperi economici emergenti Cina ed India, seguiti sul fil di lana dal Giappone, gigante ammalato ormai da tempo e mai in grado di riprendersi in modo definitivo dalla precedente crisi in cui era caduto alla fine degli anni ’90.
La crisi, tuttavia, non è finanziaria, o almeno non riguarda esclusivamente la finanza. Ciò che sta mettendo in luce la situazione in atto è che è in crisi l’intero modello economico liberista inaugurato negli anni ’70 e di cui sono stati sostenitori accaniti la signora Tatcher in Gran Bretagna e le diverse presidenze americane succedutesi nel tempo, e che ha costituito nel tempo un riferimento da emulare per tutti i governi del vecchio continente.
Francia, Germania, Spagna ed Italia per ultima, per citare i Paesi più significativi dell’area euro che hanno abbracciato il nuovo credo, hanno praticato nell’ultimo quindicennio politiche di sostanziale smobilitazione del pubblico a favore del privato nei più importanti settori dell’economia interna, con accelerazioni rapidissime nei settori dei servizi pubblici a valore aggiunto – telecomunicazioni, sanità, credito, trasporti, - lasciando ai privati la gestione di importantissimi quanto delicatissimi settori dell’economia, nell’intento di scaricare il pubblico dall’onere dei costi prodotti da un’inefficienza ormai endemica e di creare le condizioni per una concorrenzialità virtuosa, in grado di migliorare la qualità ed abbassare il prezzo di utilizzo per il cittadino-utente. Tale politica, tra l’altro, è rapidamente divenuta una sorta di vincolo nel quadro di un’Unione Europea legata da una moneta unica e da sottostanti patti di stabilità.
Naturalmente non tutti i Paesi aderenti all’area euro erano pronti allo stesso modo ad affrontare il percorso obbligato imposto dalle nuove regole monetarie e, con il senno di poi, è risultato evidente come l’Italia fosse un anello tra i più deboli della catena, considerata la fragilità dei suoi fondamentali ed il profondo divario tra Nord e Sud, che non ha mai trovato una vera soluzione dalla ormai lontana unificazione del Paese.
Sebbene non occorra essere studiosi ed esperti di scienze economiche per sapere che la debolezza di un’economia si vince con ricette stataliste in grado di armonizzare i processi di crescita e di consolidamento, la via italiana alla modernizzazione è stata realizzata con una sorta di privatizzazione selvaggia, spesso assai onerosa per i cittadini-contribuenti, chiamati a risanare le voragini creati dalla presenza pubblica nella guida di importanti settori dell’economia – chi non ha memoria delle svendite o delle regalie realizzate con lo smantellamento dell’IRI? – ed al contrario estremamente vantaggiosa per la schiera di piccoli capitalista rampanti disseminati per la provincia italica, molto spesso privi di mezzi propri ma ammanicati con istituti di credito compiacenti, pronti a pompare denaro liquido per finanziare le lucrose operazioni d’acquisizione. Quel che suona ancora peggio è che queste privatizzazioni di massa siano avvenute in assoluta assenza di regole e di vincoli per il mercato, al punto da essersi rivelate vere e proprie svendite al migliore (o meglio, sponsorizzato) offerente, che le ha rapidamente trasformate in affaristiche opportunità speculative, accantonando ogni attesa di miglioramento qualitativo e di riduzione di costo per i beneficiari dei servizi. Lì dove la liberalizzazione era riuscita a creare un lumicino di concorrenza, ben presto si sono costituiti accordi di cartello, che non sono certo stati scalfiti dai maldestri interventi delle varie authority, - pomposamente messe in piedi per accasare qualche trombato più che per vigilare sul mercato di competenza, per la strutturale carenza di regole di riferimento.
Il colpo di grazia, infine, lo ha inferto il trionfo elettorale di formazioni politiche – che probabilmente di politico avevano ben poco, ma che rispondevano a veri e propri comitati d’affari riusciti a colmare il vuoto di potere determinatosi con la famosa tangentopoli – portatrici di un verbo liberista incondizionato, pervicacemente protese ad annullare ogni strumento di controllo e di verifica del mercato, imbevute di una dottrina secondo la quale il mercato è in grado di autoregolamentarsi e di individuare i correttivi d’equilibrio.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con un regime di prezzi fuori da ogni controllo anche per i beni di prima necessità; con un mercato del lavoro a pezzi, nel quale trovare occupazione è divenuto pressoché impossibile e con una precarietà - che gli ipocriti si ostinano a spacciare per flessibilità – che non ha pari nel mondo occidentale; con un livello di salari tra i più bassi d’Europa; con una pubblica amministrazione pletorica, scarsamente professionale ed anche oggetto delle persecuzioni dei ministri di turno, certi di potersi guadagnare a basso prezzo le simpatie delle masse, che in questo gioco al massacro individuano i dipendenti pubblici come parassiti di cui sarebbe opportuno liberarsi; con una spesa pubblica che nonostante tutto continua implacabile a lievitare, sia perché avvinta nel perverso meccanismo di incremento dei prezzi dei beni e servizi attinti dal mercato privato, sia per lo spreco di nicchia a cui la politica centrale e locale non intende rinunciare; un livello di povertà galoppante con un divario sempre più ampio rispetto alla ricchezza concentrata nelle mani di pochi; con il cosiddetto stato sociale ridotto a mera dizione concettuale, dato che non è in grado di garantire persino asili nido ed un livello decente d’istruzione ai ricambi generazionali. In altre parole siamo allo sfascio totale e non c’è parvenza di iniziative che invertano la rotta.
In presenza di una crisi come quella in atto sarebbe auspicabile un ritorno dello stato nella gestione del mercato, attraverso la nazionalizzazione dei settori chiave o l’acquisizione di sostanziosi pacchetti partecipativi in grado di garantire all’azionista pubblico una posizione determinante nella definizione delle politiche gestionali. Allo stesso tempo dovrebbero essere assunte con rapidità ed immediatezza misure a sostegno dell’occupazione e del reddito, necessarie per garantire quel rilancio dei consumi alla base della ripresa produttiva. Tali iniziative, accompagnate da opportuni provvedimenti di riduzione del costo del denaro e della pressione fiscale potrebbero assicurare quell’ossigeno supplementare per il sistema economico e produttivo.
A ben guardare si ha invece la sensazione che l’attuale governo Berlusconi annaspi nella ricerca di soluzioni contraddittorie, tendenti esclusivamente a sostenere le categorie imprenditoriali con provvedimenti di riduzione della fiscalità, ma incapaci di mettere in moto i consumi, vero motore di ogni ripresa economica. Mentre sul lato occupazione e sostegno dei redditi si registrano progetti contenitivi della base occupazionale, che non possono non produrre conseguenze negative sulle condizioni di vita delle famiglie. La capacità di un sistema politico di rispondere effettivamente alle esigenze dei cittadini si evidenziano proprio nelle fasi critiche, non certo nei periodi di particolare benessere. E su questo piano ci sembra di poter concludere che la compagine Berlusconi, messa alla prova, sta evidenziando tutti i limiti di un liberismo definitivamente avviato sul viale del tramonto.

giovedì, ottobre 16, 2008

Un nuovo gioco a premi per gli Italiani


Giovedì, 16 ottobre 2008
Bravi, bravi. Non si può dire altrimenti degli uomini di governo di quest’Italia autunnale nel clima e nelle coscienze. E mentre sale il consenso per la Berlusconi & C., almeno a detta dell’IPR, nota agenzia di sondaggi, cosa non ti pensano il geniale Silvio ed i suoi boys per far soldi e aumentare gli introiti statali necessari per far fronte alla crisi economica che ormai attanaglia anche il nostro Paese? Ma un bel tiro al bersaglio in perfetto stile luna park, con il quale gli Italiani, vero popolo di scommettitori, potranno tentare la sorte cercando di colpire con pomodori, uova ed altro materiale selezionato dall’addetto al baraccone tra derrate varie morbide, purché avariate, i componenti del governo che sfileranno ad una certa distanza e a velocità tale da non rendere proprio facile il centro. Questa velocità sarà peraltro variabile: più alta la possibilità di vincita, maggiore la velocità con la quale scorrerà il personaggio. Costo di ogni lancio, ancora da definire, ma nelle ipotesi degli inventori il successo sembra garantito. Tra l’altro, abbinato ai mille gratta e vinci, ormai in voga ed unica speranza di uscire dal ghetto in cui la politica statale ha confinato, e ad un superenalotto sapientemente pilotato, dovrebbe garantire introiti miliardari, contributo significativo per risanare le sgangherate casse dello stato e dare una chance al cittadino
Non ci si illuda però che il nuovo gioco non imponga qualche sacrificio agli inventori, costretti come sono a tirar fuori ogni giorno un’idea geniale per incrementare scommesse e montepremi. Così se colpire la Gelmini valeva sino a ieri 10.000 euro, grazie alle stupidaggini inventate con la riforma della scuola, oggi, con l’annuncio delle classi differenziali tra scolari italiani doc ed immigrati – sembra che il Sud Africa abbia chiesto il deferimento all’ONU del nostro Paese, - permetterà di mettere in tasca un gruzzolo di 50.000 euro. Abbattere la Carfagna con un assestato pomodoro consentirà di portare a casa ben 20.000 euro, mentre La Russa, Bossi e Maroni daranno diritto alla sostanziosa cifra di 100 mila euro, visto la notorietà dei personaggi e che qualcuno di loro ha un peso rilevante nella produzione di nuove fesserie, essendo segretario di partito.
Uno dei premi maggiori, si parla di 500 mila euro, è stato attribuito a Brunetta che essendo piccolo e sgusciante sarà veramente problematico colpire. Al suo abbattimento eventuale è stato inoltre aggiunto un superpremio, qualora il fortunato riuscirà a dimostrare di essere dipendente in servizio della pubblica amministrazione e sempre che non abbia tentato la sorte in orario di lavoro, pena la confisca della vincita. Il gioco, comunque, è stato vietato allo stesso Brunetta, che dopo aver istituito i tornelli anche nel proprio ministero pare ci passi sotto e non timbri l’ingresso e l’uscita, risultando così sistematicamente assente dal lavoro e dunque incallito assenteista.
Trattamento particolare è stato previsto per Frattini, notoriamente d’andatura statuaria e lignea, oltre che di particolare eleganza, che sicuramente avrebbe costituito un facile bersaglio. Per lui è stata prevista la copertura con del cellophan trasparente, che consentirà di individuare il personaggio, ma gli eviterà lo schizzo del pomodoro sul candido sparato.
Infine, c’è lui, il premio massimo, Silvio Berlusconi, con ben 1 miliardo di euro più una busta con ulteriore premio ignoto (si mormora 20 milioni minimo). Il prode Silvio è stato considerato nel mazzo come un jolly, grazie alla difficoltà di quantificare le balle che spara a raffica ed alla variabilità conseguente di un montepremi da affibbiare al suo abbattimento. Certo è che apparirà di tanto in tanto, in perfetto stile jolly, e colpirlo sarà difficile come centrare il sei al superenalotto. E c’è da credere che l’iniziativa sicuramente eroderà una significativa percentuale a quel 38% che dice non amarlo o che non apprezza la figura.
L’idea sembra geniale e c’è da credere nasconda il contributo del grande mago dell’amministrazione della pubblica economia, Giulio Tremonti, vera fucina di stupefacenti trovate. Qualche ministro intervistato, ma che ha chiesto di mantenere l’anonimato, forse un po’ piccato dal "modesto" premio attribuito al suo nome rispetto ad altri colleghi, ricorrendo al noto spot pubblicitario ha comunque commentato “contributo nascosto, successo evidente”.

mercoledì, ottobre 15, 2008

Caro Cavaliere, dissento dai saluti a Bush


Mercoledì, 15 ottobre 2008

Egregio Cavaliere Berlusconi, ho visto le immagini della sua recente visita negli Stati Uniti, dove si è recato per porgere un saluto, che qualcuno con gusto macabro ha definito ultimo, al suo amico personale George W. Bush.
Premesso che mi permetto dissentire dal considerare personale la sua visita, dato che il viaggio per recarsi dal suo amico è stato pagato dai contribuenti italiani, fino a prova contraria, tra i quali disgraziatamente mi devo annoverare, desidero farle rilevare che lei è capo del governo di questo triste Paese e la scorta, le segretarie e quant’altro le è stato necessario per effettuare la visita le è stato messo a disposizione in questa veste, non certo perché ha fatto visita ad un compagno di tresette o di baldorie.
Parimenti, essendo gli Stati Uniti un Paese da sempre “amico” dell’Italia il suo saluto poco rileva, poiché primariamente andava presentato in nome dei cittadini di cui lei è componente e, senza il mio consenso, rappresentante.
Per quanto concerne l’opportunità di tale iniziativa, desidero farle notare che la collocazione a riposo – per non dire dipartita – del signor Bush ritengo sia vista con sollievo da tanti, oltre al sottoscritto, dovendo prendere atto che durante il suo lungo mandato il signore in questione ha messo in pratica tante di quelle iniziative censurabili, non ultima una guerra d’interesse vergognosa, al punto che, potendolo fare, sarebbe stato il caso di metterlo alla porta anzitempo, pur con la dovuta cortesia, giusto per non scendere al suo livello
Sul fatto che il personaggio passi alla storia, non v’era dubbio alcuno, sia per il ruolo che ha immeritatamente ricoperto che per le arroganze texane cui ha costretto il mondo, pertanto che lei abbia avvertito l’incontenibile dovere di rassicurarlo in tal senso stimola solo un sorriso, sebbene capisca come fosse suo desiderio, Unto dal Signore, rassicurarlo sul fatto che anche il buon Dio farà in modo che si conservi memoria di lui. D’altra parte, sono certo che ciò accadrà anche per lei, così come è accaduto a tutti coloro che hanno occupato posti di responsabilità nella vita di ogni comunità: da Gensis Khan a Napoleone, da Ghandi a Hitler, da Bush a Berlusconi e così discorrendo. Che poi il ricordo storico sia legato ad eventi gradevoli o sgradevoli ciò sarà dipeso da quel che si è fatto, dato che la storia è giudice integerrimo e poco incline alla clemenza.
Tornando al saluto mi farebbe cosa gradita se registrasse, anche a futura memoria e nel caso volesse ripetere uno show come quello che ci ha riservato, che non appartengo alla schiera di coloro soliti a degradare in ruffianerie e leziosità varie. Pertanto, se il protocollo imponeva una visita di commiato al potente di turno uscente, niente obbligava alla profusione di moine e accarezzamenti, almeno per rispettare i diritti dei dissenzienti che possono sentirsi obbligati al protocollo ma non al mero servilismo. Peraltro, mi auguro che i danni provocati dalla sua esuberante compiacenza non debbano ascriversi alle tasche degli Italiani. Anche questa è democrazia, caro Presidente, e la sottovalutazione dei sentimenti dei dissenzienti, in democrazia, è un atto di cui prima poi si pagano le conseguenze, anche se questo rischio quando si sta in sella e si guarda spavaldi dall’alto in basso appare più la farneticazione del perdente che non una possibilità eventuale.
Nell’approfittare dell’occasione che ho per comunicarle quel che penso, desidero porle una domanda, che non ritengo imbarazzante per uno come lei così avvezzo alle persecuzioni e, dunque, ormai agile a sgattaiolare nel trovare la risposta giusta: ma ha mai confessato al suo amico George di nutrire altrettanta amicizia e sfrenata simpatia per Putin? Sa, un comunista, un altro guerrafondaio ed arrogante, ma che sempre comunista rimane.
Io, comunque, la capisco, comprendo i sacrifici che bisogna sostenere per conservare buoni rapporti con tutti. E poi, non lo diceva anche il suo papà? “Se ti danno uno schiaffo, porgi l’altra guancia”.
Sfortunatamente, senza alcuna stima e non suo.

Da Catania, Sciampagnini per tutti

Mercoledì, 15 ottobre 2008
A leggere le notizie odierne che vedono il cavaliere Berlusconi in testa nella hit parade dei consensi degli italiani, con oltre il 62% delle preferenze espresse dal campione, c’è da restare allibiti. Ma non può che prendersi atto che l’IPR, l’istituto di rilevazione che ha eseguito l’indagine, ha consuntivato un risultato che, - potrà non piacere, - rispecchia l’umore degli Italiani, ai quali non si vedrebbe la ragione per la quale, in assenza di alternative credibili in questi momenti di tragica recessione, dovrebbe essere negato il diritto di acquistare, dopo accurata scelta, la corda con la quale impiccarsi.
Fa il paio con questa notizia, - apparentemente scollegata ma che la dice lunga sui risultati che la troupe del Cavaliere è in grado di consuntivare nel medio e lungo periodo, - quella del rinvio a giudizio di uno dei suoi più valenti collaboratori, quell’Umberto Scapagnini, suo medico personale, oggi senatore di questa strana Repubblica, e già per due mandati acclamatissimo sindaco di Catania, la nona provincia del Bel Paese.
Sarà che il sant’uomo Berlusconi sta espiando in terra qualche peccatuccio veniale, magari a causa delle sue propensioni alla galanteria eccessiva, in attesa comunque di accedere alla destra dell’Onnipotente, a cui ci si augura non tenterà di fare le scarpe, oppure più banalmente per semplice sfortuna, - che il termine sfiga non s’addirebbe ad un Unto del Signore, - resta il fatto che il Galantuomo durante la sua faticosa missione di redenzione degli Italiani di farabutti ne ha incontrati: Previti, condannato in via definitiva per reati non proprio leggeri, Dell’Utri, ancora in attesa di giudizio finale per le discutibili amicizie con le quali si attardava a bere una birra o gustarsi un cannolo; Niccolò Querci, suo impagabile scendiletto coinvolto in pratiche di malaffare; Dotti, insigne azzeccagarbugli Fininvest; e così via. Anche il fratello, Paolo, indiscusso talento imprenditoriale, è finito nelle maglie della giustizia, causa qualche affaruccio di depuratori, quasi a confermare che in ogni buona famiglia c’è una pecora nera. E adesso ci si mette anche il suo medico, che già si è beccato due anni e mezzo per abuso d’ufficio e violazione della legge elettorale e, non contento, si ritrova rinviato a giudizio con altre 46 perle d’onesta e trasparenza del Comune di Catania per falso ed abuso d’ufficio in relazione al clamoroso dissesto finanziario della città, gravata da oltre un miliardo di debiti.
E’ doveroso dare atto al prode Cavaliere di Arcore che, per quanto non abbia mai abbandonato i suoi apostoli nella sventura, ha sempre gridato a gran voce la sua estraneità alle gesta dei suoi ragazzi birichini, vittime sicuramente della protervia e dell’invidia di quattro magistrati in vena di protagonismo o al soldo dei soliti Farisei, che non hanno mai perso occasione per attaccarlo ai fianchi e svilire il suo verbo. Lui stesso, oggetto di processo per presunti intralci alla giustizia in combutta con un certo Mills, ha più volte lasciato intendere che si tratta di una montatura mostruosa tendente a qualificarlo a guisa di Barabba agli occhi dei fedeli.
Certo, Scapagnini l’ha fatta grossa. E per giunta ha avuto persino l’arroganza sprezzante di invocare l’intervento della magistratura per far luce sulle voragini dei bilanci del comune di Catania, ben sapendo che le cause della a dir poco allegra gestione non avrebbero potuto che essere imputate a lui ed ai suoi soci. Ma si sa che è del tutto normale che davanti al cadavere del disgraziato che hai messo sotto con l’auto la prima difesa consiste nel dire “non guidavo io”, salvo doversi correggere davanti all’evidenza d’esser solo in macchina. Sciampagnini, - com’è stato ribattezzato questo nobel per la buona amministrazione e non per la medicina, come sarebbe stato logico pensare, - grazie alle sue spumeggianti serate in compagnia di avvenenti signorine di buon cuore, ha provato a giustificarsi dichiarando che mentre qualcuno faceva man bassa del danaro (già scarso) presente nelle casse comunali era in ben altre faccende affaccendato: cene con amici, inaugurazioni, convegni, incontri galanti e, soprattutto, al capezzale del Maestro, così bisognoso di cure amorevoli, dati l’età e il crepacuore costante provocatogli dalle contumelie incessanti proferitegli da avversari e detrattori. Ma a quanto pare, sebbene gli abbiano creduto viste le testimonianze delle tante inconsolabili, gli è stato rammentato che il suo ufficio di sindaco non ammetteva distinguo alcuno nei confronti delle responsabilità istituzionali gravanti sul suo capoccione, né le cure prestate al malato illustre potevano costituire un salvacondotto per un operato a dir poco allucinante.
Non sappiamo se l’indagine che l’IPR ha condotto abbia coinvolto nel campione qualche Catanese, poiché sarebbe stato interessante conoscere quale gradimento ottiene ancora Berlusconi in una città ormai alla rovina e che, per uscire dalla melma nella quale si è scientemente cacciata con l’elezione e con la rielezione di Scapagnini, dovrà rassegnarsi a metter mano al portafogli per pagare i debiti e risalire la china. E che Berlusconi con le sue filosofie sia direttamente coinvolto non v’è dubbio alcuno, visto che ancora in molti si ricordano la sua visita pastorale in occasione della rielezione del suo pupillo, anche se non si è qualcuno affetto da stupefacente ingenuità avanza il dubbio che la visita fu motivata dall’improvviso desiderio di un gelato artigianale, voluttuosamente consumato nella centralissima via Etnea, e non per sostenere la candidatura dell'adepto d'Esculapio.
Di sicuro a Catania rimangono le voragini nelle strade per carenza di mezzi per la manutenzione; il centro della città è illuminato a giorni alterni e le periferie sono Bronx inavvicinabili dopo il tramonto, a causa del contingentamento della pubblica illuminazione per gli enormi debiti insoluti nei confronti dell’ENEL; i vigili, quei pochi che si vedono per strada – gli altri non si sa cosa facciano e dove siano – non elevano più le multe, tanto le Poste, che vantano crediti miliardari, non recapitano alcunché recante il logo comunale; la spazzatura si accumula come un simbolico trofeo della sconfitta, dato che i netturbini non ricevono da tempo lo stipendio; interi settori dell’amministrazione comunale sono paralizzati per l’inattività dei dipendenti, che non ricevono emolumenti da oltre 10 mesi e così via. Eppure, dopo l’abbandono di Scapagnini, che ha pensato bene di trasferirsi in Senato con tanto d’immunità prima della scadenza del secondo mandato, a Catania continua a governare il centro-destra, questa volta con un esponente di AN, Raffaele Stancanelli. Il neo sindaco, in un continuum di filosofia berlusconiana senza fine e, quel che è peggio, senza speranza, - quasi che per cambiare mentalità e registro basti solo sostituire gli uomini e non anche le regole, - ha infatti ritenuto opportuno nei primi giorni del suo insediamento stanziare 300 mila euro per uno stabilimento balneare, chiuso il giorno dopo dalla magistratura perché privo di licenza.
Quella di Catania è la storia sempre eterna del cambiare tutto per non cambiare niente, di cui i Catanesi non possano vantare alcuna primogenitura, ma della quale piangono le conseguenze.
(nella foto, Umberto Scapagnini)

martedì, ottobre 14, 2008

Immigrato canaglia, adesso mi pento



Martedì, 14 ottobre 2008
Da qualche tempo si deve registrare l’arrivo nel nostro Paese di una nuova malattia fino ad ora sconosciuta. Una patologia di provenienza esotica che pare colpire tutti coloro cui la sorte ha riservato la collocazione in una posizione istituzionale di potere. I sintomi di questa infezione, che si manifesta con perdita di memoria e sostanziale spersonalizzazione del paziente, si avvertono attraverso un’improvvisa mutazione delle capacità percettive, che portano gradatamente l’ammalato a dichiarare di vedere cose completamente diverse da quelle che vedeva qualche tempo prima al punto da non renderlo riconoscibile per ciò che dice persino agli amici ed ai parenti più prossimi., che lo guardano sgomenti e smarriti, consapevoli delle sua infermità, ma incapaci di individuare una cura appropriata che lo riporti allo stato precedente.
I poveracci affetti dal morbo, ribattezzato dagli esperti con il nome provvisorio di “regresso gnoseologico identificativo”, si caratterizzano per l’acquisizione di una percezione del mondo in assoluta antitesi con ciò che hanno sostenuto da sempre, al punto di affermare all’apice della patologia che una certa cosa che per loro è sempre stata nera adesso è bianca e viceversa, con assoluta non curanza della perdita di credibilità che ciò genera in coloro che alle loro farneticazioni prestano orecchio
Dalle cronache di queste ultime settimane apprendiamo che la malattia sembra aver colpito il presidente della Camera, Gianfranco Fini, che recentemente è stato sorpreso a rilasciare dichiarazioni incredibili sugli immigrati e sugli imprenditori, dimentico – ma sarebbe più appropriato dire ignaro, dato che il suo passato deve aver subito un black out nei suoi ricordi, - che lui medesimo è stato autore di un provvedimento di legge insieme con il grande esegeta della purezza della razza padana Umberto Bossi, che ha previsto di rispedire a casa migliaia di individui presenti sul suolo italico rei soltanto di avere la pelle scura o gli occhi a mandorla o qualche ulteriore evidente segno d’italianità sospetta.
E’ necessario combattere «la tendenza all'isolamento da parte delle minoranze di stranieri ed impedire il prodursi di fenomeni di razzismo e xenofobia che nel nostro paese tendono purtroppo ad aumentare per effetto di paura, ignoranza, degrado», ha dichiarato Fini ad un incredulo giornalista che gli chiedeva un commento ai crescenti fenomeni di razzismo registrati in tutta la Penisola. Poco ha rilevato per il presidente della Camera che la paura, l’ignoranza ed il degrado siano stati gli ingredienti del torbido calderone in cui ha rimestato il suo partito quando lui ne era ancora segretario e che continuino ad essere gli elementi su cui puntano i suoi ex generali, che di quel partito hanno raccolto l’eredità. Anzi, per essere più precisi, c’è da puntualizzare che in certe aree di degrado morale, civile e culturale AN ha trovato l’humus per mietere consensi grazie alla propaganda anti-straniero, dipinto come “ladro di lavoro” per le braccia locali o come una canaglia diseredata e dedita a pratiche innominabili per sbarcare il lunario in una terra nella quale l’accondiscendenza delle sinistre ha garantito riparo anche alla feccia del mondo.
Ma ce n’è per tutti, anche per quegli imprenditori verso i quali «c'è stata un po' di accondiscendenza, lo dico in modo papale papale, che a volte sono degli autentici sfruttatori degli immigrati», ha confessato un Fini orgoglioso di questa scoperta di verità. In questa rinnovata visione della questione immigrazione, ha proseguito il presidente di Montecitorio il primo problema da affrontare è «la lotta allo sfruttamento e al lavoro nero» perché «il problema non sono quelli che lavorano in nero, ma coloro che impiegano in condizioni di sfruttamento, coloro che arrivano in Italia spinti dal bisogno».
Come si vede, siamo davanti al capovolgimento della percezione e l’immigrato da reietto e portatore endemico di delinquenzialità è diventato un “bisognoso” a cui occorre garantire tutela dagli sfruttatori, - questa volta si presuppone nostrani, - pronti a profittare del suo stato di necessità. E questa delirante analisi si chiude con l’indicazione di una seconda priorità sul tema, che chiama in causa invece la capacità della politica di «costruire l'Italia del XXI secolo, quella che vogliamo lasciare ai nostri figli, un'Italia, che non abbia paura di riscoprire un'identità evolutiva, orgogliosa delle proprie tradizioni ma non chiusa; una via italiana all'integrazione, innovativa e anticipatrice, un modello che ben si inserisca nel quadro dei valori sanciti dall'Unione Europea».
Non c’è che dire. Il discorso, per quanto criticamente tardivo, non fa una grinza e ben s’inquadra nella pratica doppiopettista cui sono avvezzi i nostri uomini politici. Pensare che Enrico Berlinguer, per molto meno, dovette subire il dileggio di Forattini ed i processi studenteschi. Ma è noto, i tempi cambiano, la memoria è sempre più sottile e la gente è sempre più scoglionata, presa com’è dai problemi veri del quotidiano per prestare orecchio alle fandonie populiste dei figliocci e nipotini d’Almirante. Che poi qualche fannullone, che legge il giornale per ammazzare la noia, non creda ai suoi occhi nel vedere riportate dichiarazioni attribuite ad un Fini, ma che starebbero meglio in bocca ad un Bersani, è cosa che non sfiora neanche chi si abbandona a quelle esternazioni, certo com’è che nell’epoca in cui non ci sono più le stagioni non c’è più un abito invernale ed uno estivo.
E di questo passo chi si scandalizzerebbe più se il buon Bertinotti, ormai ritiratosi dalla politica attiva, mentre si dedica alla coltivazione delle rose – rosse, c’è da sperare, per antica coerenza – fosse sorpreso ad intonare “giovinezza, giovinezza……”?

sabato, ottobre 11, 2008

La legge fai da te. Cronache demenziali

Sabato, 11 ottobre 2008
Non passa ormai giorno che dalle cronache dei quotidiani nazionali non giungano notizie a dir poco strane, qualcuna divertente, qualcuna un po’ meno, qualcuna tragica, comunque tutte segno inconfutabile di come questo Paese un tempo culla del diritto oltre che del sole, della pizza e degli spaghetti, stia precipitando nel caos nel quale l’unica certezza è la vessazione arrogante di un sistema in cui un poliziotto, un questore, un cassiere di banca, un impiegato dell’anagrafe o un semplice cittadino qualunque, si improvvisa sceriffo e, facendo appello ad una normativa immaginaria, si insinua nei vuoti delle mille norme contraddittorie che confondono lo scenario e impone che una certa cosa s’ha da fare come dice lui, quantunque non abbia autorità alcuna.
Ecco allora che in una nota banca nazionale, - Banca di Lodi, sede di Avola, giusto per non passare per reticenti, - presentandosi con un assegno peraltro emesso da quella filiale su cui sta scritto a caratteri cubitali “pagate a vista”, ci si sente rispondere che non sussiste alcun obbligo di legge ad effettuare il pagamento, sebbene l’assegno sia regolare e l’esibente mostri ogni valido documento possibile per dimostrare che il beneficiario sia lui. L’incasso, secondo il novello sceriffo, può avvenire o tramite negoziazione bancaria o con accredito su conto corrente della medesima banca, da aprire seduta stante (sic!).
Alla stessa maniera accade in quel di Parma che un giovanotto di pelle scura venga pestato per futili motivi da due valenti tutori comunali della legge, - assurti al rango di Polizia Locale, come nella più demenziale delle satire americane descritta nel serial televisivo Hazard, - e poi si inventino squallide giustificazioni per un comportamento inqualificabile e di evidente stampo razzista. Quel comportamento ormai serpeggiante per la Penisola smentito a gran voce persino dal ministro Maroni, notoria figura di punta della razzista formazione politica che risponde al nome di Lega Padana. Dopo l’accaduto, comunque, è vivamente consigliato a chiunque abbia fatto indigestione di tintarella o una dizione zoppicante della lingua italiana, di aggirarsi con fare al di sopra d’ogni sospetto per le vie di certe città del Paese, giusto per evitare il rischio di incorrere nelle ire di qualche tutore della (sua) legge, al quale i media hanno inculcato il pregiudizio che scuro è sinonimo di criminale e che una ripassatina preventiva non guasta di certo.
A Milano, pochi giorni or sono, un giovane ci ha rimesso la vita a causa del colore della sua pelle, ed anche in questo caso perché un negoziante ha ritenuto di potersi fare giustizia da solo a fronte di un presunto reato commesso dal poveretto, forse nel presupposto che trattandosi d'un nero poichi avrebbero messo in discussione si trattasse d'un farabutto certo.
E in questo clima di giustizia fai da te, singolare, poi, il provvedimento del questore di Catania, Michele Capomacchia, - cui si deve registrare la solidale copertura del prefetto, Giovanni Finazzo, - che ha disposto la chiusura per quindici giorni di un bar della città etnea, risultato ad un controllo affollato di pregiudicati intenti a sorseggiare un caffè o sgranocchiare una brioche. A poco sono valse le proteste dell’esercente, che ha fatto notare come non sia tenuto a chiedere l’esibizione del certificato di buona condotta agli avventori del suo locale, né che gli stessi fossero intenti a consumare reati di sorta all’irruzione delle forze dell’ordine. Il locale resterà chiuso tra le proteste della Confcommercio, prontamente intervenuta, e la frustrazione del proprietario costretto a subire l’arrogante atto di imperio dei due rappresentanti delle istituzioni. Non è dato sapere ancora se prefetto e questore intenderanno motivare con argomenti più convincenti il provvedimento assunto, visto che non appare né sufficiente né convincente che il provvedimento possa sostenersi per la semplice ragione che il locale in questione è sito in una delle zone più degradate della città.
Analogamente, non sembra plausibile immaginare che un pregiudicato, magari uno che ha già saldato ogni debito con la società, non abbia il diritto di bere un caffè in un pubblico locale o di leggere il giornale comodamente seduto al tavolino d’un bistrot e che, oltre tutto, le conseguenze della sua (sgradita) presenza ricadano sull’ignaro esercente. In ogni caso, dato che il principio che la legge vale per tutti dovrebbe rimanere salvo, - sebbene queste improvvisazioni lascino ben preludere cosa succederà dal giorno dopo in cui avrà trovato attuazione il tanto decantato federalismo, con annessa delega alle amministtrazioni locali di legiferare in materia d'ordine pubblico, - saremmo proprio curiosi di vedere quali provvedimenti sarebbero assunti dopo un’irruzione nella bouvette di Montecitorio, dove ci risulta che di pregiudicati ed amici di certa "gente di rispetto" ce ne siano tanti.

giovedì, ottobre 09, 2008

Congratulazioni, lei è un fallito


Giovedì, 9 ottobre 2008
Le dichiarazioni dello stato di insolvenza sono equiparate alla dichiarazione di fallimento solo nell'ipotesi in cui intervenga una conversione dell'amministrazione straordinaria in fallimento, in corso o al termine della procedura, ovvero nell'ipotesi di accertata falsità dei documenti posti a base dell'ammissione alla procedura”.
Così recita l’art. 7bis della legge di conversione del decreto Alitalia, varata in sordina a modifica della legge Marzano sul salvataggio delle grandi imprese e quella sul fallimento del 1942. Un articolo che con un colpo di spugna cancella i processi a carico di Cragnotti, Tanzi e mette in mano a Geronzi un salvacondotto formidabile, ponendolo al riparo dalle conseguenze delle indagini cui da tempo è sottoposto.
Vuole ,infatti, l’articolo che per essere sottoposti a processo per mala gestione occorre che l’azienda sia in stato fallimentare, poiché se la sua gestione viene affidata ad un commissario, che magari riesce a risollevarne le sorti dal precedente stato d’insolvenza, decade automaticamente ogni addebito a carico di colui che insolvente la resa. La perseguibilità rimane salva solo nel caso in cui il commissario non sia riuscito nel suo obiettivo di rilancio della società sottoposta ai provvedimenti di cui alla Marzano.
Ad apprendere notizie di questa portata, peraltro rese note grazie al lavoro di una giornalista RAI3, Milena Gabanelli, che ha condotto per il rotocalco televisivo Reporter un’inchiesta sugli ultimi dieci mesi di tormentata storia Alitalia, c’è da restare allibiti. “La fabbrica permanente delle leggi ad personam”, come La Repubblica ha definito il governo Berlusconi, ha ancora una volta partorito una norma che salva dalle conseguenze giudiziarie personaggi dal passato tutt’altro che cristallino, con l’intento ormai più che dichiarato di rendere legittima ogni nefandezza in campo economico e finanziario. Non era bastato addomesticare il reato di falso in bilancio. Adesso è lecita persino la bancarotta. Tutti reati appannaggio di un ceto sociale a cui non basta svillaneggiare il cittadino con l’impunità nel truccare i numeri della propria azienda, con un evasione fiscale che non ha pari nel mondo civile, con l’elusione delle più elementari norme di sicurezza sul lavoro o con lo sfruttamento di lavoratori sottopagati, assunti in nero ed in condizioni di precariato permanente. Adesso per costoro, solo perché sodali di una classe politica al potere che è in grado ormai di generare soltanto voltastomaco, arriva anche la licenza di imbrogliare i creditori, nella certezza che nessuno potrà mai contestare loro un appunto, una critica, una censura sul modo come hanno operato.
Stupisce, altresì, che la denuncia di questo ennesimo broglio ai danni delle fede popolare sia opera di un giornalista, di un cronista curioso, - e per questo senza dubbio scomodo, - che si avvede dell'inqualificabile disegno e lo propone all'attenzione della cronaca. Mentre chi fa politica per mestiere, quell’opposizione alla quale si affida quella parte del Paese che è più che stanca dello spettacolo indecoroso che ci ammannisce quotidianamente chi detiene il potere, nulla ha detto dell’ennesima scodella di fetido rancio che si stava preparando agli Italiani, dimostrando con ciò di essere molto più fantasma di quanto non esprima il suo velleitario governo ombra.
Né consola il sospetto che l’articolo in questione, qualora fosse approvato e divenisse legge dello stato, non mancherà di incorrere nella bocciatura della Consulta, che non potrà mai avallare un’ulteriore violazione indecente del principio di eguaglianza dei cittadini, cui non può essere riservato un trattamento differenziato davanti alla legge nell'incorrere in un analogo reato: l’insolvenza del piccolo artigiano e l’accertamento del suo stato fallimentare non può valutarsi diversamente da quello del presidente della Cirio o della Parmalat, della Postalmarket o della Filatura di Grignasco. La legge Marzano è stata pensata per difendere i creditori, tra i quali rientrano le maestranze, - prime ad essere colpite da una crisi aziendale ed anche’esse creditrici dell’azienda in gravi difficoltà, - e per evitare le gravi ripercussioni che ne deriverebbero al sistema economico dal crack di un complesso societario significativo per l'economia, non come un passaporto diplomatico pergarantire l’impunità degli amici degli amici.
Purtroppo non passa giorno senza dover prendere atto di come la misura sia sempre sul punto di lambire il bordo del contenitore ed esondare e c’è da sperare che quando questo malauguratamente dovesse avvenire, al deflusso incontrollato delle acque, non si sommi l’ira sempre più cieca che si sta sedimentando nel Paese tra le classi più deboli e più povere, costantemente vessate da una politica nepotistica e clientelare, a cui non potrebbe fare da deterrente il manipolo di bersaglieri su cui conta La Russa.
E in questo scenario di golpe strisciante Berlusconi ha persino la spudoratezza di dichiarare che «non può esserci dialogo con un’opposizione che parla di regime», come se queste critiche fossero il frutto di un abbaglio e non, piuttosto, la conseguenza degli stomachevoli olezzi d’olio di ricino che ormai ammorbano l’aria e tolgono il respiro.
Nel frattempo il ministro Tremonti, che ha dichiarato di aver apposto la sua firma sul provvedimento senza aver contezza di questi risvolti, ha minacciato le proprie dimissioni qualora l'articolo incriminato non venga cancellato, facendo così emergere che anche dentro la maggioranza si sta iniziando a determinare qualche strappo, e lasciando intravvedere come anche il fortino di Berlusconi possa cominciare a scricchiolare quando si tenta di mutare la coesione in connivenza .


(nella foto, Giulio Tremonti, Ministro dell’Economia, tra i firmatari della legge pro Alitalia, contenente le norme salva falliti)

venerdì, ottobre 03, 2008

Contratti – Una nuova stagione di conflitti?


Venerdì, 3 ottobre 2008
La vita continua. E chiusa per il momento la questione Alitalia il dibattito sindacale si è spostato su di un altro tavolo, quello di Confindustria, nel quale com’era stato già abbondantemente preannunciato si è aperto il confronto tra sindacati e rappresentanza dei datori di lavoro.
Com’era facile supporre, sul negoziato pesa il macigno dell’appena conclusa trattativa sulle sorti del vettore aereo nazionale, che, anche per la presenza di una Marcegaglia non più socio della cordata CAI, ma presidente di Confindustria, ha fin da subito fatto affiorare le divergenze con quella CGIL rimasta ormai unico elemento di contrapposizione vera alle non più celate ambizione di “normalizzazione” del gotha datoriale.
L’acquiescenza dimostrata dalla CISL di Bonanni e dalla UIL di Angeletti mal si conciliano con la visione di un Epifani che vede nel ruolo del sindacato centrale il garante del mantenimento e del governo delle leve salariali delle diverse categorie del lavoro, consapevole che il tentativo di trasferire alla contrattazione decentrata (quella aziendale, che avviene nel biennio precedente la scadenza dei contratti nazionali sugli specifici temi ammessi dal contratto nazionale medesimo) mal si concilia con la necessità di garantire un recupero generalizzato della forte inflazione reale registrata dal sistema economico complessivo. Inoltre, la debolezza dei sindacati aziendali e territoriali su argomenti di questa natura è tale da rendere del tutto vana una norma dei contratti nazionali che istituisse questo percorso.
Un secondo aspetto considerato irricevibile dalla CGIL è la richiesta avanzata dalla Confindustria di una tregua sindacale di sette mesi durante le fasi negoziali, da sanzionare nell’eventualità di violazione, che nei fatti garantirebbe una pace sociale senza alcuna contropartita e ad esclusivo beneficio dei datori di lavoro.
Epifani ha bocciato il documento proposto dalle imprese, definendolo «non coerente» rispetto alla piattaforma sindacale unitaria precedentemente presentata e, quindi, «inadeguato» in quanto «non allarga né innova la contrattazione di secondo livello, ma sovraccarica di regole e norme il contratto nazionale».
A queste conclusioni di Epifani, seguite dall’abbandono del tavolo da parte della CGIL, ha immediatamente replicato la Marcegaglia, che in perfetto stile in linea con i tempi ha dichiarato: «Non ci lasceremo condizionare dall’interdizione di un soggetto negoziale. Andremo avanti con determinazione e sigleremo un accordo con coloro che ci stanno», che equivale ad anticipare come le trattative ormai non potranno che ripercorrere il new deal inauguratosi con il caso Alitalia.
La situazione, ancorché disegnare scenari incerti di rinnovato scontro sociale che rischiano di caratterizzare l’autunno ormai in corso, comunque è sintomatica di un andamento che giorno dopo giorno tende ad espiantare i capisaldi di una democrazia fondata sul rispetto dell’avversario e sul suo riconoscimento di soggetto portatore di valori ed istanze di collettività significative. Tale prassi, che può anche produrre risultati interessanti per chi si assuma l’onere di renderla operativa, non ha radice nel nostro sistema dove, invece, rischia di divenire un meccanismo di turbolenza sociale senza precedenti, dove è possibile possano confluire le frange di una sinistra confinata all’emarginazione parlamentare ed in attesa della più favorevole delle occasioni per riconquistare il terreno perso.
In buona sostanza, si ha l’impressione che la piega perorata dagli atteggiamenti d’intransigenza manifestati da Marcegaglia rischi di condurre in un vicolo cieco da cui risulterà difficilmente uscire senza vincitori e vinti.
E’ certo che un sindacato costretto all’angolo, come qualunque altro soggetto, non potrà non tentare di assestare all’avversario una zampata di reazione. Un sindacato che mostra ancora aperte le ferite provocate dalla sofferta intesa sul welfare e pensioni e dall’accordo sul salvataggio Alitalia e che è peraltro in piena ebollizione interna per il ricambio della Segreteria, non è pensabile possa subire minacce e ricatti che quelle ferite farebbero risanguinare. Né un eventuale candidato alla Segreteria in sostituzione di Epifani potrebbe mai correre il rischio di vedere appannata la propria immagine ancor prima di essere riuscito ad insediarsi alla guida della CGIL, accettando compromessi di sorta.
C’è dunque un errore tattico nella strategia di Confindustria che persevera nel voler rompere il fronte sindacale, infierendo sulla componente confederale che in questo momento appare più debole a causa dei travagli interni. E si spera che di errore si tratti, poiché se d’altro si dovesse trattare, di un fiancheggiamento alle politiche autoritarie del governo o di un tentativo di colpo di mano per sbarazzarsi definitivamente di interlocutori scomodi e che si crede allo sbando, allora la sconfitta di questo disegno protrarrebbe nel tempo le sue conseguenze ed una nuova stagione di lunga instabilità si aprirebbe per il Paese.
(nella foto, un fortunato poster CGIL di denuncia del sistema di precariato nel nostro Paese)